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Come te la scuòrdi ‘sta ‘Mmacolàta ?! di Giuseppe Marano

Come te la scuòrdi ‘sta ‘Mmacolàta?! di Giuseppe Marano Caro Vittòrio! Scusa se ti scrivo ogni mòrta re papa (tra parèntesi: a Suorio dicono mòrta, a la Chiàzza dicono morte! Ricchezza linguistica. Almeno quella!); tu sai che non ti scrivo a bèllo ggènio, quànno mi schòcca ‘ngàpo, ma solo quando succede ‘na cosa gròssa, che può essere un po' importante e utile pure per gli altri;
non mi interessa la lagna personale (la nostra letteratura strabocca di piagnisteo!).
Ma veniamo a noi: come te la scuòrdi ‘sta ‘Mmacolàta?! L’ 8 dicembre scorso.
Te la faccio corta: dopo aver preso una comprèssa non riesco più ad andare a bagno: blòcco urinario. Due di notte. Mi vedo perso.
Che fai? Solo chi c’è passato può capire. “Qua sotto c’è la guardia medica!”. Ci vado subito. C’è una giovane dottoressa, espongo il problema sottolineando la necessità impellente di un catetere e subito mi gela: Non posso metterlo(!) dovete andare al Pronto Soccorso più vicino.
E chi t’accompagna? Nessuno in famiglia è in condizione di accompagnarmi, e non sentendomi di guidare, chiamo un amico che svolge servizio di accompagnamento co la macchina, ma lui e tutti gli operatori purtroppo sono impegnati.
Mi vedo costretto a…portàrmi da solo al PRONTO SOCCORSO più vicino: Sant’Angelo Lombardi, ove mi apre un infermiere giovane il quale sentendo il mio accidente mi gèla per la seconda volta: non c’è il reparto di UROLOGIA, però, avvertendo l’urgenza del problèma, sembra improvvisamente disponibile a mettermi il catetere, MA un vocione, con inflessione vocale velletariamente partenopea, lo sorprende alle spalle: “E chi s’ ’a pìgl’ ssà rescponsabilità!?” (= “e chi si prende questa responsabilità!”): dev’essere un collega più anziano che dall’interno quasi lo rimprovera. “Deve andare al PRONTO SOCCORSO, a Ariano o Avellino!”.


Questo il secondo “soccorso”: quello di Santàngilo.
Non ce la fàccio a replicare e, devo anche cercare di tranquillizzare il familiare che m’accompàgna. Un’altra stampìta per Avellino? E chi ce la fa!
“A pena” (il caso di dire) faccio ritorno a casa dove un familiare chiama il Servizio Infermieristico H 24 (!) per avere un operatore a domicilio, risposta: “Signò so’ re quàtto re notte!”, a significare l’antifona: “Ma tu ha’ pèrsa la capo!”= nessun operatore disponibile, nonostante la formula chimica: H24.
Chiamiamo il 118: miracolo, un barlume di voce umana accorda l’invio di un’ambulanza che dopo poco arriva, due infermieri professionali, compìti, svolgono con cura il loro intervento.
Il mio ringraziamento va a loro.
Eccezione alla sofferta regola: vilipendio della sofferenza.
Caro Vittorio se la sincerità è per gli amici, ti ho scritto senza alcuna speranza…migliorativa; per carità le dovute eccezioni sono d’obbligo: <<exceptis excipiendis>> = …fammelo dire in latino, se no, che l’ho studiato a ffà per tant’anni? Per scoprire la “luna re Nàpoli”? -come dicevano i mitologici sorevesi di Nànzi la Cupa.
Mi stavo dimenticando un piccolo corollario. Qualche giorno fa vicino alla posta incontro un vecchio amico: -Come stai Peppì?- Come non raccontargli la fresca storiella. Segue il mio racconto non meravigliato, e sono io che me ne meraviglio; mi dice: -Mi fai rivivere quello capitato a mio padre 28 anni fa stesso posto. Non c’era chi gli mettésse un catetere! Dovetti accompagnarlo ad Avellino!- Mentre parlava ricordavo un detto nostrano: “Guard’ a li uài re l’àti ca s’addòrcano li tua”, scoprendone l’egoismo di fondo: l’insensibilità o meglio il sollievo per i mali altrui!
Sparo qualche bbòtta di ricorso, esposto-colpo a ricerca di calore ai… Capaddòzi? Ma che ne cavo, povero féssa! I Di Pietro, i Borrelli & C. che fine hanno fatto? Saranno cancellati dalla storia perché colpevoli di essere anticorpi.
Qua non ce vòle la zéngara o un principe del foro per capire che sono stato, con pregnanza simbolica, vittima di “omissione di soccorso”, ma non da parte di un passante che mi trova a terra, ma da un servizio nazionale che deve soccorrere la tua salute. Caro Vittorio, ma…a che gioco giochiamo?!
Ti saluto aff.te
Giuseppe Marano

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Finanziamento a fondo perduto per aziende agricole Consigliato da Maria Grazia Cianciulli

Finanziamento a fondo perduto per aziende agricole - PNRR - MISSIONE 2 COMPONENTE 1 (M2C1) Investimento 2.3 – Innovazione e meccanizzazione nel settore agricolo e alimentare Sottomisura - Ammodernamento dei macchinari agricoli che permettano l’introduzione di tecniche di agricoltura di precisione.

Obiettivo

L’investimento 2.3 sottomisura “Ammodernamento dei macchinari agricoli che permettano l’introduzione di tecniche di agricoltura di precisione” prevede l’erogazione di un contributo in conto capitale a fondo perduto per l’ammodernamento dei macchinari agricoli, da destinare alle imprese agricole e alle imprese agro-meccaniche ai fini di un complessivo ammodernamento del parco macchine in coerenza con la diffusione delle migliori tecnologie disponibili che consentono un minore impatto ambientale del settore agricolo. L’investimento guarda, altresì, ai cambiamenti climatici in atto che rendono sempre più frequenti le emergenze legate a stati di siccità che coinvolgono anche il settore agricolo le cui produzioni di qualità dipendono strettamente dalla possibilità di irrigare le colture, in particolare proprio quelle a maggiore valore aggiunto.

Descrizione degli interventi

Sono ammissibili i seguenti investimenti:

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Il Natale e una storia di Miseria di Graziano Casalini

Il Natale e una storia di Miseria di Graziano Casalini - Una vecchia storia di Natale, era l'anno 1950, io avevo otto anni, vivevo con i genitori e mia sorella più piccola, che aveva solo cinque anni, in una antica casa in affitto nella bella campagna, sulla riva destra del fiume Arno, in un piccolo borgo chiamato Osteria, tagliato in due dalla via provinciale Lucchese o Francesca, che collegava il paese di Empoli a quello di Fucecchio, in Toscana, i due centri più vicini facilmente raggiungibili con i mezzi allora disponibili, quasi esclusivamente biciclette, motorini "mosquito", qualche rarissima auto "topolino o balilla" alcune motociclette, poi i barrocci trainati da un cavallo usati per ogni tipo di trasporto merci e i mezzi agricoli, carri trainati dalle vacche ad uso esclusivo dei contadini per il trasporto da e per le coloniche di tutto quello che erano i raccolti dei poderi e i vari attrezzi per lavorare la terra. Alcune carrozze decappottabili e piccoli calessi, in dotazione alle famiglie di ricchi proprietari terrieri si vedevano transitare in modo spettacolare, per noi piccoli bambini, sulla via provinciale, suscitando quella che oggi si definirebbe invidia.

La grande maggioranza dei compaesani viveva con ciò riusciva a produrre nella coltivazione dei terreni col sistema allora molto diffuso della mezzadria. Dopo la seconda guerra mondiale, la miseria attanagliava più o meno tutte le famiglie paesane, soprattutto quelle non impegnate in agricoltura, i lavoratori delle fabbriche erano quelli che dovendo comprare di tutto, soprattutto il cibo, ma anche il rimanente necessario per vivere. Le fabbriche non si erano ancora riprese del tutto dall'evento bellico, e gli operai dovevano per alcuni periodi rimanere disoccupati. In alcune famiglie anche le donne, oltre che alla cura della casa cercavano di guadagnare qualcosa facendo le trecciaiole o le rivestitrici di fiaschi. Comunque, insieme alla povertà c'era tanta tantissima dignità, e non passava giorno che anche il più miserabile del paese, si facesse vedere ben vestito alle varie feste religiose, messe e funzioni varie celebrate dal nostro Parroco nella bella Chiesa di S.Maria Assunta, oppure alla Casa del Popolo " il diavolo e l'acqua santa" dove oltre alle riunioni di partito, vi erano tutte le sere appassionate discussioni sulle varie partite di calcio di cui si ascoltavano le radiocronache la domenica pomeriggio.

Un giorno alla settimana, si riunivano i tanti cacciatori a raccontare ognuno le proprie avventure venatorie, c'era poi il solito gruppetto di giocatori incalliti che per poche lire passavano ore e ore a giocare a carte e a biliardo, quasi tutti fumavano le sigarette di allora, senza filtro oppure fatte a mano con la scatoletta del tabacco e le cartine, riempiendo il locale di fumo che rendeva l'aria quasi irrespirabile. Gli unici due principali ritrovi dove distrarsi e dimenticare le fatiche delle lunghe giornate di lavoro, erano frequentati da tutti i paesani. La domenica in chiesa, alle tre o quattro messe del mattino, partecipavano indistintamente oltre alle donne, anche moltissimi uomini. Per dare una idea della povertà, nei due negozi di alimentari, uno privato, l'altro gestito dalla Cooperativa di Consumo, nessuno pagava la spesa giornalmennte, si usava scrivere gli importi su un doppio libretto e pagare o con degli acconti ogni tanto, o a saldo quando capitavano i periodi migliori per quanto rigurdava i raccolti dei contadini, o un lavoro continuativo per gli operai. Le grandi feste, specialmente il Natale, il Capodanno, l'Epifania e la Pasqua, erano quanto di più bello ci poteva essere per noi bambini. I nostri genitori, nonostante la miseria, cercavano in quei giorni di non farci mancare niente, anche se per loro era molto ma molto difficile. Alcune cose: oggetti, giocattoli, dolciumi, si vedevano molto di rado, però per Natale nonostante le ristrettezze economiche in cui si trovavano la maggioranza delle famiglie, non mancava qualcosa che ci potesse far divertire e rallegrare.

Si preparava una specie di albero di Natale, un ramo di pino o di qualche altra pianta sempre verde, piantato nel terriccio di un vaso, con sotto una cassetta di legno vuota foderata con dei ritagli di stoffa, cassetta che sarebbe servita la notte di Natale al Babbo, quello vero, per depositarci dentro, le poche cose che avremmo voluto avere anche durante gli altri giorni dell'anno. Un piccolo giocattolo di lamiera, una pistola a fulminanti, un fucilino col sughero, una moto con carica a molla, o una bambolina, completa di accessori per cucire, piccoli recipienti stoviglie e finti fornellini per cucinare, o piccoli utensili da parrucchiera, per le femminucce e poi la frutta, qualche arancia, qualche mandarino o dei fichi secchi. I dolci semplici tipici natalizi toscani, i cosiddetti cavallucci, poche caramelle, cioccolatini, torroncini si trovano appesi qua e la sull'albero.

La mattina di Natale, il suono a doppio delle campane, cominciava a creare l'atmosfera natalizia, ci si svegliava prima del solito per correre a vedere cosa ci aveva lasciato Babbo Natale nella notte. Eravamo contentissimi anche se quello che si trovava era poco rispetto a quello che avremmo voluto. Insieme a miei primi alberi di Natale, io facevo anche un piccolo presepe, costruendo la capanna della nascita, la stella cometa, le casette, le montagne, il cielo stellato, la campagna con tanto di stradine inghiaiate, il fiume, la cascata, il ponte, il mulino, il laghetto con un pezzetto di vetro o di specchio, tante piccole piante, il prato fatto esclusivamente da muschio fresco raccolto nei boschi vicini, il tutto sul piano di un piccolo tavolo. Per la preparazione dei vari soggetti, capanna, case, ponti, rocce, usavo vecchie scatolette di cartone, stecche di legno ricavate dalle cassette della frutta, tronchetti ricavati dalla potatura delle viti e degli olivi.

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Laurea Federica Di Genova

Congratulazioni a Onorina Cianciulli e a Innocenzo Di Genova per la Laurea in Ingegneria Biomedica conseguita dalla figlia Federica Di Genova, Università degli studi di Napoli Federico II°

V.S.

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Laurea Antonio Dragonetti

Congratulazioni ad Antonio Dragonetti, figlio di Walter e Loredana Bosco , ha conseguito presso L'Università di Salerno la Laurea in Scienze Ambientali. 

 

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Svizzera chiama Irpinia per l’eccellenza del farmaco . Salvatore Cincotti incontra il Ministro Piantedosi

Una storia di eccellenze tra Svizzera e Sud Italia, dove è quest’ultimo a brillare, con un centro di ricerca e sviluppo all’avanguardia e guardato con ammirazione da tutto il mondo.
Parte dall’intuizione di Salvatore Cincotti, amministratore delegato e socio fondatore di Altergon Italia, una realtà che nel bel mezzo dell’Alta Irpinia è riuscita a dare lavoro a più di 300 persone: un’opportunità rara per lo sviluppo del Meridione, grazie ad un’azienda farmaceutica che punta sulla qualità assoluta e su metodi rivoluzionari (e brevettati) nel campo delle applicazioni transdermali e delle biotecnologie industriali.
Non solo: la componente umana è altrettanto importante e con il 40% di laureati e numerosi PhD, a Morra de Sanctis si è creato un vero polo di cervelli e personale altamente specializzato che dimostra concretamente che è possibile fare impresa e ricerca di alto livello anche in territori “diperiferia”.

“Collaboriamo attivamente con varie Università del Sud Italia” ci conferma Cincotti, che sottolinea il valore del distretto “Campania Bioscience” (della cui nascita è uno dei responsabili), che vede la partecipazione di 91 Imprese dei settori farmaceutico, agroalimentare e cosmetico, insieme ad importanti realtà accademiche come l’Università Federico II e Centri di Ricerca specializzati (TIGEM, CEINGE e BIOGEM). Questo ha permesso una forte accelerazione nell’ambito del Biotech, con un sistema di borse di studio per gli studenti svantaggiati e più meritevoli che porta, in moltissimi casi, ad un’assunzione diretta.
Non solo laureati e titolari di dottorati (percorso nel quale vengono attivamente assistiti da Altergon) ma anche diplomati in materie scientifiche ed economiche, chimici, meccatronici, inseriti in un contesto che li valorizza umanamente e professionalmente.
Proprio per questo motivo Cincotti confessa il suo rammarico per l’annunciata riduzione degli sgravi fiscali per il “rientro dei cervelli”, a fronte di molti ricercatori e personale con altissime competenze sviluppate in prestigiose realtà estere che tornerebbe molto volentieri nel nostro Paese, arricchendo con la loro esperienza internazionale tutto l’indotto. Altergon è riuscita ad affermarsi sui mercati mondiali con l’altissima tecnologia dei suoi impianti e processi e grazie ad una strettissima collaborazione col mondo accademico e della ricerca, pur operando da una zona interna del mezzogiorno d’Italia dove non esisteva alcuna “cultura” per questo settore. Ecco perché la “scommessa” di Cincotti e dei partner svizzeri è stata decisamente vinta, a dispetto delle perplessità di molti, ma non di Arturo Licenziati, Presidente di IBSA –
Institut Biochimique SA, che fin da subito ha deciso di credere al progetto di investire in Irpinia con l’ambizione di realizzare un centro di rilevanza mondiale. Un percorso che nasce da lontano: Cincotti ha una lunga esperienza internazionale, dalla Cina alla Svizzera, dove nel 2000, entra a far parte del gruppo IBSA-Altergon, creando dopo due anni Altergon Italia e compiendo una scelta controcorrente rispetto alla delocalizzazione verso i paesi in via di sviluppo imperante in quegli anni.

Altergon Italia è oramai un punto di riferimento sul mercato italiano ed internazionale, leader in Europa nella produzione di cerotti medicati Hydrogel e di acido ialuronico altamente purificato, un componente dei tessuti connettivi, impiegato in medicina nelle patologie degenerative o traumatiche delle articolazioni o nel settore della dermatologia estetica.
Soprattutto il primo ambito ha avuto un grande sviluppo, anche sotto forma di film orodispersibili, dove il know-how del Gruppo italo-svizzero gioca un ruolo importante, grazie anche ai continui investimenti sia in Ricerca&Sviluppo che in nuovi siti produttivi dotati delle tecnologie più avanzate. Il sito campano è ubicato su un’area di circa 65 mila mq e può contare su 6 reparti produttivi, magazzini automatizzati, un centro perl’R&D ed è stato oggetto di ingenti investimenti, a partire dal 2006, che, al termine della nuova tranche da 50 milioni di euro del contratto di sviluppo realizzato con InvItalia, prevista nel 2026, avranno raggiunto la cifra di 180 milioni di euro.
La modalità prevede, come sottolinea orgogliosamente Cincotti, una suddivisione tra 1/3 di mezzi propri, 1/3 di indebitamento bancario ed 1/3 proveniente da incentivi pubblici per l’utilizzo di fondi europei, sia attraverso strumenti regionali che nazionali

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Consegna Borsa di studio In memoria del prof. Aretino Volpe, preside

Consegna Borsa di studio In memoria del prof. Aretino Volpe, preside - Mercoledi’ 20 dicembre 2023 alle ore 18.00  presso l’Istituto Superiore R. d’Aquino in Montella verrà consegnata   la Borsa di studio in  Memoria del preside prof. Aretino Volpe  all’alunna Giulia Sansone , della classe V E  anno scolastico 2022-23     I familiari del Prof. Aretino Volpe, scomparso nel 2011, hanno istituito una Borsa di studio annuale “ Alla Memoria” , da assegnare ad un alunno\a delle classi quinte dell’Istituto Superiore R. d’Aquino in Montella, che ha conseguito il miglior risultato scolastico nell’anno scolastico di riferimento .
L’Alunno\a destinatario\a del premio di mille euro concesso dai familiari del Preside Aretino Volpe viene individuato \a dall’Istituto Scolastico superiore di Montella
L’iniziativa, al tredicesimo anno di istituzione , vuole tramandare il ricordo del prof. Aretino Volpe presso le nuove generazioni di alunni nell’Istituto scolastico statale “R. d’Aquino “ che lo ha avuto per venti anni come Docente di Italiano e Latino e successivamente , per altri dieci anni, come Dirigente scolastico , contribuendo perché l’Istituto si affermasse come Scuola di qualità e d’innovazione, agenzia educativa autorevole e riferimento per le famiglie e per il territorio
La Borsa di studio vuole ricordare Aretino Volpe nel modo più aderente ai valori che hanno guidato il suo agire professionale :l’aver sempre creduto in una Scuola pubblica, inclusiva, democratica, capace di offrire opportunità educative a tutti gli alunni e , nello stesso tempo, saperne premiare l’ impegno e il talento.
La sua azione è stata ampiamente riconosciuta dalla Scuola che nel 2011 gli ha intitolato l’Aula Magna dell’Istituto .

 V.S.

 

 

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Criminalità e paure superstiziose di Mario Garofalo

Criminalità e paure superstiziose di Mario Garofalo L'esteso territorio del Montellese, con le sue montagne, i boschi intricati di vegetazione, anfratti e zone rupestri con grotte e bui recessi per animali selvaggi, aveva da secoli costituito un naturale rifugio protettivo e difensivo per briganti e delinquenti ricercati dalla giustizia.
Il brigantaggio era stata gravissima malapianta e fonte di danni per gli abitanti fin dai tempi della dominazione angioina. Nel tempo era andato sempre più intensificandosi, fino ad assumere la connotazione di un fenomeno criminoso a carattere endemico: una cancrena inestirpabile, contro cui le norme repressive del governo e dei baroni (il cui comportamento, per altro, era talvolta, nei confronti dei briganti, ambiguo, contraddittorio ed "interessato") scarso successo riuscivano a conseguire.
Nel Seicento, le precarie condizioni economiche della popolazione, le epidemie, le calamità, il lassismo morale, il malgoverno feudale favorirono uno sviluppo vertiginoso del banditismo e della criminalità comune.
Dalle zone montagnose i banditi scendevano in paese, intimorivano e depredavano, impedivano alle persone di fuoriuscire dai centri abitati per svolgere le attività lavorative e commerciali.
Commettevano impunemente furti, grassazioni, sequestri, stupri ed omicidi, incendiavano i raccolti, rubavano le bestie da lavoro. Si riunivano in piccole bande, spesso costituite da persone del posto, a cui si aggregavano vagabondi e nullafacenti, e talvolta con­tadini o braccianti, caduti in miseria o per un raccolto distrut­to da una grandinata o impossibilitati a saldare debiti usurari, o ricercati dalla giustizia per reati commessi.

Ma la loro azione criminosa mai si configurò come protesta sociale mossa da antagonismo cli classe o da finalità politiche, né come manife­stazione cli vendette personali, bensì come mera sete cli denaro e di ricchezze.
Di qui il favoleggiare, nella fantasia popolare, di leggendari "tesori di briganti" nascosti sottoterra o in grotte inaccessibili, come il tesoro della "grotta del caprone", custodito e difeso perennemente dal fantasma di un'anima perduta, costretta ad un'eterna convivenza col demonio.

Particolarmente violente furono le azioni delittuose della banda del capobanclito Micullo Alfano e cli quella di Francesco Corsi o ( detto Vecchiarella) che scorrazzavano con razzie ed «enormi delitti» nelle contrade di Montella e della vicina università cli Bagnoli •

 

Oltremodo facinorose si dimostrarono nel periodo postpestilenziale le squadre brigantesche del montefuscano Carlo Petrillo e del calabrese Paolo Fioretti, che, per altro, poterono avvalersi della tacita connivenza del barone Antonio Grimaldi interessato a reprimere le resistenze della popolazione angariata dall'imposizione cli straordinarie gabelle ed a restaurare l'ordine preesistente. Petrillo e Fioretti, che congiuntamente avevano formato una numerosa banda, costituita da malviven­ti, da soldati disertori e da vari masnadieri (circa 160 persone), commettevano razzie, furti e rapine.

 

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Pietro Sica, ancora oggi è noto come “Il Presidente”.

flashPietro Sica, nato il 23 ottobre 1944, è il primogenito di tre figli. Originario di Montella, il suo nome completo è Pietro Renato Carmelo, ma, a causa delle trasformazioni dialettali locali, è conosciuto da familiari e amici con il secondo nome Renato.

La sua storia inizia nel 1955, quando completa la "laurea" dell quinta elementare. Nonostante la famiglia decidesse che non dovesse continuare gli studi tradizionali, Pietro viene inviato a imparare un mestiere e finisce per lavorare come sarto grazie a un parente.

 

 

 

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Grano, farina, mugnai e mulini di una volta a Montella di Nino Tiretta

Grano, farina, mugnai e mulini di una volta.    Finalizzata al ricavo e alla produzione della farina, la macinazione del grano e degli altri cereali in origine esigeva un lavoro manuale duro e defaticante nonché strumenti che nel corso dei secoli sono evoluti fino alla “scoperta” del “molitura” vale a dire all’ attivazione e allo sfruttamento di un lavoro meccanico prodotto inizialmente dall’uomo, poi dalla spinta di un animale e, in epoche successive, dalla energia dell’acqua e del vento prima e dall’energia elettrica poi.


In origine per la macinazione del grano venivano usati i mortai di pietra entro i quali si frantumavano i chicchi dei cereali attraverso pestelli, anch’essi di pietra o legno duro, oppure il grano veniva macinato attraverso rulli che, a mano, si facevano rotolare su una base di pietra.

Derivante dal latino “mola-molae” quella pietra venne denominata “mola” da cui discende poi il termine “mulino” o “molino”; il termine “mola”, nella sua globalità, sta dunque ad indicare una strumentazione che produce un lavoro meccanico utile sia per la macinazione di cereali e sia per la produzione di farina o di altre materie prime.
Poiché nell’antichità i mulini o le macine per funzionare avevano necessità della forza umana o animale qualcuno riferisce che, “in modo non corretto”, la parola “mulino” possa derivare da “mulo”.
Per estensione il termine “molendinum” (proveniente da “mola”) designò anche la struttura e l’edificio che ospitavano la strumentazione della macinazione del grano e pertanto il conduttore del mulino fu chiamato “mugnaio“.
Al di là di queste sottigliezze etimologiche, c’è da rimarcare il fatto che con il passare del tempo per la molitura si cominciarono a costruire specifiche “strutture” funzionanti con la sola forza dell’uomo e degli animali i quali azionavano le macine, ovvero pietre discoidali affacciate e messe una sopra l’altra di cui, una fissa e l’altra rotante intorno al suo asse centrale.
Quel tipo di macinazione rimase pressoché invariata fino a quando fu introdotto un impianto tecnologico per il cui funzionamento si sfruttava sia l’energia dei corsi d’acqua sia quella del vento, “energie naturali” queste che, in epoche successive, furono sostituite – in un prima fase – con il vapore e – in un’epoca successiva – con l’elettricità per la cui utilizzazione fu poi possibile sviluppare impianti tecnologici più evoluti che consentirono l’impego di macchine decisamente più moderne e funzionali.
E’ fuor dubbio che storicamente il vetusto mulino (sia ad acqua che a vento), nelle sue espressioni più complete, costituisce, a mio avviso, una tra le massime invenzioni tecnologiche non solo dell’antichità, ma anche e soprattutto dell’età medievale e moderna, periodo in cui esso si presentava come una meravigliosa macchina tuttofare soprattutto se considerata nei suoi vari e differenziati impieghi in cui viene a operare.


Apparentemente il funzionamento di un mulino ad acqua non sembra complesso e la sua straordinaria semplicità è essenzialmente nella forza dell’acqua che, scorrendo o cadendo dall’alto, imprime un movimento rotatorio a una grande ruota di legno munita di ampie pale; quella ruota muove appositi ingranaggi che trasmettono un moto circolare ad una macina di pietra, la quale, a sua volta, ruotando sulla pietra fissa, tritura i cereali.
Resta il fatto che le vicende storiche del mulino azionato dall’energia idraulica nei primi secoli della sua storia sono alquanto frammentarie e poche sono sia le fonti storiche e sia le testimonianze archeologiche ad esso riferite.
Marco Vitruvio Pollione, vissuto nella seconda metà del I secolo a.C. è il teorico dell’architettura più famoso di tutti i tempi ed è lui che parla di mulini ad acqua,
Nel suo “Trattato d’architettura” Vitruvio, dopo aver descritto alcune ruote per il sollevamento dell’acqua, è il primo scrittore romano che (nella prima età augustea e più precisamente intorno agli anni 16-15 a.C.) parla del mulino mosso dall’energia idraulica.
Egli descrive certe ruote costruite sui fiumi le quali, poiché provviste al loro perimetro di pale e colpite dall’acqua, già nell’antica Mesopotamia, le fanno ruotare per semplice spinta della corrente senza ricorrere al peso dell’uomo.
E’ comunque fuor dubbio che l’invenzione del mulino a ruota d’acqua (sia verticale che orizzontale) è avvenuta attraverso molteplici passaggi e successivi modifiche.
E’ noto che la sua diffusione sia avvenuta per gradi, prima nei regni di cultura ellenistica e poi nelle rimanenti terre del mondo romano con preferenza in quelle dotate di grandi fiumi non a carattere torrentizio.
E’ altresì noto che fu comunque durante il Medioevo che l’impiego dei mulini ad acqua diventò comune ed è documentato che ordinariamente i signori feudali riservavano a se stessi il diritto di impiantare mulini traendo da questa sorta di monopolio un reddito, a danno della popolazione, di molto cospicuo.

Con il trascorrere del tempo la tecnica funzionale dei mulini si evolve e alla fine, rispetto ad altri sistemi, si perfezionarono e si consolidarono due tipi di mulino: quello a ruota verticale e quello a ruota orizzontale.
La fortuna e la diffusione del mulino ad acqua nel corso dei secoli è stata dunque crescente e venne un po’ meno, ma non fu subito incrinata, nella seconda metà del XVIII secolo, quando lo scozzese James Watt costruì nel 1782 la prima motrice rotativa a vapore per mulino da grano.
Da quella scoperta nacque così, dopo alcune incertezze, il “mulino a vapore” che nel corso del XIX secolo e ancor più nel XX secolo, finì gradualmente per soppiantare (unitamente all’impiego del laminatoio) il mulino ad acqua o a vento.
Successivamente, con le molte scoperte sull’elettricità avutesi già nel XIX secolo, avvenne che con la scoperta dei “motori elettrici” – all’inizio del Novecento – l’elettricità sostituì progressivamente le altre e varie forme energetiche (per esempio quella del vapore, da gas illuminante, da carbone, ecc. ecc.) per cui fu l’elettricità ad alimentare (appunto con l’introduzione dei motori elettrici) tram, treni, filobus, metropolitane e la generalità dei macchinari sia industriali che artigianali.
A partire dagli anni 1960 anche le macine dei mulini utilizzarono, adottando nuove tipologie e nuovi macchinari di macinazione, l’elettricità per cui sia il mulino ad acqua che quelli a vento e|o a vapore furono sempre più relegati ad essere una singolare testimonianza storica del passato, monumenti stupefacenti di un tempo che oggi non c’è più.
Argomentando di mulini non è superfluo evidenziare che il loro progressivo incremento di utilizzazione e di diffusione è assolutamente correlato alla cultura e al consumo di cereali e di granaglie di vario genere.
Nella storia del cammino alimentare dell’umanità è noto che, forse ancor prima della scoperta del fuoco, l’uomo, raccogliendo i semi delle graminacee, “scoprì” che questo cibo – rispetto agli altri vegetali – offriva maggiori vantaggi in quanto che quei semi, oltre ad essere più nutrienti, si conservavano a lungo ed erano facilmente trasportabili.
Da ciò discese che i primi sforzi per la coltivazione della terra s’indirizzassero verso i cereali ed oggi, per altre motivazioni similari, oltre la metà della superficie agricola mondiale è coltivata a cereali.
Da alcune ricerche antropologiche sembrerebbe che la più antica forma vegetale piantata dall’uomo sia stata l’orzo, e tracce ritrovate in un villaggio francese attestano questa attività a circa diecimila anni.

E’ anche noto che – dopo i primi tentativi fatti con l’orzo – le coltivazioni di cereali si estesero in base al clima e al territorio per cui il frumento fu principalmente coltivato nella regione mediterranea, l’avena e la segale nelle aree del nord, il sorgo nel continente africano, il riso in Asia e il mais America.
Coltivato e utilizzato dall’uomo fin dai tempi più antichi, il grano o frumento ha – dunque – accompagnato l’evolversi della nostra civiltà.
Originario, pare, dell’Asia minore, nella zona cosiddetta “Mezzaluna Fertile” posta tra i grandi fiumi Tigri ed Eufrate, il grano è tra le prime piante coltivate dall’uomo dopo il passaggio dallo stato nomade a quello sedentario.
Alcune inconfutabili testimonianze attestano che la coltivazione e la raccolta di questo cereale e la sua susseguente macinazione e produzione di pane sono presenti e si ritrovano sia nell’antico Egitto sia in diverse altre antiche civiltà quali Assiri, Babilonesi e Cinesi.
Adatto ad essere macinato e a diventare farine, il frumento ha, la capacità di dare origine al pane azzimo; inoltre la farina, come è già noto, se mescolata ad acqua e lievitata, dà consistenza ad un impasto da cui se ne derivano pane, paste fresche e dolci da forno che restano alla base della nostra alimentazione, in particolare nelle aree mediterranee.

Sembra che siano stati gli egiziani a scoprire che lasciando fermentare l’impasto di farina si sviluppa gas capace di far gonfiare il pane; in tal senso in Egitto sono stati ritrovati, in alcune tombe lungo il corso del Nilo, affreschi che ritraggono la coltivazione del grano, la raccolta, la macinazione, la miscelatura e la cottura al forno e in una tomba è stata finanche ritrovata una forma di pane a focaccia piatta di circa 3.500 anni fa.
E’ dunque chiaro che, come s’ è già detto, sia il consumo di cereali e di granaglie di vario genere, sia la generalizzata esigenza di macina del grano, sia il progressivo incremento dei mulini e sia la stessa l’arte della molitura si configurano come elementi e momenti importanti e significativi della civiltà occidentale in quanto che i mulini hanno avuto, nel coso del tempi, incidenze correlate ad interessi d’ordine sociale, politico, economico e tecnologico molteplici e quanto mai varie ed interessanti.

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Il Paradiso parallelo di Totoruccio Fierro

IL PARADISO PARALLELO   ( Mi scuso per la lunghezza del racconto, ma il fantasioso argomento trattato mi ha preso letteralmente la mano ).   L' altra sera è venuto a trovarmi Arturo, un amico fedele ed affettuoso.
Ci siamo accomodati vicino al camino, dove dalla legna, tra insistenti crepitii e scoppiettii, si alzavano sinuose lingue di fuoco di colore giallastro e rosso scarlatto.
Esse, simulacro di vita, sembravano, con accanita ostinazione, voler convincerci che stavano facendo l'impossibile per sconfiggere il freddo intenso dell' ambiente!
Insieme abbiamo frequentato le classi della Scuola Elementare e della Media ed abbiamo trascorsi giorni e momenti felici e spensierati della nostra infanzia e adolescenza.
Dopo l'adempimento dell' obbligo scolastico, le nostre vie si sono divise, senza peraltro farci mai perdere di vista.
Egli, infatti, seguì con profitto l' attività commerciale del padre.
Preferiva, tra l'altro, le letture di carattere filosofico, che, come è noto, aiutano a trovare le risposte alle domande fondamentali dell' umana esistenza, favorendo lo sviluppo del pensiero autonomo, critico e riflessivo.
Da giovane, esercitò, poi, anche l'interesse per l'apprendimento di uno strumento musicale a corde : il Maestro, cui l' affidò il padre, viste le sue dita "corce"(sic!), cioè corte, gli consigliò il Bengio (Banjo)!
Nonostante il suo impegno, la sua determinata applicazione, la sua volontà, l' apprendimento si rilevò ben presto un amaro e clamoroso fallimento!
Appese il Bengio al chiodo e si promise che mai nessuno avrebbe pizzicato le sue corde!
A causa di questa sua sfrenata passione, nel Paese gli fu tosto affibbiato il soprannome di "Amico Fritz", mutuandolo dall' omonima Opera del Mascagni!
Ma adesso veniamo a noi...
Appena seduti, mi accorsi che Arturo era agitato, contrito, sofferente, rabbuiato!
Gli chiesi, allora, quale fosse il motivo del suo turbamento ed egli mi confidò che la notte precedente si era girato e rigirato decine di volte nel letto, senza riuscire a prendere sonno!
Non aveva smesso di pensare e riflettere sul destino che sarebbe toccato alla sua anima dopo la sua dipartita!
Aveva sempre vissuto con rettitudine ed onestà, non aveva mai recato nocumento a chicchessia e quindi secondo i dettami e i principi della Religione cattolica.
cristiana, la sua anima era destinata ad andare di filato a far compagnia ai Beati in Paradiso!
Proseguì, poi, con convinzione filosofica ed escatologica, a formulare congetture ed ipotesi strane, bizzarre e singolari : egli non desiderava assolutamente che la sua anima andasse nel Regno Celeste!Si poneva il problema di come avrebbe trascorse le intere giornate in quel posto, girovagando a piedi nudi sulle nuvole, senza la mia compagnia ( meno male!), senza la presenza di donne, senza discoteche, cinema, bar, ristoranti, senza poter bere birre, vino, senza poter giocare a poker e tressette, senza poter bere latte, in assenza di erbe e pascoli per i bovini, insomma in assenza di tutti quei beni che rendono la vita degna di essere vissuta!Cinicamente, era più che convinto che il Paradiso così strutturato, più che un premio, un' adeguata ricompensa riservati a coloro che avevano condotto una esistenza da "giusti", costituiva, invece, per lui una smaccata pena, una punizione, un castigo esemplare!Allora, perplesso, gli chiesi dove volesse che la sua anima trovasse posto!

Sostenne, continuando, che non desiderava neppure che la sua anima fosse collocata nel Purgatorio, tra " color che son sospesi ", dove non si è nè carne e nè pesce e dove poteva essere messo in una delle sette Cornici, lì previste, perchè lui non era un...quadro!Meno che mai, ovviamente, voleva che essa fosse scaraventata nel Regno degli Inferi, dove una moltitudine di Diavoli assatanati ti picchiano da orbi tutti i giorni con pesanti randellate, mazzate, legnate, dove rischi di essere immerso eternamente nel fango, nel ghiaccio, nello sterco e dove ti aspetta con impazienza Lucifero, orrida e pelosa creatura con tre facce, tre bocche e tre paia d'ali...!E, allora?Seguitemi nella narrazione...

Il volto di Arturo diventò di botto serio, autorevole e sorridente.Con sussiego e sicumera, mi confidò che era certo, più che convinto, che esisteva un Paradiso Parallelo, che smaterializzato, era in perfetta prosecuzione, senza soluzione di continuità, con quello Terreno e che il Divino Poeta non aveva volutamente nè descritto e nè reso noto, perchè era destinato ai Santi, ai grandi personaggi della storia che si erano contraddistinti nei vari rami della Scienza, i Capitani d'industria, i magnati, i Paperon dei Paperoni, che avevano sempre fatto opere di bene, aiutato i deboli ; gli eroi, i martiri della fede ; insomma tutti i più che buoni avevano trovato posto in questo Quarto Regno!Quando gli feci notare che l'accesso in quel luogo sarebbe risultato molto difficile, impossibile per lui, mi confidò con fare omertoso ed in modo sommesso che si era raccomandato al Santo Padre Pio, che aveva conosciuto di persona all' Ospedale San Giovanni Rotondo, quando dovette operarsi di appendicite!

In questo luogo, secondo la legge del contrappasso dantesco, avrebbe beneficiato di premi ed elargizioni, come ricompense per le afflizioni patite sulla Terra!Per la qual cosa, poteva giocare sempre a carte, vincere sempre a poker, tressette, burraco, al Totocalcio, al Superenalotto, alla Lotterà Italia di Capodanno ;  avrebbe bevuto, a gratis, cassette di birra Cerveza, vini dei migliori vitigni italiani, farsi il bagno nel latte, alleviato le pene d'amore sofferte in compagnia delle dive del cinema, ecc, ecc...
Ed, infine, avrebbe finalmente suonato con maestria e perizia il Bengio, con assoli entusiasmanti, commoventi e strappaapplausi nell' Orchestra Celestiale, diretta dai più grandi compositori, eseguendo l'intermezzo de "L' Amico Fritz" di Pietro Mascagni!

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Sciarpigno, una storia vera di Totoruccio Fierro

Sciarpigno di Totoruccio Fierro     Racconto la storia di questo personaggio, vissuto realmente negli anni venti del secolo scorso, perchè ritengo, senza alcuna presunzione e supponenza, che essa, velata com'è dalla mia solita, bonaria, sottile e distaccata ironia, merita di essere letta.
L'origine del suo 'stranginomo' è del tutto ignota.
Potrebbe, forse, derivare dalla parola inglese "sharp", che significa aguzzo, tagliente, pronto nelle risposte! 
Ma quanti Montellesi all'epoca conoscevano la lingua anglosassone?
Pochi, pochissimi, per la qual cosa è più probabile che, come tutti gli "stranginomi" che in quel tempo si affibbiavano alla quasi totalità delle persone e alle famiglie di provenienza, essi avevano scaturigine da situazioni, fatti, cose, aspetti fisici, abitudini, comportamenti e quant'altro!
Era basso e segaligno e il suo viso rassomigliava a quello di una civetta :
naso adunco, occhi piccoli e acuti, sguardo sinistro e mefistofelico, faccia attenta, sospettosa e sempre imbrattata e sporca di terra!
Sulla testa portava un cappello a larghe falde, unto e bisunto per il prolungato uso.
I movimenti del suo corpo, coperto da un vestito tutto rattoppato, erano contraddistinti da scatti convulsi, improvvisi che ricordavano, appunto, quelli dell'uccello notturno!
Che mestiere poteva esercitare un tale personaggio, se non quello di Custode del Cimitero comunale?
Di fatto, lavorò per tutta la sua misera vita tra croci, lapidi, bare, cappelle, tombe del Camposanto.
Il suo impegno, la sua solerzia, il suo attaccamento al lavoro erano talmente sentiti e partecipati che, non solo trovava del tutto normale e naturale mangiare e bere il vino seduto tra i morti, ma addirittura dormire tranquillamente in loro compagnia in un lettuccio, in uno dei due vani posti all' entrata del Cimitero!
Insomma, era riuscito a stabile una osmosi, una tacita convivenza con chi non c'era più, da sentirsi parte integrata e completa del luogo, sperando in tal modo che, vivendo abitualmente tra i morti, la lama lucida e tagliente della nera, beffarda ed impietosa
"SIGNORA" l'avrebbe risparmiato!
Quando si andava a far visita ai cari defunti, Sciarpigno godeva e si divertiva a renderla più sofferta, scabrosa e problematica, soprattutto se fatta durante il tardo pomeriggio o nelle ore notturne.
Infatti, mentre si percorrevano i vialetti, non era del tutto improbabile vederlo spuntare di soppiatto e all'improvviso dai posti più impensati :
si appostava dietro una lapide, dietro un cipresso, un cespuglio, una colonna e usciva con uno scatto rumoroso; altre volte emergeva all' infuori da una fossa con un guizzo tale che ricordava quello del pupazzo Pulcinella che veniva catapultato all'insù dalla molla compressa in una scatola giocattolo chiusa! Altre volte ti seguiva in modo silenzioso, toccandoti lievemente sulla spalla...
In buona sostanza perseguiva una vera e cinica strategia del terrore! Per tutto questo,
il povero visitatore doveva mettere in conto non solo la paura derivante da possibili "fantasmi" che potevano più o meno aleggiare in quel luogo, ma anche di quella che veniva scatenata dalle diaboliche apparizioni di mister "Sharp"!
Quando poi saliva al Paese, si assisteva a scene di comico e folkloristico sommovimento : i ragazzi si davano a un disperato fuggi - fuggi generale ; le donne si segnavano con la croce ;
gli uomini si lanciavano ad abbracciare il ferro dei lampioni stradali o, più ancora ad affondare le mani nelle tasche dei pantaloni al fine di perturbare gli incolpevoli e dormienti
" satellitini " di...Giove!
A volte, lo si vedeva maneggiare con nonchalance le ossa dei morti come se fossero rametti d'albero e quando arrivava il 2 Novembre, diventava d'incanto disponibile e cortese verso tutti i visitatori che non gli facevano mancare il loro riconoscimento.
Purtroppo, anche lui non potè sfuggire al roteare del falcione implacabile della nera Signora!
Certo è che, passare dal mondo dei vivi a quello dei morti, dopo tanti anni passati in loro compagnia, sicuramente non rappresentò per lui nè un fatto doloroso, nè drammatico!

Totoruccio Fierro

 

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Bassa e la Sagra del Pesce di Graziano Casalini

Bassa e la Sagra del Pesce Caro Vittorio e cari amici della Redazione Montella.eu  Le Sagre sono diventate una consuetudine, in quasi tutti i paesi che dispongono di specialità enogastronimiche, naturali, contadine e artigianali. Vorrei raccontare per i visitatori del sito come nel mio paese di nascita si svolge ogni anno una sagra, tipo la vostra della Castagna IGP: " LA SAGRA DEL PESCE DI BASSA", che è arrivata al 50° anniversario dalla prima edizione. Per festeggiare la ricorrenza gli organizzatori pubblicheranno una raccolta di fotografie, varie notizie, ricordi e interviste a tutti coloro che nel lunghissimo periodo hanno partecipato e collaborato al successo di questo importante evento.
Mi sono proposto per scrivere una breve introduzione alla suddetta pubblicazione, con alcuni miei vecchi ricordi, che mi piacerebbe far conoscere anche a chi a Montella puntualmente ogni anno si impegna alla realizzazione della vostra Sagra.
In una piccola comunità di mille abitanti, sulla riva destra dell'Arno a metà strada fra Firenze e Pisa, nel comune di Cerreto Guidi, ogni anno nei mesi estivi, da circa cinquanta anni si organizza la Sagra del Pesce. E com'è nato questo importante evento, proprio a Bassa che dista più di cinquanta chilometri dal mare? Un evento che ogni anno riscuote un grande successo fra gli amanti e tutti coloro dei paesi vicini, ma anche dei paesi più lontani, che sono abitualmente frequentatori, delle sagre e feste dedicate alle varie tipologie e specialità culinarie locali.
Io, Graziano Casalini, nato a Bassa, purtroppo nell'ormai lontano 1942, vorrei dare un mio modesto contributo scritto di vecchi ricordi su come ebbe inizio in paese l'attività della pesca, da cui poi originò l'idea di dare vita ad una sagra a tema. I miei ricordi, in particolare, per far sapere il perché per cui oggi Bassa si può ritenere un importante centro, anche se distante dal mare, dove è fiorente una discreta attività di importazione, commercializzazione e trasformazione del pesce.
Alcune delle seconde e terze generazioni, sicuramente non sapranno tutto quello che sto per scrivere, quale introduzione a questa che è o sarà una pubblicazione prevalentemente fotografica dedicata alla Sagra del Pesce.
Secondo quanto io ricordo, tutto ha avuto inizio negli anni cinquanta o nell'immediato dopoguerra.
L'economia in prevalenza povera degli abitanti di Bassa era quasi esclusivamente basata sull'agricoltura, i contadini salvo poche eccezioni conducevano i poderi a mezzadria, allevavano quasi tutti una mucca da latte e tanti animali da cortile, c'erano poi gli operai che lavoravano nelle varie fabbriche dei paesi vicini e poi quelli che stavano un po' meglio, i bottegai, alcuni artigiani, i barrocciai che facevano i vari trasporti, i calzolai impegnati nei calzaturifici di Fucecchio, ma anche nella lavorazione delle scarpe, allora rigorosamente in cuoio e pelle che si riparavano più e più volte prima di buttarle, e poi chi agricoltore lavorava terreni di proprietà, le famiglie benestanti si potevano contare sulle dita di una mano, complici di questa situazione economica anche gli effetti della guerra da poco passata.
Le famiglie numerose, erano quelle che stavano peggio e alcune di queste per sfamare i numerosi figli, intensificarono o iniziarono, quello che meglio sapevano e potevano fare, andare, tempo permettendo tutti i giorni a pescare in Arno, così almeno avevano che dare da mangiare ai propri figli. Però oltre al cibo, i capi famiglia dovevano anche soddisfare le altre esigenze di cui i figli crescendo avevano sempre più bisogno.
Usavano un cosiddetto barchetto,( piccola barca in legno simile ad una gondola veneziana ), spinto a forza di braccia con una lunga pertica di legno, sul basso fondale del fiume, reti, bilance, nasse, bertuelli, raramente canne da pesca. Il fiume non era inquinato com'è ora ed era ricco di pesce, la pesca quasi sempre abbondante, permise alle due più importanti famiglie, i Sani e i Manzi di far intraprendere ai figli, più grandi una piccola attività di vendita ambulante da fare prevalentemente nelle campagne e nei paesi dell'interno un po' distanti dall'Arno. Questi ragazzi, ancora adolescenti, usando una bicicletta con doppio portapacchi su cui avevano fissato dei bidoncini metallici tagliati a metà, portavano nei dintorni e un po' ovunque, pesce d'acqua dolce pescato in nottata a volte ancora vivo, facendo buoni affari, contribuendo in questo modo, per così dire, al loro primo benessere economico.
Col passare del tempo, purtroppo ogni tipo di attività, per più ragioni si deve adeguare, per il progresso e per tanti altri numerosi motivi che ora non sto qui a descrivere. Uno di questi motivi fu per chi viveva di quella risorsa: un grande inquinamento che si verificò irreversibilmente nell'Arno, con una massiccia moria di pesci e la decimazione di tutte le specie ittiche precedentemente esistenti.
A quel punto non solo i pescatori della domenica, ma anche le due famiglie, che fino ad allora avevano basato sulla pesca il loro lavoro principale dovevano sospendere la cattura del pesce di acqua dolce, perché quel poco rimasto non era più sicuro per l'alimentazione umana. Come riconvertirono le loro conoscenze ittiche, le due famiglie che fino ad allora avevano vissuto solo con i proventi derivanti dalla vendita del pesce pescato in Arno?
Potevano farlo solo cercando il modo più giusto di inserirsi nel commercio del pesce di mare, che allora veniva in particolar modo pescato da una importante flotta di pescherecci viareggini. Viareggio non ero vicino e come fare per arrivarci la mattina quando rientravano i pescherecci, prendere il pesce più adatto alla vendita nelle nostre zone e rientrare a Bassa per organizzare la vendita?
La famiglia Sani con a capo Ilio, con i figli più grandi acquistarono una moto BSA, mi pare fosse questa la marca, vi applicarono una specie di sidecar adattandolo con un cassone rettangolare, sul quale potevano trasportare in tre quattro damigiane a bocca larga, vari tipi di pesce fresco e vivo di mare. Con alcuni viaggi settimanali, in breve tempo uguagliarono e superarono le vendite di quello che prima pescavano in Arno.
Altri figli grandi delle due famiglie, acquistarono dei furgoni attrezzati per vendere il pesce come ambulanti nei vari mercati cittadini, di zona, rionali e in giro per le campagne. L'assortimento del pesce di mare era molto più grande di quello di acqua dolce, e l'attività di commercializzazione e vendita aumentava di anno in anno, permettendo alle due famiglie di aprire sedi adeguate con celle frigorifere, impianti per il confezionamento e di avvalersi anche della collaborazione di diversi venditori esterni. Praticamente diventarono due ditte di vendita del pesce all'ingrosso.
Successivamente divenne necessario importare dall'estero alcune specie ittiche richieste e difficilmente reperibili sul mercato nazionale. Gli impianti di conservazione, trasformazione e confezionamento diventarono abbastanza grandi importanti, per questo ancora esistenti, col nome e marchio "ILIOPESCA" in onore del vecchio Ilio, capostipite dei SANI. Vennero aperti, con successo, a Firenze e in altre città vari punti vendita sempre "ILIOPESCA". Infine ad un lungimirante bassese, di cui non conosco il nome, visitando un paese della riviera ligure, venne la bella idea, poi condivisa con altri compaesani, di dar vita ad una sagra da organizzare ogni anno in estate nell'ex campo sportivo e di tamburello, accanto alla scuola elementare. E così cinquanta anni fa ebbe inizio l'avventura bassese.
La Sagra oggi, è diventata una grande realtà per il piccolo paese di Bassa, ogni anno, in estate, richiama nelle sere calde dei fine settimana moltissimi visitatori, vorrei dire alcune migliaia, sicuro di non sbagliarmi, quelli che dicono "Stasera in do si va? e si va a Bassa a mangia' i pesce ".
Il successo, da sempre crescente è principalmente dovuto alle buone qualità del pesce fresco e specialità locali, preparate con maestria da valenti improvvisati cuochi e dall'impegno con cui molti paesani e organizzatori mettono alla realizzazione di questo bellissimo evento.
UN GRANDE SUCCESSO LA SAGRA DEL PESCE DI BASSA
A questo punto i miei ricordi diventano molto lacunosi, rischierei di scrivere qualcosa di cui non sono certo e quindi forse di non vero, per questo chiudo il racconto di quelli che furono anche dei bellissimi ricordi, della mia ormai lontana gioventù.
Dal 1966 ho lasciato per sempre Bassa, e avrei piacere che per quanto rigurda il seguito di questo racconto, continuassero a farlo altri più giovani di me, e anche quelli molto ma molto più giovani, con notizie di come si è svolta la Sagra nell'arco di cinquanta anni, e su come si è evoluta con metodi moderni l'attuale organizzazione, capace di ottenere i più che ottimi risultati odierni. Il progetto di una pubblicazione simile, potrebbe esssere valido se trasferito anche con modalità diverse, alla vostra grandissima FESTA SAGRA DELLA CASTAGNA IGP DI MONTELLA, in occasione dei prossimi anniversari.
Introduzione di Graziano Casalini, per una grande pubblicazione fotografica completa di interviste, racconti e di tanti ricordi, per rivivere in occasione del 50° anniversario le passate edizioni della Sagra del Pesce di Bassa.
Un caro saluto e grazie per l'ospitalità

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Condizione femminile a Montella - Passato e presente  - Dai ricordi di Carmela Marano a cura di Graziano Casalini

CONDIZIONE FEMMINILE A MONTELLA - PASSATO E PRESENTE  - Dai ricordi di Carmela Marano a cura di Graziano Casalini
Degli anni della mia gioventù, trascorsi a Montella, vorrei ricordare e descrivere, in quali condizioni vivevano le donne allora giovani bambine, ragazze, madri di famiglia, in una epoca, di un lontano passato, quando il patriarcato era imperante. Le bambine oltre a frequentare le scuole elemantari e a fare le lezioni, spesso venivano impiegate dalle rispettive mamme nelle faccende domestiche, e quando nelle famiglie c'erano fratellini più piccoli, ad accudirli quando le madri si assentavano andando a lavorare in campagna per aiutare i mariti nei vari lavori agricoli, oppure a raccogliere legna in montagna, o a faticare duramente nelle diverse cave dislocate nelle vicinanze del paese.

A casa mia, l'organizzazione era, per forza maggiore suddivisa equamente, mio padre si interessava della coltivazione dei numerosi appezzamenti di terreno, ed era tutti i giorni in campagna, mia madre oltre a pensare a numerosi figli, alla casa, e agli animali, provvedeva anche alla vendita delle tante eccedenze dei raccolti ( castagne, mele, e altra frutta di stagione ) e di alcune parti di carni di maiale tipo i prosciutti, non aveva mai un attimo di riposo. Le numerose gravidenze e il lavoro faticoso, provocavano alle donne un'invecchiamento precoce che equivaleva a enormi cambiamenti fisici, per cui a volte una donna di quaranta anni ne dimostrava venti di più. Per me Il tempo dei giuochi era pochissimo, anche per il fatto che quando si facevano le raccolte delle castagne e di altri frutti, noi bambine eravamo quasi sempre presenti in prima fila. Questo lavoro, si trasformava in un divertimento equivalente a un giuoco infantile.
A proposito ricordo, di una mattina d'estate nel periodo della caduta delle noci, che mia madre mi svegliò prima del solito, sbagliando anche orario, per andare a Lao, dove avevamo numerose piante di noce, a fare come da guardia, ad evitare che qualcuno entrando nella proprietà ne rubasse un po'. Per quell' errore di mia madre sull'orario della sveglia, da sola, al buio, arrivai a Lao che era ancora notte, mi rannicchiai sotto una pianta e aspettai l'alba. Poteva capitare che alcune persone approfittassero delle abbondanti raccolte, senza però asportare grandi quantità, probabilmente per le necessità e la povertà che assillava in quei tempi molte famiglie, in particolare quelle numerose.
Altri problemi più gravi di bambine e ragazze, come molestie, violenze e casi più gravi di stupri come avvengono oggi, per quello che io so, non se ne erano mai verificati, in quei tempi (anni 50 - 60 ). C'era un grandissimo rispetto fra tutti i componenti delle varie famiglie della nostra piccola comunità, in modo particolare per quello che riguardava la parte femminile. Dopo le elementari molte di noi, e anche io, avremmo voluto continuare gli studi, purtroppo allora in paese, la maggioranza delle persone, per la povertà, per l'ignoranza, per il patriarcato, per la supposta superiorità maschile, e per la sbagliata credenza che una ragazza lasciando anche temporaneamente il paese, fuori da ogni controllo, potesse diventare una poco di buono, per queste ragioni, a molte di noi non fu permesso di continuare a studiare. Per i giovani, maschi e femmine le occasioni di incontro erano rare e molto diverse da quelle di oggi, ci trovavamo nei fine settimana e la domenica nelle abitazioni dei vicini dove si organizzavano balli al suono di organetti, altri semplici strumenti musicali, a volte anche con la musica dei dischi fatti girare a manovella su grammofoni a tromba, oppure all'uscita della messa o nelle classiche passeggiate lungo la strada pianeggiante per il Ponte dei Deci.
Una bruttissima soluzione per una richiesta amorosa negata a un ragazzo da una ragazza, comune un po' a tutti i paesi del meriodione, era la cosiddetta "fuitina" che consisteva, come molti di voi lettori sapranno, nel prelevare con la forza la ragazza interessata da parte dello spasimante aiutato da un gruppetto di amici fidati, che poi andata a buon fine l'operazione, lasciavano soli i due per un notte insieme in un luogo segreto a consumare con atti sessuali la loro unione. Alcune ragazze e ragazzi organizzavano loro stessi la fuitina, per superare l'opposizione ingiustificata delle rispettive famiglie e genitori, mettendoli di fronte al fatto compiuto, da riparare naturalmente solo col matrimonio. Normalmente anche le ragazze prese con la forza, finivano con l'essere accondiscendenti amando il proprio rapitore, per la semplice ragione, che per convinzioni assurde del tempo, nessuno le avrebbe più volute come mogli in quanto considerate non illibate.
Oggi tutto questo non esiste più da anni, in un certo senso c'è stato un adeguamento dei paesi del sud a quelli del centro nord, soprattutto per quanto riguarda la libertà delle giovani donne e in generale di tutte le donne. Comunque permane ancora una mentalità patriarcale e di superiorità del maschio, esasperata, che quando io ero giovane si manifestava nel tenere sempre un passo indietro le donne e le mogli vietandole per gelosia di uscire da sole e al limite anche di affacciarsi alla finistra. Purtroppo oggi ci sono uomini, che non manifestano apertamente il loro pensiero sulla parità di genere, quando si sentono superati, abbandonati, o traditi, non riescono a controllare e a superare un sentimento di gelosia e invidia, sfogando le loro frustrazioni, perseguitando fino ad uccidere la donna che amavano e a cui erano legati. Il femminicido è diventato uno dei peggiori peccati che un uomo possa commettere. Fin qui ho descritto soprattutto come era il mondo femminile molti anni fa a Montella. Il presente lo vedo sotto una luce migliore per il semplice fatto che in generale le donne, sono a un livello paritario con i maschi.
Hanno studiato, ottenuto ottimi risultati in tanti comparti lavorativi, sono responsabili dell'educazione dei figli in casa e nella scuola. Hanno le capacità di affrontare e risolvere con successo i tanti problemi giornalieri che si frappongono in famiglia sul lavoro e nella società, all'avanzare del progresso e al proseguire della vita. Lungi da raggiungere la parità di genere, posso dire, che siamo su una buona strada e con tanta pazienza e con il tempo, la parità non sarà più un miraggio, ma una realtà.
Questi miei ricordi per evidenziare il cambiamento, avvenuto in più di cinquanta anni, delle condizioni femminili a Montella e nel resto del paese. Un cordialissimo saluto alla Redazione montella.eu, seguiranno altri ricordi.
CARMELA MARANO

 

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Castaneide ( Vie a sovranità limitata) 1^ e 2^ PARTE di Giuseppe Marano

Castaneide ( Vie a sovranità limitata) 1^ PARTE di Giuseppe Marano   Caro Vittorio dall’antica radice sorevese, mi ricordi i vecchi tempi…tuo zio Nìno, un mito di Sorbo che faceva “cunti” strepitosi, noi uaglionàstri restavamo strabiliati. Mo’ m’è venuta in mente una parola (meglio direi: “m’è sckoccàta ‘ngapo”): la CASTANEIDE che può servire anche ad onorare almeno nel titolo la nostra tradizione: quanti poemi classici abbiamo con quella finale EIDE, chiamata dagli specialisti suffìsso (che, la verità, pare ‘na male parola): ENEIDE, TEBAIDE, ACHILLEIDE ecc. (…sfoggio de che? prendo solo il titolo da Gùgol) questa suggestione di suffisso vedo che trova fortuna epico-cavalleresca anche sui giornali per recenti clamori. E Montella da parte sua, nel suo grande- piccolo non poteva mancare d’ispirarmi questo nome classico: “Castaneide”.
Per non ammosciarti vengo subito alla storiella (che pubblichi o no, fa niente, basta che ci dai una scorsa… se ci trovi qualche eco antica). Già t’ho detto e sai, che scrivere pe me è diventata ‘na mazzata ‘nfrònte, mi conforto solo di essere in ottima compagnia: nientemeno con Socrate e Platone che “odiavano” la scrittura (ma a chiacchiere, almeno per Platone, che ha scritto tutto quel ben di Dio!).
Resto dell’idea, (considerata fasulla) che la poesia vera quella “immortale” sublime che può attingersi solo un attimo con l’estasi, è quella “non nata”, che resta dentro, che non vuole contaminarsi esprimendosi “cadendo nel tempo”. L’inespresso è il tutto e il nulla adimensionale estraneo alle categorie spaziotemporali, perciò nulla eterno, Foscolo mica era ‘no fessa!....[Vittò, accussì facìmo contenti a tutti, puro a li sfessati com’a mmé, ca non sanno scrìve na poesia! Re facimo sènte no Dante! Cchè dico! N’Omèro!].
La vicchiaia ‘na brutta bbestia! Orazio la chiamava “morosa”, altro che amorosa! Da quando son diventato misantropo, esco col caniello, vedi la contraddizione della vita: da piccolo ho avuto la meglio educazione (!): alla caccia, a sparare lo sperciasiepi, (pittirùsso)…un piccolo batuffolo vivo che cercava intirizzito riparo in un sepàle di spine… sotto la bbòtta rintronante, ne restava una penna al vento…
Una mattina di questi tempi passeggiando per la via nova carrozzabile attraversante castagneti, una voce marpiona da sopra: “Prafessòòò…co’ la scusa re lo caniello ti fai la sacca nòva”- (la A al posto della E, sottolineava un tono canzonatorio squacchiùso tipicamente nostrano. Vedete quanto è nobile il nostro dialetto! C’ha pure il cambiamento di vocale delle lingue classiche che gli scienziati d’un tempo chiamavano con una male paròla: “apofonia”!).
Un occhio perciante di sguìncio m’aveva colto nel prendere qualche castagna da mezzo la strada. Rispondo “ra copp’ ‘a màno” (come suonano “Avallìno” (ad Avellino)): “Guarda io non me ne mangio, le schifo le castagne mi fanno male allo stòmmaco, c’hanno dentro un àcido malefico, quello tànnico”. Uno sghignazzo in risposta: “Embè ti fanno male e te re ppìgli!”. “Ma no’ re ppìglio pe’ mmé, re rregàlo!”. “A’zz! No bbello reàlo fai se fanno male! Prafessò…ma tu cché ddìci, vuò sfòtte stammatina!”.

Calmo rispondo: “Non hai capito! No tutti tengono lo stòmmaco dilicato com’a mmé! Le do a chi lo tène re fierro”. “Aggio capito tu vuo’ sfòtte, tanto che ci tieni mo te ne reàlo na busta, cussì la finisci e bbòglio cche stai bbuono” (il sottinteso era: “Così ti levi dalle… scatole…”. Mentre allungava la mano co’ la busta, che per lui non era di castagne ma di marènghe r’oro, mi travolse dal di dentro una folata di proverbi e parole sorevesi; mi rimbombavano in particolare quelle di un mio amico dalla intelligenza mercuriale: “Attento! Non c’è niente di più costoso del gratuito!” e poi mi riecheggiarono pure due detti dei Grandi Vecchi, i miei Maestri di Sorbo: “Attiénto, ca quisso è de casàta vintòtto, ti rài quatto pe’ ti fotte otto”, traduco per me: “Sta attento! Che questo è di Casata Ventotto, ti “regala” quattro per fregarti otto”, e ancora “tra parienti e canuscienti non s’accatta né si vénne né si pìgliano reàli!”.  

II^ e ultima parte

Pensai un attimo che prendendo quella busta gli firmavo una cambiale in bianco e mi procuravo una zecca malefica penetrante perciante sempre più a fondo, in parole tutt’altro che povere: non me lo sarei levato più dai lucidi globi oculari! Insomma la morale di quei distillati di saggezza (e poesia) era che: Il regalo gratuito è quello che fa Ulisse, più “fetente” di me,: un cavalluccio di Troia. Gli dissi ispirato da tanta saggezza: “Grazie caro, mi basta la “sacca nova” che mi son fatto stamattina”, avrei voluto aggiungere “alla faccia tua”, ma lasciai perdere perché mi trovavo “sguarnito” dell’… “uòsso re prisutto”. Dalla faccia ci restò sotto la bbotta. Aggiunse in tono asseverativo: “Però ra professore questo ro capisci, se no che professore sì: re castagne, puro ca careno mmiezz’a la via nòva, careno ra l’alberi mia ca curo pe’ tutto l’anno, annetto, poto, tutta sta fatica tu no la capisci, e allora puro re castagne ca careno mmiezzo a la via nòva, pé mmé so’ sempe re mmìa!”.

“Senti” mi permisi di aggiungere: “Ma non vedi che macello ne fanno le macchine che passano, ce n’è almeno no quintale di schiattate, la via è tutta jànca”. Mentre si ritirava lo sentii mormorare: “Meglio ca se re mmàngiano re rròte ca te re ffùtti tu!” (= “meglio che se le mangiano le ruote che te le mangi tu”), gli volevo rispondere, ma lasciai perdere perché notai, pur tra il fogliame, i suoi occhi strabuzzati (i sorevesi di una volta,… tuo zio, avrebbero detto “sbirolati”) e tra l’altro mi trovavo “sguarnito”.
Non ti nascondo che quando esco col caniello per la via nova sotto i castagneti ci passo con un fastidio addosso, come se passassi per una via pubblica a sovranità limitata.
Te ne dico un’altra e poi basta. Una mattina anzi ancora notte, la via delle 6 per evitare che il mio caniello forèsteco s’afferri con altri (a quell’ora non c’è il passeggio canino, se la prendono più còmoda), una mattina, sempre r’ottòmpre (quant’è bello più dell’alliffato “ottobre”!), vidi un’ombra che si avvicinava a noi sempre pe’ la via nòva sotto il castagneto, non l’affiurài bene, ma era un tipo tròcene tracagnòtto: “Mannàggia…non ne ho trovato una bbòna! Tutte cecàte e mi devo cecà pure pe vedé se so’ bone!”. “E che mi vuò trovà” dissi “ho visto poco fa uno co’ na bborsa chiéna, mica è fféssa quiro ca si piglia re cecàte! Quere re llàssa a l’àti”. Volevo aggiungere: “A li féssa”, ma al solito mi trattenni…t’ho detto perché e un po’ …. per autoprotettiva pusillanimità. Che vuò fa Vittorio, uno co’ l’amici si deve confessà! Lo sentìi jastomà tutto ngroggnàto.
La notte dopo non potevo dormire, m’alzai un’ora prima co’ la scusa che il cane aveva impellènte bisogno di uscìre. C’erano sciabolate di luce sulla strada del castagneto, affiurài un’ombra tracagnotta, cercava castagne co’ la pila! Prima che mi vedesse mi girai. Ma ad esser sincero …me lo sentivo scendere che l’avrei trovato a ispezionar castagne.
Prima ti ho detto che ho evitato di attaccar briga perché no tenevo co me l’ “uòsso re prisutto”, e mo’ ti racconto un fatto capitatomi quando lo tenevo. Un sàcco d’anni fa quando lavoravo a Baggnùlo, tornavo a casa per la via del Lacinolo che allora era un signor corso d’acqua affluente del Calore, tanto che venivano a tuffarsi d’estate pure i ggiòvani montellesi.
Quando arrivai all’altezza di un ponte, notai in mezzo alla strada delle noci, scesi a raccoglierle, d’un tratto sentii una sorta di rùglio: “Làssare stà ca sò re mmìa, La pianta è la mia!”. Là per là rimasi frìddo ma subito ci stetti al gioco e sorridendo dissi al soggetto non identificato, spiccando provocatoriamente italiano: “Ma le noci sono cadute sulla via, la via è pubblica, quindi sono di chi se le prende, sono una …“res nullìus”.
Non l’avessi mai detto! Si diresse contro di me minacciùso: “Tu a chi vuò sfòtte co’ ste parole strèoze! Parla cristiàno!”. Caro Vittorio, tenéva mmano ‘no uaccìddro, ‘no ‘mbastone norecùso che fingeva usare come appoggio, ma ad un tràtto lo puntò contro di me avvicinandosi con occhio forése. Non potevo ingaggiare una lotta ad armi pari, era ‘no giancalèssio, un marcantonio, e io ggià sott’a la sissantìna! Allora mi salvò il… “classico” (poi mi dicono che i classici non servono a niente!) mi ricordai di Ulisse quando ubriacò Polifèmo con un vino ‘nchiummùso come quello di Puglia (quello che ‘mbriacava nelle nostre cantine fino a sessant’anni fà), Ulisse intelligente, di fronte a quel mostro di Polifemo, si rese conto di essere … ’na pòddrola…lo poteva schiattare sott’ a lo père come una marùca ed allora ricorse a quel vino per …addobbiarlo e …cecàrlo.
Tenevo in macchina “lo focòne” (che era la mia boccia di vino!) …qualche ggiorno prima, ero andato lì vicino a Cuòzzoli ad aspettare il passo degli stòrni [ bastàrdo tra bastàrdi! diceva lo bbòsso: “similis cum simili facillime congregatur” volgarmente tradòtto: “camminando con lo zòppo impari a zoppicàre” (ci sarà il corrispondente geniale in monteddrese ma scusate non lo conosco)]…dicevo “lo focòne”… fammi ricordare una immagine di esplosiva potenza lucreziana, spiccata come fiore dalla bocca di un cacciatore ossessionato: “Pinù, quanno arriva la néola re sturni, ar’ aspettà quanno s’arraòglia, e là ara sparà, ne careno a grananèta neora”, traduco per me stesso: “Pinù, quando arriva la nuvola di storni, devi aspettare quanto si avvoltola e si ispessisce, e lì devi sparare…ne cadranno a gradinata nera”,…corsi alla macchina, e prima che lo màstro mi raggiungesse, pigliai “lo focone”, e glielo puntai ‘nfacci, in quel momento ricordai l’espressione venatoria sorevése: “li mittiétti ro ffuòco nfacci!”…caro Vittorio…non ti rico…li carètte lo mbastòne norecùso ra mano e cominciao a scappà…Notai che ad un certo punto cominciò a còrre a cosce lasche…evidentemente “lo focone” aveva avuto, pardon, un immediato effetto lassativo! Ovviamente l’automatico era scàrrico, ma in quel momento mi ricordai il detto sorevese: “Lo fucile puro a canna vacanda face paura a cinquanta”.
Gli stòrni… ci trascorrevano elettrizzando l’aria d’un brivido di vitalità che noi fetenti spegnevamo a schoppettàte!
Non perderti un bellissimo scritto di Calvino: Gli storni che colpisce scolpisce con precisione fantastica.
Concludendo ti confesso che sto a Montella quasi da che son nato (non ti dico gli anni perché odio eventuali farisaici auguri) ma il montellese non l’ho capito per mia incapacità e per merito suo: del suo inviolabile spessore ed impenetrabile ricchezza. Ricordo qualche riflessione di Mario Soldati nel suo Viaggio da Roma però non era riferita al montellese ma in genere al…“degasperiano irpinese”, mò se non ricordo bene il titolo del libro, non accìro nisciuno da “zucaggnòstro” qual sono (=“succhiainchiostro”, “chi scrive”), e chi ci va a Sorbo in quel monnezzale di libri per leggere il titolo esatto?! Manco morto! A proposito di libri, attenzione Vittorio a chi li dai in prèstito! Ci sono molti bibliofili bibliomani “cleptobibli” mimetizzati (scusa il mio neologismo), che te lo cercano per non restituirtelo più! L’ hanno perso o ce l’hanno arrobbàto. Così ti diranno! Una persona di intelligenza rara mi mise sull’avviso. E…(vedi la “sorte beffarda” pirandelliana!) capitò che proprio dal suo studio una lesta e lieve manina sgraffignò un magnifico mio libro dell’800 su Santo Rocco. Dovrò dedicarci una… “Sanroccheide”! Comunque chi l’ha “preso” stia tranquillo, che c’è stata precisa denunzia, chiamiamola…razzo a ricerca di calore. Non si sa mmài! Dicevo che forse del libro di Mario Soldati ho scordato il titolo preciso, e che fa? No zucaggnòstro che male pote fa? Basta che chi opera lo stòmmaco non si scorda dentro il bìsturi! Ciao Vittò.

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Lieto fine per il cagnolone brutalmente bastonato 'nfronte di Giuseppe Marano

Lieto fine per il cagnolone brutalmente bastonato 'nfronte di Giuseppe Marano -  (almeno ce lo auguriamo)Caro Vittorio voglio darti subito la bella notizia.
Il cane che ho trovato qualche giorno fa nel parcheggio MD di Montella, con la vistosa ferita in fronte, cui gentilmente hai dedicato spazio nel tuo giornale, è stato trovato e ricoverato.
Me l’ha comunicato il Comandante della Polizia Municipale Iannélla da me informato e pregato di volersi adoperare per assicurare alla povera bestia le cure e la protezione necessarie.
E’ stato ricoverato e spero vivamente che ce la faccia e venga poi sottratto alla incombente minaccia di bastonatura, stavolta finale, mortale, anche per la rabbia da parte del massacratore di vederlo quasi provocatoriamente, sopravvissuto alle sue mazzate.
Dovete penetrare i capillari della psicologia maligna! Ma lasciamo stare…qualcuno benpensante dirà che la mazzata è tutta da provare, che è frutto della mia malevola prevenzione,,, insomma dirà quello che vuole, Vittò, è…democrazia, dirà che ha fatto lo scontro con una macchina…
Ma io da piccolo sono abituato a vedere e riconoscere gli effetti devastanti raccapriccianti delle mazzate ‘nfronte su questi poveri animali…con fenomenale sadismo ho visto pigliare a mazzate due di questi poveri animali colpevoli di…. amarsi al punto da restare attaccati, da desiderar di diventare… un corpo e un’anima! Altro che “cristiàni”! Quale amore più ggrande!
Potevo avere 7 anni. Pe’ la via re Suorio… “Uàrda sti fetienti come so’ ‘ncatastati! Mo’ te re ccònzo io!” e giù una mazzata con sogghigno sadico compiaciuto a…dilacerarli! Ricordo, pardon, con orrore le goccioline di sangue sulle pietre della strada! Non c’erano ancòra i cubètti!
Ricordo pure che si divertivano a confrontare distinguere le espressioni: a Suòrio si diceva “‘ncatastati” mentre a Bbotoràla “ ‘ncasteddàti”, e noi a bocca aperta come bocchèli.
In un mondo dominato da un assolutismo egoisticamente e biecamente antropocentrico, caro Vittorio, mi commuove (son sicuro unitamente a te) riscontrare questi atti di nobiltà spirituale da parte di tutori dell’ordine, quale il Comandante Iannélla, che pur oberati dagli infiniti problemi della comunità, riescono a trovare l’ “humanitas” francescana per questi veri “ultimi”.
Che dirti Vittorio speriamo che ce la faccia il nostro animaluccio, che adotterei senz’altro, ma già ne ho troppi…vorrei essere un Totò, una Briggìtta Bardò, un Alèn Delòn ma solo per avere i loro soldini (senza invidia) per poter mettere a disposizione dei veri “amici” tutto quello che serve perché vivano tranquilli. Non pretendono molto.
Ovviamente per rispetto verso di te (e per quanti hanno a cuore le sofferenze di questi ultimi abbandonati bistrattati presi a mazzate avvelenati ecc. “perché danno fastidio”), ripeto, per rispetto verso di te e pochi altri, non posso dire che farei, potendo, (ricorda che sò bbiécchio!) se dovessi vedere qualcuno in atto di colpire questi inermi. Non per rispetto verso di me che da giovanotto “mi son cacciato” il porto d’armi per motivo d’onore tra amici e parenti.
A poco vale l’attenuante di non aver mai sparato a un ciggnàle pur partecipando a tante battute negli anni ruggenti.
Giuseppe Marano

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Giuramento del Carabiniere Luca Di Giacomo

Luca Di Giacomo ha prestato giuramento nella Caserma Eugenio Frate di Campobasso , Congratulazioni al papà Franco alla madre Lisa Bella Zurlo e alla sorella Jessica, e naturalmente da tutti noi della redazione di Montella.eu

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I Misocini di Giuseppe Marano

I MISOCINI (=nemici massacratori e avvelenatòri di cani)  Vittorio purtròppo mi devi sopportà se nel giro di qualche giorno (dopo tanto silenzio, che è sempre vicinanza compresenza, mai distanza) ti mando nuova lettera, spero non una rottura, ma che vuoi fare la vita è ribelle a ogni programmazione si impone con la sua legge, insomma t’arriva na doppietta, na bbòtta rinto l’àta… Scusami pure il titolo strambo di conio velleitariamente classico (= il contrario di CINOFILI). Pecisiamo MISOCINI non MISOGINI! Mangalicàni!

Stamattina bellissima sorpresa (rivelatasi subito bruttissima) nel parcheggio di un supermercàto. Sai sono diventato amico dei fedeli quadrupedi, ci sono intellettuali di grido, che spégliano, che si convertono ad Hallà, io più modesto m’accontento di poco, per dirti che dopo tanto tempo ho rivisto uno dei miei amici randàgi, le sue presenze rare e perciò per me preziose, sono episodiche insomma si fa vedere dopo un mese e più…Stamattina l’ho trovato, ma da lontano ho notato in fronte una grossa macchia scura, mi sono avvicinato un poco (si allontana ha paura (e ne ha ben d’onde!)) ed ho notato una grossa bbrutta cicatrice incrostata in fronte, insomma ‘na jàcca, dicevano a Ssuòrio, “una zaùkka” avrebbe detto mia madre, evidente effetto di una “letranganàta” affibbiata “cò tutto lo sàngo a l’uòcchi” con tutto il sangue agli occhi. L’essere vivente (purtroppo) che l’ha colpito non può capire che è l’animale più innocuo di tutti per niente molesto, si tiene a rispettosa “impaurita” distanza.

Caro cagnolone che, nonostante la botta conservi la tua composta dignità con tutto quel ruognolo deturpante il faccino, hai avuto solo paura, non hai provato odio (privilegio nostrano) per chi ti ha dato la mazzata e ti considera colpevole solo di vivere.
Non mancherà lo sciabbolardèo chic (un po’ come i radical salottieri) che penserà (ma non dirà), o dirà (ma non penserà): “Ma come con tutto quel macello di guerra la strage degli innocenti 1500 israeliani bambini uomini donne vecchi straziati decapitati ‘nfornati vivi e 8000 e più palestinesi massacrati seppettiti robbrecati vivi dalle cannonate israeliane, sto fessa re prèsito vai a penzà a no cane ch’ha acchiappato na mazzata ‘nfronte!”…io sono il primo che inorridisco ed esecro condanno pure io con tutto il sangue agli occhi (ma all’inverso del lercio che ha massacrato quella povera bbèstia) questa strage come quelle di tutte le wèrre ma che significa sto… “peggialtrìsmo”! tutto il mondo stampato e video e in carne ed ossa giustamente lo sta facèndo, ma ciò non toglie che pure queste povere bestie che non hanno nessuno che le pensa, meritano un…pensiero. Ebbene che dirti se non ricordare il contrappasso dantesco …: “ammazzàrlo” in senso etimologico: “na tercetoràta” impeccabile ….potendolo fare… me ne andrei più lieve… nell’aere (“e chi si face mangià ra li viermi sottatèrra pe’ fa piacere a la riliggiòne che è ccontro la cremaziòne”, non si capìsce perchè. Non ti nascondo che ho un po’ di paura a denunziare alle FORZE il fatto per maltrattamento agli animali perché, non sia mai Ddìo il responsabile lo viene a sapere,,, che rimuginerà nella sua mente maligna?: “Ah! Lo prèsito tene sta passione pe’ sti fetienti r’animali,,,e mò te lo cònzo io!” e invece della mazzata lo spara proprio! Perché voi troppo buoni ingenui! non conoscete la perversione reattiva o (palindromo) reattività perversa, incommensurabile, di questi soggetti dove arriva!
Lo può capire solo uno che è più fetente di loro!
Aveva ragione Moravia: IL PIU’ CONOSCE IL MENO! A proposito che se n’è ffatto questo Maestro di scrittura!? La sua scrittura fa il miracolo di farti vedere le cose, scorre purissima come l’acqua di una polla del Terminio, da bere e …“addicriarsi”: “acqua corrente vìvi e no’ tremènte” = acqua corrente, beni senza guardare! Non se ne parla più di Moravia! E tutto sommato è…sintomatico della…situazione! Ciao Vittò

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Festa della Castagna di Montella 2023 - VIDEO taglio del nastro

Festa della castagna 2023 Montella Taglio del nastro 

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Una protesi con le ali "Tratto da una storia vera " di Totoruccio Fierro

Rendo noto ai miei pazienti, affezionati, benevoli lettori che l'episodio che mi accingo a narrare non è frutto di una spigliata ed incontrollata fantasia, ma è assolutamente vero.
Mutuando uno dei tanti anglicismi, seguendo la moda imperante, è una True Story!
Ricorrere a questi termini, per me è un' operazione molto sofferta, ma necessaria per evitare di essere considerato una persona retrograda, retriva, conservatrice e al di fuori dei tempi!
Tralasciando questo lungo esordio, questo noioso preambolo, mi accingo a narrare il fatto, la vicenda!
Al nostro protagonista, alla nascita gli fu appioppato il nomignolo, il vezzeggiativo di 'Nduniuccio, per rispetto e come "sepponta", (essendo unico nipote) al nonno, il cui nome era, appunto, Antonio!
Crebbe circondato dall'affetto dei suoi familiari; frequentò con profitto la Scuola Elementare e quando si accingeva a sostenere l' esame di ammissione alla Scuola Media, fu convocato dal nonno, uomo d'altri tempi, tutto d' un pezzo, determinato, intransigente, alieno da concessioni o compromessi sul piano delle opinioni e dei comportamenti, proprietario di un latifondo, che, in modo bonario, sconsigliò il nipote dal proseguire il corso degli studi e di dedicarsi, invece, come unico erede, all' agricoltura, al lavoro dei campi com'era nella tradizione familiare.
Si rassegnò a poco a poco, trovando dopo anche conforto e convinzione nella lettura delle Georgiche di Publio Virgilio Marone, che nei lavori agricoli, a contatto con la Natura, vedeva il recupero pieno della felicità dell'uomo!
Si sposò, ebbe dei figli e, nonostante la sua età avanzata, tutti lo chiamavano ancora 'Nduniuccio!
Il tempo, l'età, le carie, la piorrea ecc., ecc. avevano operato cinicamente una sistematica e drammatica devastazione nella sua bocca, al punto tale che dei 32 denti gliene erano rimasti solo 3, conficcati, come estremo baluardo, nella gengiva inferiore!
Era ridotto, poveretto, a nutrirsi esclusivamente di brodini vari, passate e vellutate di erbe e sostanze diverse : insomma, più che masticare, inghiottiva, deglutiva...
A ragione di tale regime dietologico, era ridotto pelle ed ossa!
Ostinato, caparbio, testa dura, non accettava di porre rimedio a questa situazione, convinto com' era che era vittima di un bieco determinismo, di un truce fatalismo che lo avevano spinto a poco, a poco nelle braccia di un pessimismo... "cosmico"!
Frattanto, il suo stato di salute peggiorava di giorno in giorno e la moglie con l'ausilio dei figli, demolirono le sue pervicaci riserve mentali e lo affidarono alle cure e all'attenzione professionali di un solerte, capace e preparato Dentista.
Quest' ultimo, nel giro di alcune settimane, gli approntò le due protesi, superiore ed inferiore, che, quasi per incanto, gli cambiarono, in modo palingenetico, la sua vita!
Ora masticava, triturava di tutto : finanche la carne dura e cruda, non di un tenero agnello, ma della di lui madre, una pecora adulta, pronta per il macello!
Più volte si recò a far visita al dentista, fautore del suo recuperato stato fisico, per ringraziarlo con devozione e riconoscenza!
Ma la storia non finisce qui : se lo fosse, la sua trama risulterebbe dozzinale, ordinaria, mediocre, di poco pregio!
Allora, seguitemi, leggendo il suo epilogo!
Quel giorno, com' era solito, si recò alla sua campagna, dove, tra l'altro, si dedicava con cura maniacale, alla coltivazione di un ampio orto.
Era felice di non mancare a questo appuntamento giornaliero, perchè si sentiva appagato, lontano dalla complessa vita del paese, e a suo agio immerso nella natura, la cui semplice bellezza gli purificava la mente e restituiva più vigore al suo corpo!
Raccolse un grosso pomodoro, della varietà di Belmonte Calabro, e, dopo averlo tagliuzzato, lo condì solo con spicchi di cipolla, pizzichi di sale e origano : annaffiò la vivanda, tracannando mezzo litro di Aglianico del Vulture...
Si accostò, poi, al ruscelletto dove scorreva veloce un'acqua limpida, "azzurra e chiara" : si sdraiò sulla sua riva, sotto la densa e benefica ombra di un pioppo!
Estrasse dalla bocca la protesi superiore, la lavò con cura e la poggiò delicatamente su una larga foglia per farla asciugare al sole, i cui raggi la fecero di botto brillare e luccicare come una moneta d'oro, una pietra preziosa, una gemma di quarzo!...
A questo punto, rallento, prendo una pausa, recupero il fiato, perchè la narrazione diventa convulsa, frenetica : incomincio ad aver timore, ad aver paura...
Il fatto è che alla distanza di poche decine di metri da lui, appollaiata sul ramo di un alto pero, molleggiandosi ininterrottamente sulle zampette e alzando e abbassando senza sosta la sua lunga coda, nera e bluastra, c'era, spettatrice non invitata, una Gazza Ladra ( non quella di Gioacchino Rossini )!
Essa partì come un missile sparato da Cape Canaveral e facendo una picchiata ( degna di quelle dell' aviatore tedesco Manfred von Richthofen, il Barone Rosso, famoso per le sue vittorie durante la* Prima Guerra Mondiale ) planò rasentando il suolo e col suo duro becco, con la destrezza e voracità di un felino e l'agilità di un acrobata circense, acchiappò la protesi e, con la stessa velocità con cui era discesa, volò via, dileguandosi nella nitida altezza del cielo!
Che dire dello sfortunato
'Nduniuccio?
Rimase sbalordito, allibito, stupefatto, smarrito, incredulo : due pesantissime randellate assestate con vigore sulla sua testa l' avrebbero appagato molto di più!
Ripresosi, andò alla ricerca spasmodica, febbrile, affannosa dei suoi denti, nella viva speranza che la Pica-Pica, date le dimensioni del bottino sgraffignatogli, l' avesse potuto perdere durante il volo di ritirata...
Girovagò in lungo e largo, avanti e indietro, di qua, di là, a destra, a sinistra, ma della sua dentatura neanche la minima...puzza!
Intanto, le prime ombre della sera calarono dense e beffarde sul luogo della rapina e l'infelice, affranto e sconsolato, se ne tornò mogio, mogio a casa sua, convinto che, come il
" cornuto e mazziato ", avrebbe dovuto sacrificare anche la cena!
Non oso dare un finale a questa storia vera ed incredibile, ma lascio a voi lettori, depositari di riconosciuta e responsabile autonomia, di adeguata sensibilità, di legittime aspettative, di immaginare e ipotizzare la sua concl

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