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Celestino De Marco e Il rubinetto del "CONTENTINO" di Mario Garofalo in esclusiva per www.montella.eu

 Nel bell'articolo di Nino Tiretta sulle fontane pubbliche anticamente presenti nei casali di Montella,simboli nostalgici di una civiltà perduta,di un variopinto microcosmo paesano,fatto di incontri, di chiacchiericci,di dispute e di amori,di giochi e di fatiche,viene menzionata l'esistenza di un fontanino fuoruscente dal recinto murario di "Villa Elena" : "sul muro perimetrale di Villa De Marco...-scrive Tiretta- subito dopo il termine della grande guerra,funzionava un fontanino "offerto" ai montellesi da Celestino De Marco,il ricco americano che,in quel periodo fu,anche,sindaco di Montella"

Quel fontanino era ancora lì negli anni Cinquanta,a pochi passi dall'ingresso della chiesa di S.Benedetto. Io ,da ragazzino,lo osservavo con curiosità quando,uscito dal cinema Fierro (dove si proiettavano films western americani) risalivo corso Umberto I. Mi incuriosiva il nome del "donatore" Celestino De Marco, un uomo famoso di Montella sul quale avevo ascoltato racconti di malefatte e di prepotenze,ma anche di grandi generosità e di appassionati impegni sociali e politici; per lui qualcuno aveva coniato l'epiteto di RE CELESTINO, accomunandolo al più celebre Re Michele desanctisiano,che per altro il De Marco conobbe e frequentò durante il primo mandato di consigliere provinciale e più volte andò ad ossequiare nella casa di Salza Irpina.

Chiesa Sant Anna In seguito, studiando la storia del mio paese, ho avuto modo di meglio tratteggiare quel personaggio e la vicenda del fontanino, la cui acqua, raccolta nella sottostante vaschetta a conchiglia, ritornava nelle condutture della villa. Ma allora,alla mia immaginazione di adolescente Celestinio De Marco appariva come un uomo tarchiato, panciuto e paonazzo,dal carattere altezzoso ed imperioso eppur, talvolta, bonario melanconico e sorridente, che si aggirava nel chiuso dorato di quel palazzo fatato ed inaccessibile, vigilato da due leoni bronzei e da due statue femminili dallo sguardo sfingeo, ingannevolmente rassicurante, immerso in un parco anch'esso edenico, incantato e pieno di misteri. Ma chi fu,in realtà,Celestino De Marco?

C.De Marco nacque a Montella il 18 ottobre 1863 da Alfonso e Filomena De Stefano. Di umili origini contadine,visse un'adolescenza grama,di povertà e di miseri espedienti esistenziali, che presto debordò in forme delinquenziali, costellate di furti, borseggi,risse e galere. D'indole intraprendente e poco incline all'obbedienza delle leggi, nel 1879 era stato condannato per spaccio di denaro falso; l'anno successivo si era reso protagonista del ferimento volontario di un giovane del paese; nel 1885 era stato condannato per renitenza alla leva.  Anche per sfuggire agli obblighi militari nel 1886 si imbarcò per gli Stati Uniti, seguendo l'ondata migratoria che allora depauperava la popolazione delle contrade irpine.

Prese dimora nel Sud Carolina,dove inizialmente, per sopravvivere,esercitò varie anovalanze e mestieri. Ma presto,anche lì, le grandi difficoltà del vivere in una nazione, che non tutelava diritti civili e lavorativi degli immigrati,considerati strumenti vili di arricchimento da parte di una borghesia ingorda, sempre più in marcia nella costruzione di una società spietatamente capitalistica, lo spinsero ad entrare nell'ambiente della malavita italoamericana, allora caratterizzata dal gangsterimo e da piccole organizzazioni criminali, dedite alle estorsioni, ai ricatti, ai furti: prime formazioni malavitose che di lì a qualche decennio si sarebbero trasformate in grandi e strutturate bande criminose,come la le famigerate Mano Nera e Cosa Nostra.

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Le cantine di una volta a Montella di Nino Tiretta

“…...nella cantina, in giro rosseggia parco ai bicchieri l’amico dell’uomo, cui rimargina ferite e gli chiude solchi dolorosi,…. “>>>CONTINUA<

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Arte e cultura .....i vostri atrticoli

 

 

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TECHne’’ - Progettare il futuro di Roberta Bruno e Ugo Calvaruso

Gianni Fiorentino, laureato in Giurisprudenza e titolare dell’omonima azienda agricola, ha ricoperto per anni il ruolo di consulente allo sviluppo locale ed è da sempre appassionato di vino.  Nato e cresciuto a Paternopoli, in una casa in campagna nel mezzo di un vecchio vigneto, tra gli odori della terra lavorata e quello del vino fatto in casa, coltiva da sempre insieme ai fratelli il desiderio di costruire una cantina nuova, che faccia dell’innovazione la naturale estensione della tradizione.

Nel 2012 realizza l’aspirazione familiare: quello di un’azienda vinicola con una cantina caratteristica, in grado di raccogliere il passato delle tradizioni e guardare verso il futuro, tenendo insieme territorio e tecnologia. Sviluppare questa attività all’interno della proprietà familiare è stata una scelta che ha riguardato insomma tutta la famiglia: dalla unione della gestione dei vigneti, alla costruzione di una nuova cantina in bioarchitettura, fino all’avvio dell’attività di vinificazione e di commercializzazione del vino. «La nostra storia familiare è molto legata alla terra: mia madre era contadina e mio padre emigrante.
La nostra passione per il vino è un amore indotto anche dalle circostanze in quanto il vino è stato fin dall’inizio un convitato liquido all’interno della nostra famiglia. La vecchia cantina si trovava tra la cucina e le camere da letto e quindi, da sempre, la nostra è stata una convivenza di fatto con il mosto, con il vino, con le botti, le bottiglie...
Nel tempo, dunque, ci è sembrato naturale protrarre e provare a dare valore a quello che avevamo già. Agli inizi degli anni ’90 abbiamo dato vita alla prima cantina di Paternopoli, vinificando ancora in casa, fino a poi intraprendere questo nuovo percorso più strutturato, con i suoi punti di bellezza e difficoltà, ma che appartengono direi naturalmente all’attività d’impre - sa».
Per Gianni Fiorentino il settore del vino in Irpinia è ancora all’ini - zio di un percorso, molto è stato fatto e si sta facendo e ancora tanto si potrà fare nei prossimi anni, sia rispetto alle strutture aziendali che alla capacità di produzione, nonché nell’integrazione degli elementi di innovazione all’interno delle singole aziende: «Da questo punto di vista l’Irpinia, seppure siano presenti  grandi marchi storici e affermati, è sul piano più generale una terra giovane, ma può fare di questa
condizione oggettiva un punto di forza: non avendo infatti dei modelli consolidati e strutturati sotto il profilo dell’identità e non solo, restano ampi spazi per creare o inserire elementi di innovazione e cambiamento funzionali alla modernizzazione del tessuto imprenditoriale ».

La mancanza di riferimenti strutturati e diffusi crea di fatto uno spazio di azione potenziale sul quale insistere. «L’Irpinia è produttrice del Taurasi, ma ogni cantina ha il proprio, con il risultato di avere spesso tanti Taurasi l’uno diverso dall’altro.
Inoltre, esiste un certo disequilibrio tra le aziende, in virtù di un individualismo che pur essendo prerogativa dell’attività di impresa, qui si traduce in una costruzione monca o addirittura assente di una visione condivisa e di spazi dove questa visione può generarsi e crescere.
La produzione del vino in Irpinia, rispetto al mare magnum del mercato dei vini, è una piccola parte, seppure di pregio, per cui proprio gli elementi della condivisione e del confronto possono in questo caso giocare un ruolo fondamentale ».
Per far sì che il prodotto si imponga e cresca sul mercato oltre alla necessaria “qualità del prodotto” è opportuno – secondo Fiorentino - arricchire la “qualità del racconto che oggi è parte integrante del prodotto stesso che si offre al cliente”, quindi la narrazione della storia delle aziende, del territorio, del paesaggio, del lavoro, delle relazioni. Su questo aspetto l’Irpinia ha un patrimonio unico e prezioso da narrare e nel quale ritrovarsi. Quello che manca, però, è forse la consapevolezza dell’importanza e della necessità del raccontarsi, in modo tale da poter esprimere all’esterno, all’enoturista, una percezione positiva e profonda della produzione irpina: «La spinta verso gli strumenti digitali, accelerata come non mai dal Covid, ha anche favorito una tendenza alla disintermediazione tra produttore e consumatore»,
spiega Fiorentino, «e questo fenomeno può aiutare nella costruzione di un racconto composito del territorio irpino, oggi episodico, frammentato e sconnesso, spesso assente.
Solo lavorando ad una ricucitura delle diverse parti e del ruolo e delle funzioni degli attori presenti, è possibile raccontare e lasciar conoscere l’Irpinia all’esterno e allo  stesso tempo rafforzare la consapevolezza del territorio in chi ci abita, tirando fuori le storie autentiche ed esemplari».
La questione del racconto è dunque una questione centrale, soprattutto per l‘Irpinia, dove la mancanza di un racconto autentico e fondato su un atto d’amore preclude la visione e la comprensione di nuove possibilità, che oggi più che mai consistono anche nelle nuove tecnologie:
«Mettersi in cammino significa aprirsi alla conoscenza e alla possibilità di apprendere anche dagli altri per importare e contaminare di elementi di novità il proprio lavoro. I modelli predefiniti e stabili sono tramontati, dopo il Covid dobbiamo essere abili a navigare nell’incertezza, per continuare un viaggio di cui non conosciamo con certezza la mèta».
Lo sviluppo per Gianni Fiorentino non è solo nelle tecnologie e nella loro applicazione, ma anche nella “testa delle persone”, dunque rimane prerogativa indispensabile il lavoro di formazione, legato all’espe - rienza e alla conoscenza, che attribuisca il giusto e vero valore “a ciò che si ha e a ciò che si è”. Un aspetto fondamentale di questo processo consiste nell’apprendimento territoriale, che nella narrazione viene valorizzato su due fronti: sia mettendo in evidenza il prodotto sia fornendo una storia unica all’eno - turista-cliente, che a sua volta apprende il valore e la cultura che gli viene trasmessa proprio attraverso quella particolare narrazione.

 

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L’ amico Fritz di Totoruccio Fierro

Nel periodo della mia adolescenza, anni 50/60 del secolo scorso, per ascoltare la musica in generale ( canzoni, pezzi e arie liriche, sinfonie, ecc.), era un’impresa, ardua come quella di scalare una cima dell’ Himalaya o come quella che dovette affrontare il Paladino Orlando che perse la vita nella battaglia di Roncisvalle contro i Saraceni, dopo il tradimento di Gano di Maganza, nonostante la sua Durlindana e nonostante avesse chiesto aiuto a Carlo Magno soffiando nel suo Olifante fino a farsi scoppiare il sangue nelle orecchie! L’ascolto della musica era riservato a pochissimi, ai solo possessori di radio, giradischi e tv!
A casa di mio nonno, Tore Fierro, eravamo fortunati perché tenevamo una radio, chiusa in un grosso mobile di legno lucido e dotata di un giradischi; purtroppo non avevamo i dischi e la radio, ricevendo le sole Onde Medie, gracchiava e gracidava in modo continuo e assillante, martellando le orecchie di chi, paziente, cercava di ascoltarla!
Insomma, un vero disastro!
La buonanima di mio Padre, Carlo Gelsomino, ( che gestiva il Cinema e, dato i tempi difficili e per invogliare la gente, era costretto a vendere i biglietti d’ ingresso per la strada alle persone o al botteghino, poi imbobinava le pizze di celluloide del film e, infine, lo proiettava ) era anche lui affamato di musica, fino al punto da rubare, tagliando tre/quarto metri di pellicola di un film, dove nella colonna sonora era incisa la musica del Toreador della Carmen di Bizet, che riascoltava ogni volta che voleva, non esistendo allora, come dicevo, supporti elettronici e magnetici!
Allora, per ascoltare musica in genere, bisognava aspettare il Festival di San Remo, quello di Napoli e quella che trasmetteva la Rai-Tv : Canzonissima, Alto Gradimento, Festivalbar, ecc.
Un appuntamento importante e significativo era costituito dall’ arrivo dei complessi bandistici pugliesi in occasione delle feste paesane del SS. Salvatore e della Madonna delle Grazie.
Cittá di Bisceglie, Conversano, Giovinazzo e, soprattutto, Gioia del Colle erano e sono le bande musicali piú importanti dell’ intero panorama musicale italiano.
Esse si esibivano sui palchi allestiti al centro delle due piazze del nostro Comune.
Generalmente, erano costituite da 25 - 30 strumentisti, diretti dalla bacchetta di un Maestro dall’alto di un piedistallo. Esse in genere rispettavano il medesimo cerimoniale, prima di dare inizio all’esecuzione : i componenti si alzavano, battendo con le mani gli strumenti; il direttore salutava il pubblico con un inchino poi si girava di spalle e, battendo il leggio con la bacchetta, dava inizio alla prestazione con l’esecuzione dell’Inno d’Italia!
I brani che venivano eseguiti erano costituiti, per lo piú, dalle arie più famose della lirica italiana, canzoni napoletane, incalzanti marcette e sul tabellone esposto si leggevano i titoli degli stessi.
In genere, la gente poco incline e predisposta all’ ascolto della musica classica, passeggiava distratta, mentre sotto il palco si radunava il solito gruppetto degli intenditori e appassionati e, se tra esso si scorgeva la presenza di Emidio Grandis e del maestro di musica Antonio Pertuso, allora significava che il complesso bandistico era veramente all’altezza delle aspettative.
Il maestro Pertuso componeva musica sacra, insegnava musica e suonava l’organo delle varie chiese di Montella durante le varie funzioni religiose.
Si esibiva soprattutto sull’organo della Chiesa Madre ( Collegiata di Santa Maria del Piano ), sostenuto da una ricca architettura lignea, adorna di pitture e rilievi e possedeva una profonda e tremula voce baritonale che faceva scivolare a pioggia sulla sottostante navata, inondandola di intense note vibranti e palpitanti che filavano dritte nel cuore dei fedeli!
Ogni anno, dal 29 novembre al 7dicembre, in questa chiesa si celebra la novena dell’Immacolata Concezione.
La campana incomincia a suonare a distesa alle cinque del mattino e, incalzando sempre piú i suoi rintocchi, tenta di aprirsi un varco tra le tenebre ancora fitte e il freddo intenso di dicembre.
I fedeli si accomodavano sulle due lunghe file di banchi : su una tutti i maschi e sull’altra tutte le femmine!
Ricordo che all’epoca, nelle cappelle laterali di sinistra, addossati alle pareti e agli altari, si allineavano molti giovani che andavano, non tanto per seguire la funzione religiosa, quanto per vedere le ragazze che, di prima mattina, ma giá abbastanza civettuole e compiacenti, reggevano il filo!
Se qualche ragazzo, assai imprudente si azzardava ad andare verso l’abside, passando per le cappelle, allora si sentivano riecheggiare nella chiesa sonori e pesanti schiaffoni e sberle che si abbattevano sulla testa dell’ impudente e temerario malcapitato!
Il prete sull’ altare, avvezzo com’era, faceva finta di non sentire!
Dopo una lunghissima litania...incominciava il canto dell’Immacolata : l’ organista intonava possente la strofa, a cui, dopo un attimo, rispondeva in coro l’assemblea dei fedeli! La canzone è molto lunga e piacevole da ascoltare...
Ma riprendiamo il filo del discorso : una sera piuttosto fresca del mese di giugno, il terzo giorno della festa del SS. Salvatore, mi avvicinai al palco dove si stava esibendo il gruppo bandistico di Gioia del Colle e sul tabellone lessi “ INTERMEZZO “ da L’Amico Fritz di Pietro Mascagni ( Commedia lirica in tre atti ), compositore livornese e autore anche di Cavalleria Rusticana.
Considerando che gli intenditori aficionados erano in trepida attesa, decisi di sostare anch’io!
Non conoscevo il brano, ma la sua esecuzione, la sua partitura mi lasciò attonito ed esterrefatto e grande fu poi la mia commozione, allorché vidi gli occhi lustri degli astanti...
Da allora, ho riascoltato tantissime volte il pezzo, diretto da Von Karajan, Abbado, Muti, ed altri, che mi rinnovella sempre grande emozione e profondo sentimento per la sua straordinaria melodia e musicalità!
La musica ha carattere universale, senza tempo e senza limiti, non è solo per cultori e conoscitori, non ha bisogno di essere appresa, travalica ogni ostacolo, é libera, penetra nell’animo umano e infonde amore ed emozioni anche nei cuori più duri!
Ha un linguaggio espressivo, significante, comprensibile...infatti, come è noto, il Voyager Golden Record è un disco inserito nelle due sonde spaziali lanciato dall ‘uomo nel 1977 nei recessi dell’infinito!
Mi auguro vivamente e con tutto il cuore che esseri viventi dagli infiniti spazi possano restituire all’umanità un loro disco con l’aggiunta di una Ottava Nota, alle sette scoperte nel secondo millennio da Guido d’Arezzo, che potrá così continuare : do re mi fa sol la si...ci siamo!

Totoruccio Fierro

Montella, 2 settembre 2021

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Montella “Maledetta”- 3° puntata Un montellese “cattivo”, Pasquale Bosco di Mario Garofalo

Un altro personaggio che con il suo operato, con la sua indole votata alla cattiveria, con la sua psiche malvagia e deviata, contribuì a corroborare e a diffondere la malafama di Montella come terra “maledetta”, fertile di crimini, di persone ostili, leste di mano e sempre pronte al misfatto, fu il montellese Pasquale Bosco.
L’epiteto di “mal paese” era stato coniato fin dal Seicento e si era andato maggiormente radicando, nell’opinione comune e nelle controversie con i paesi limitrofi (Cassano, Nusco, Montemarano, Bagnoli…), nel corso dell’Ottocento, soprattutto a causa dei briganti che infestavano i suoi monti e i suoi boschi –molti erano nativi del comune- e per la lunga teoria di delitti che in passato vi erano stati perpetrati, per vendette personali o per faide familiari. In realtà l’ambiente montellese non era affatto diverso da quello degli altri comuni irpini, e tuttavia la locuzione di paese –spauracchio,abitato da “mala gente” gli rimaneva appiccicato per lo più come pretestuosa manifestazione di rivalità campanilistica. Infine , fino alla prima metà del ‘900, era diventato uno stanco e retorico appellativo stereotipato e surrettizio.
Come le altre due figure già illustrate ( Fabio Goglia e Ciccio Pascale) anche Pasquale Bosco proveniva da famiglia ragguardevole, di buone tradizioni, con tanto di stemma gentilizio (albero diramato nel campo dello scudo montellese), ma si rivelò presto malapianta germinata da buon seme! Il suo bisnonno, Domenico, era stato apprezzato dottor fisico (chirurgo) e sindaco di Montella; suo nonno Cesare Bosco si era distinto a Napoli come valoroso principe del foro. Laureato in utroque iure, si acquistò gran fama di giurista, tanto da essere nominato dal re Carlo III di Borbone Regio Consigliere e dallo stesso monarca designato come istitutore del figlio (futuro re Ferdinando IV) : un incarico questo che, tuttavia, non potè di fatto esercitare, essendo venuto a morte nell’anno 1752, quando l’infante Ferdinando aveva appena un anno di vita. Erroneamente lo Scandone ne fissò, invece, il decesso nel 1755, implicitamente riconoscendone, forse per eccesso municipalistico, l’espletamento di quel prestigioso incarico per quattro anni.
Suo zio, il sacerdote e avvocato Alessandro Bosco, già vicario dell’arcivescovo di Napoli, verrà ricordato come uno dei più benemeriti cittadini di Montella. Alla sua morte (1765) con testamento olografo lasciò parte della sua eredità per l’istituzione, presso la parrocchia di San Nicola, del “Monte Bosco”, un ente con finalità caritative destinato a “distribuzione in elemosine, medicine, vestimenti per gli ignudi, e maritaggi a donzelle povere, avendo riguardo a quelle della sua parrocchia”, specialmente alle zitelle indigenti sovente costrette a finire nel precipizio della prostituzione. “Finchè fu amministrato –scrive Domenico Ciociola- secondo la volontà del fondatore fu il Monte un vero tesoro per tutti i poveri, ma più per quelli di Garzano, ma quando vi pose mano la [Commissione] Beneficienza ai poveri fu sostituito gravoso ratizzo”. In seguito, e per tutto l’Ottocento, il Monte venne soppiantato dalla Congrega della Carità, che “immemore dei benefici di Bosco” non fu immune da corruzioni e scandali.
Pasquale Bosco nacque a Montella da Gaetano nel 1750, nel palazzo avito (che passerà poi in proprietà della famiglia Capone) di rione Garzano. Fin da giovane studente aveva contrastato, insieme al padre e agli zii Domenico e Nicola (figli di Cesare) l’esecuzione delle volontà testamentarie del defunto zio Alessandro, impugnandone vanamente il testamento sia per la parte in cui si assegnava una cospicua parte dell’eredità all’erezione del Monte Bosco, sia per la parte successoria della casa di famiglia: cosi rivelando presto l’aspetto litigioso, egoistico e violento del suo carattere. Spostatosi a Napoli, seguì studi giuridici, ma non risulta che abbia mai conseguito il titolo accademico, nonostante millantasse in ogni occasione una sua “straordinaria” padronanza del diritto criminale. Entrato nella Guardia di Polizia di Stato, espletò il tirocinio professionale alla scuola del famigerato cagnotto Francesco Caccia. Acquistò bieca nomea di “cacciatore” e persecutore feroce di giacobini durante la congiura repubblicana del 1794, che –come è noto- presto scoperta ed abortita grazie ad interessate delazioni finì tragicamente, con carcerazioni e condanne a morte, tra cui quella del giovane avvocato di Montoro Vincenzo Galiani. Raggiunto il grado di Sovrintendente di Polizia e nominato per designazione regia deputato nella Giunta di Stato per le inquisizioni e processi dei rei di stato dal 1796 al 1798, espletò tali incarichi con una crudeltà ed uno zelo maniacale di persecuzione, portato ai limiti di un parossistico sadismo inquisitorio, che gli valse nell’ambiente partenopeo lo spregiativo e fosco appellativo di “terrore di Napoli”. Nella sua funzione di giudice accusatore applicò sempre con cieca e spietata pervicacia il metodo della intimidazione, della violenza fisica e psicologica, del sospetto e della sopraffazione. Trasse in arresto perfino il Reggente della Vicaria Luigi dei Medici, infondatamente sospettato di aver capeggiato la congiura. Il giacobino Giuseppe Albarelli, ex governatore di Nusco, che della sua conoscenza aveva fatto triste esperienza, in un suo memoriale difensivo pubblicato nel 1799 ne ha lasciato questo impietoso quanto icastico ritratto morale:
Pasquale Bosco era di un carattere originale; ricco per le sue rendite, ma povero perché spendea tutto per il tiranno; presuntuoso di sapere specialmente il codice criminale, ed è di una ignoranza statuaria; vanaglorioso, insultante, e poi adultore vile al segno che fa schifo; insomma un ambizioso senza misura ed una balordaggine illimitata, con una lingua estremamente bugiarda che facea deridersi da tutti. Ad un uomo di tal sorta dava Pignatelli a rivedere i processi delle cause, che strappava da’ tribunali collegiati, allorchè questo ministro di iniquità si cacciò in testa di fondere Napoli nel crogiuolo dell’empietà sua… Bosco diceva sovente che, se suo padre fosse stato vivo, egli lo avrebbe denunciato e carcerato.
che Benedetto Croce considerò il ritratto del “tipo di un satellite di polizia fanatico e disinteressato”. Vincenzo Cuoco, l’autore del Saggio storico sulla Rivoluzione di Napoli , scrisse che il nome di Bosco e quello dei tanti “scellerati” giudici di quei processi, “la giusta vendetta della posterità non deve permettere che cadano nell’oblio”.
Agli inizi del 1799, con i francesi di Napoleone alle porte di Napoli, ottusamente fedele alla monarchia e per sottrarsi a possibili ritorsioni da parte delle vittime dei suoi abusi e sevizie, seguì re Ferdinando in Sicilia.
Durante la breve stagione repubblicana del’99 si aggregò al raccogliticcio esercito sanfedista del cardinale Ruffo in Calabria, dove si industriò a procacciare fra i contadini proseliti antirivoluzionari. Durante la restaurazione borbonica il suo fanatismo legittimista ed anti giacobino venne formalmente premiato dal re, con la riconferma nella carica di Sovrintendente di Polizia e con un sostanzioso incremento stipendiale, al quale potè sommare anche una pensione annua ricavata dai beni confiscati dei rei di stato, a parziale risarcimento –sostenne- delle spese “di suo”, impiegate per la “buona causa”. Dopo un breve periodo di soggiorno in terra di Gesualdo, ove possedeva proprietà, tornato a Napoli si diede ad organizzare e capeggiare, con il subdolo beneplacito della regina Carolina, una congiura che aveva lo scopo di indurre la plebe partenopea al “massacro generale dei cosi detti amici de’francesi e degli indifferenti sino all’estirpazione totale delle famiglie”. Ma la orchestrata congiura (ignota al re) non andò in porto perché prontamente scoperta e bloccata dal capo della polizia Ferdinando Marulli, Duca d’Ascoli. Solo grazie all’intervento della regina ( che era stata connivente) il Nostro poté sottrarsi a più spiacevoli e gravi conseguenze.
Già giubilato con misero obolo mensile di ducati 25, dopo una brevissima detenzione, venne comunque confinato ai domiciliari a Gesualdo, “sotto pena di vita, tornando a Napoli, e confisca di beni, e con l’incarico al Preside per Bosco di invigilare sulla sua condotta e riscontrarne S.M settimanalmente”. Ma già quindici giorni dopo l’arrivo a Gesualdo, riuscì ad eludere la disaccorta vigilanza e poté raggiungere Montella. Nel paese natio cercò inutilmente di arruolare adepti alla causa antigiacobbina. Tentò, con poca fortuna, di riallacciare rapporti con alcuni vecchi elementi filo borbonici del paese, i quali, per prudente timore di compromissione, evitarono di incontrarlo e di frequentarlo, come risulta da alcune lettere di Giuseppe Capone al nipote Andrea Capone, esponenti di una famiglia da sempre amica dei Bosco. Tornato a Gesualdo e datosi alla macchia, venne infine catturato dalla colonna mobile del Gen. Arcovito. Trascinato a Napoli, il 3 Maggio 1806 sfilò incatenato insieme ad altri arrestati, per essere rinchiuso nelle carceri della Vicaria. Narra Carlo de Nicola, un cronista napoletano contemporaneo (legato a Montella per aver sposato una Pascale del luogo):
Tra i quali il conosciutissimo giudice di polizia D.Pasquale Bosco, che si è portato carico di catene su d’un somaro e camminava in mezzo ai più crudeli insulti che dai circostanti gli si facevano… Sarà giunto il termine dei giorni suoi; ma quante famiglie non hanno pianto per lui nel tempo del suo favore e dell’inquisizione di stato del 1799, non che della precedente del 1796 e 1797!
Nella prigione napoletana, presagendo la sua fine imminente, dettò testamento a favore della moglie Caterina Viscardi e, improle, in subordine del nipote Gennaro Bosco. In settembre, con altri detenuti politici ritenuti pericolosi, fu deportato in Piemonte nella gelida fortezza alpina di Fenestrelle. Ormai affranto e preda di un progressivo squilibrio mentale, psichicamente disturbato, sentitosi abbandonato anche dai beneficiati consorte e nipote, ritrattò il testamento e devolse tutti i suoi averi a certa Elisabetta Andriele, moglie del suo carceriere, che forse gli aveva dimostrato sentimenti di compassione o, più probabilmente, l’aveva circuito. Solo e derelitto, ostaggio della sua follia, si spense il 5 agosto 1810 all’età di anni sessanta.

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Un omaggio in versi al nostro paese di Maria Carfagno

1 ottobre
L’inverno per noi cominciava
il primo giorno di scuola.
C’era già aria di neve e i
giochi finivano d’un tratto
spazzati da un nembo scuro.
Bambini spinti dal vento,
cartelle con i sussidiari,
banchi di legno
e nuvole di vapore.
Fino all’attesa del Natale,
delle scintille per giocare,
delle bambole vicino al camino,
delle lacrime di questo giorno.
Per questo inverno che si
avvicina, privo di attese infantili.

28 agosto
Il colore del mio cielo
si fa opaco
mentre raggiungo
la terra dove non v’è
sentore di foglie e di radici.


Montella
Il mio paese è adagiato da secoli
tra i monti e il sole, d’inverno,
vi tramonta presto liberando
i sogni, le ombre e l’oblio.
Ma quella luce che cala,
quella luce che sorge
dietro un piccolo lontano presepe
è opera di un dio silvestre.
Niente avrà mai la bellezza
del suo cielo d’agosto
né del suono delle campane
che richiamano salite ardite nell’alba
per raggiungere il Monte e i Santuari.
Ovunque, se non nell’anima,
mai troverò il verbo laconico
né la stessa dignità.
E il mio sguardo rimarrà rivolto ad oriente
verso quel piccolo lontano presepe
come il primo giorno di vita.


Il nostro mattino
Sembrava che niente potesse fermare
il treno in corsa dei nostri vent’anni.
Poi il rumore assordante e il silenzio.
Il nostro destino deragliò
in una notte gelida, tra pietre e dolore.
Diventammo figure sfocate
aspettando il mattino che ci rese adulti.
E oggi che sento il respiro del tempo
rivedo i nostri volti bambini
nelle pagine di un racconto che
una mano benevola continua
lentamente a sfogliare.


Ti coprirò di fiori
Ti coprirò di fiori colti dal tuo roseto.
Tornavi dalla caccia sorridendo
ma c’era poco nel tuo carniere.
Un’anatra selvatica che
avresti risparmiato se non
avessi sentito altri cento fucili
tuonare e abbattere senza posa.
Forse avevi in mente gli spari
nel deserto che ti svegliavano
nel cuore della notte, quando
la guerra era ormai lontana.

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Vinciamo i pensieri negativi, un sostegno via telefono. Dal "Il Quotidiano del sud " di Roberta Bruno

Montella – È iniziato lunedì il supporto psicologico telefonico, per chiunque abbia necessità in questi giorni in cui l’emergenza sta cambiando radicalmente le abitudini e le percezioni di sicurezza e di relazioni sociali. La Dottoressa Alessia Capone, psicologa psicoterapeuta cognitivo comportamentale e la Dottoressa Daniela Storti, psicologa del Consorzio dei Servizi Sociali A3, hanno messo le proprie competenze a disposizione della comunità.
«Siamo bombardati da ininterrotte informazioni sul numero dei contagi e sulle regole da seguire per limitare il pericolo di contrarre il virus, ma dal punto di vista psicologico non ci sono contromisure adeguate e le persone sono in balìa delle proprie paure» spiega la dottoressa Capone, e aggiunge «il problema oggettivo del Coronavirus diventa così un problema soggettivo in relazione al vissuto psicologico, alle emozioni e alle paure che il tema suscita nelle diverse persone. Di conseguenza, la “percezione del rischio” può essere distorta e amplificata, fino al raggiungimento di stati di panico, spesso ingiustificati e controproducenti, in quanto conducono a comportamenti meno razionali e ad un abbassamento delle difese, anche biologiche, dell’organismo».
Parola d’ordine?
«Normalizziamo! focalizziamoci sulla positività, e distraiamoci!
La paura è l'emozione che ci consente di sopravvivere come specie, grazie ad essa ci siamo sempre protetti dai pericoli. Avere paura è, quindi, assolutamente normale e protettivo in questo momento perché ci consente di essere prudenti e di seguire le direttive dello Stato. Allo stesso tempo però è utile spostare la propria attenzione dalle informazioni negative a quelle positive, a quello che di buono stiamo imparando da questa esperienza».
Il servizio, chiaramente gratuito, è attivo nelle seguenti fasce orarie:
martedì, mercoledì e giovedì dalle 9-18 (dottoressa Capone), e lunedì 15-18 e venerdì 8.30-14 (dottoressa Storti).

Robibrù

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La lettera aperta di Cianciulli a don Andrea Ciriello - dal "Il Quotidiano del Sud " di Roberta Bruno

Montella – Nei giorni scorsi una richiesta particolare ha fatto discutere il paese, togliendo per un po' i riflettori dal virus. Riccardo Cianciulli, consulente del lavoro e devoto del SS. Salvatore, ha pubblicato una lettera aperta indirizzata a Don Andrea Ciriello, Rettore del Santuario del SS. Salvatore di Montella, chiedendo di portare in paese la statua del Santissimo.
La statua, così come il santuario che la ospita, racchiude in sé un valore simbolico particolare per tutti i montellesi.
Nel maggio del 1979 una forte siccità mise in difficoltà tutta l’Italia, a Montella la pioggia mancava dalla fine del precedente autunno. Così, i montellesi decisero di prelevare la statua del Santo, posta al santuario. La statua venne portata a spalla da 4 sacerdoti fino alla Chiesa Madre, e lì esposta per la venerazione. Il miracolo della pioggia avvenne il terzo giorno, da allora nacque la tradizione di portare la statua in paese, in processione dal santuario, in occasione di eventi di una certa importanza o di calamità. Venne riportata in paese alla fine di entrambe le guerre mondiali, durante i giubilei della chiesa e durante le commemorazioni celebrative importanti, come il centenario e il bicentenario dei “fatti miracolosi”.
«Ogni volta che si sono verificati eventi eccezionali o emergenze, come carestia, siccità e pestilenza, è stata portata in processione la statua lignea del Santissimo. Conservandola nel paese tutta la popolazione ne ha giovato, sentendone la vicinanza» queste le parole di Riccardo Cianciulli, promotore dell’iniziativa, che definisce “provocatoria”.
E difatti, sia sui social che in paese l’impatto è stato forte. Ma oltre al grande seguito, ha dato origine anche a molte polemiche, soprattutto tra i più giovani; forse quelli che guardano alla consuetudine e alle tradizioni con occhio più critico e distaccato.
Sarebbe infatti, in questo momento così particolare per tutta l’Italia, contrario alle direttive ministeriali, che si rifanno a loro volta a quelle del mondo scientifico-sanitario, riunirsi per trasportare e adorare la sacra effigie.
«La mia era una provocazione. Se il Vescovo blocca le messe non potrebbe mai autorizzare un’azione contraria. Ma la mia proposta non riguarda processioni o assembramenti, ma chiede semplicemente di spostare la statua, anche di notte, e di farla trovare in piazza, regolandone poi l’ingresso in chiesa» continua Riccardo, e aggiunge:
«È stato fatto ogni volta che se ne è sentita l’esigenza. Il montellese è fervente devoto, crede nell’immagine e prega per il miracolo come ha sempre fatto, toccando la statua e portandola in processione. Di questi tempi basterebbe incrociare lo sguardo del Santo per dare conforto e fiducia ad ognuno di noi».
Certamente questo episodio significa qualcosa di importante e dimostra quanto la pratica della devozione sia radicata nella cultura italiana, e in quella del Meridione in particolar modo.
La paura, l’inquietudine e l’insicurezza spingono da sempre l’uomo a cercare nel divino e nel soprannaturale, se non la via della salvezza, almeno un motivo di conforto. La storia e la tradizione ci insegnano come, nei momenti di afflizione, si sia sempre presentata l’esigenza di rassicurazione, preghiera e supplica. Ma saper tracciare i confini tra quella che è un’esigenza interiore e l’impellente necessità esterna è oggi necessario. Altrettanto, tolleranza e rispetto sono doverose verso tutte le manifestazioni interiori, anche se contrarie alle convinzioni personali.

Roberta Bruno

 

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Villa Elena - De Marco : Storia di solidarietà . dal " Il quotidiano del sud - di Roberta Bruno

Mentre si va alla conclusione del secondo mandato del consiglio di amministrazione dell’Ente di Montella - 
Il fatto
In vista della conclusione del secondo mandato del consiglio di amministrazione dell’Ente “Elena e Celestino De Marco”. Il consiglio, il cui mandato dura quattro anni, consta di cinque membri, di cui due vengono scelti dall’amministrazione comunale, due dalla regione e uno dagli ospiti della struttura. La presidente uscente, Annamaria Mele, rilascia un’intervista al Il Quotidiano del Sud, illustrando il lavoro svolto negli 8 anni della sua presidenza.
«Mi ritengo soddisfatta per tutti i lavori realizzati in questi anni» afferma la presidente.
«Sin dall'inizio del mio mandato mi ero posta l'obiettivo di dare splendore al parco. Ed infatti, con la pavimentazione del piazzale ed il restauro delle statue in bronzo, ho voluto lasciare un segno tangibile dell'amministrazione da me presieduta. Intendo ringraziare i consiglieri Michelina Pennucci, Giovanni Delli Bovi e Diego Romaniello che hanno condiviso i miei obiettivi, e in particolare il vice-presidente Tonino Cianciulli, che con discrezione ha seguito e vegliato su tutti i lavori di rimessa a nuovo».

La storia
Villa Elena, splendido edificio in stile liberty, venne costruito tra la fine del ‘800 e i primi anni del ‘900 su progetto dell’architetto del luogo Antonio Moscariello, per volere del facoltoso Celestino De Marco, un montellese che nel 1866 si era imbarcato per gli Stati Uniti, seguendo l’ondata migratoria dell’epoca, dove fece fortuna grazie alla sua collaborazione – qualcuno insinua - con la nascente criminalità organizzata della Little Italy.
Una volta rientrato a Montella volle costruire una villa che potesse competere in magnificenza con le dimore signorili del tempo, che titolò Elena, in omaggio alla giovane moglie Elena O’ Connor, conosciuta in America.
Fu proprio quest’ultima, dopo la morte di Celestino, a disporre per testamento che i suoi beni «…servissero a creare un’opera di beneficienza, intitolata a nome di essa Signora Elena O’ Connor ed al nome del marito Celestino De Marco, a favore delle persone povere di Montella incapaci al lavoro per vecchiaia e malattia, da alloggiare nella villa di proprietà di essa Signora O’ Connor sita in detto Comune», nominando suo esecutore testamentario l’amico montellese prof. Michele Cianciulli.
(Così testualmente si legge nell’atto costitutivo della fondazione “Casa di riposo Elena e Celestino De Marco”, redatto il 29 luglio 1966 in Roma).
La fondazione, con Decreto della Giunta Regione Campania N. 839 dell’11.09.2014, venne poi trasformata in Azienda Pubblica di Servizi alla Persona “Casa di Riposo Elena e Celestino De Marco”, ente senza scopo di lucro che opera nel campo dell’assistenza, occupandosi del soddisfacimento delle esigenze degli ospiti della casa, dei servizi e della tutela del patrimonio ad esso annesso.

Lavori svolti
Negli ultimi anni sono stati svolti importanti lavori sia di mantenimento del parco, della Villa e della casa di riposo, sia di recupero e salvaguardia dei beni a lungo trascurati.
Dall’insediamento del consiglio, anno 2012, sono stati infatti avviati importanti lavori di adeguamento di tipo strutturale e igienico-sanitario della casa di riposo per gli anziani. Inoltre, per quanto riguarda il parco, sono stati asfaltati i viali, costituiti vialetti e muretti, ed è stata adeguata l’illuminazione nel parco.
Nel 2016 è stato rifatto il manto del campetto polivalente con erbetta sintetica.
Nel 2017, dopo le indagini visive, è stato fatto un intervento di messa in sicurezza degli alberi ad alto fusto.
Nel 2018 è stato eliminato l’asfalto e ripavimentato il piazzale principale, con un risultato estetico notevole che ha valorizzato l’ingresso della villa.
Nel 2019 è stato avviato il primo restauro delle statue in bronzo, sia quelle dei leoni, un tempo appartenenti a Villa Trevisani e che poste a guardia dell’ingresso di Villa Elena e sia quella del SS. Salvatore, fatta erigere da Celestino De Marco poiché molto devoto, posta oggi nel viale principale. In particolare, le statue, risalenti alla fine dell’800, che versavano in stato di degrado poiché usurate dal tempo e dagli agenti atmosferici, rischiavano di perdersi completamente.
Proprio la settimana scorsa si è conclusa finalmente la vicenda degli alberi ad alto fusto pericolanti. Sono stati potati i 12 alberi a rischio, individuati dale indagini visive e strumentali avviate in seguito alla caduta di una cima di un albero nello scorso novembre.
Le indagini strumentali, così come il restauro e il recupero delle statue o il taglio e la cura del patrimonio boschivo, sono tutte opere realizzate per la prima volta. Trascurarle ancora avrebbe significato compromettere un bene di non solo valore estetico, ma umano, poiché, come si intuisce dalle parole della presidente Mele, la villa con il suo parco
rimane il punto di ritrovo centrale e di svago sportivo per bambini, giovani, famiglie ed anziani. Svolge in sostanza la funzione tipica di “villa comunale” di cui il paese è sprovvisto.

La polemica
Il 13 luglio del 2019 sul mattino veniva pubblicato un articolo di Giulio D’Andrea, che rilanciava la polemica aperta da Raffaele Cianciulli, nipote di quel Michele Cianciulli che aveva istituito la casa di riposo secondo il volere di Elena O’ Connor, che oggi vive ad Avellino.
«l’identità di Villa De Marco è stata tradita negli anni» affermava Cianciulli «Da casa di riposo per anziani è diventata un parco pubblico». Sarebbe, dal punto di vista del Cianciulli, proprio il brulichio di bambini e ragazzi a disturbare la quiete dei residenti, non rispettando in questo modo «né le volontà testamentarie né gli anziani».
L’articolo concludeva con la richiesta di intervento dell’amministrazione Buonopane, affinché si ripristinasse la «vocazione originaria di quell’edificio e lo spirito della fondazione», limitandone probabilmente la fruizione ai soli ospiti della Casa.
Pronta è stata la riposta della presidente Mele, che ha replicato mettendo in luce gli obbiettivi dell’Ente e l’operato dell’amministrazione, ossia la crescita del benessere personale, relazionale e sociale degli individui di entrambi i sessi, attraverso il prevalente svolgimento di servizi di tipo residenziale a favore di anziani autosufficienti.
«L'obiettivo è quello di puntare al soddisfacimento delle esigenze di ogni ospite anche attraverso il coinvolgimento e l’integrazione con la comunità» rispondeva Mele.
«Ecco perché, tra l’altro, l’intero parco verde è aperto al pubblico in forza di una convenzione con il comune di Montella che assicura il giusto equilibrio tra le esigenze di entrambe le parti.
Con l’apertura del parco, gli ospiti della Casa di Riposo hanno la possibilità di interagire con persone di ogni età e ciò non crea disturbo, anzi li motiva ad uscire nonché ad assistere alle attività sportive e ludiche che vengono praticate, e ad oggi non risultano lamentele da parte degli ospiti».

conclusione
Una nota di merito va al lavoro diligente dell’amministrazione uscente, la quale ha saputo tenere gli interessi personali e politici lontano dall’ambiente della Villa De Marco.
«Non abbiamo mai richiesto finanziamenti pubblici, tutti i lavori, anche i più onerosi, sono stati sbloccati e messi in atto gestendo e mettendo a frutto, in maniera avveduta e responsabile, le risorse dell’Ente. Ogni membro ha portato il proprio contributo con professionalità e utilizzando la propria competenza. Il taglio boschivo delle proprietà dell’ente, per cui abbiamo avviato un iter burocraticamente lungo e complesso, è un esempio calzante».
In quei boschi, infatti, venivano perpetrati continui furti di legname, certamente favoriti dalla mancata cura delle proprietà. Ottenere le autorizzazioni necessarie per tagliare e vendere il legname non è stato semplice, ma, infine, l’amministrazione è riuscita a trasformare il ricavato in risorse da reinvestire all’interno della Villa.
«L’appello che rivolgo a chi verrà dopo di noi è di proseguire nella gestione attenta ed oculata del patrimonio e delle risorse, affinché ogni risparmio si trasformi in guadagno».
«Oggi la Villa Elena, il Parco e la residenza per gli anziani rappresentano un fiore all'occhiello non solo di Montella ma di tutta la provincia, mi auguro che si continuerà in questa direzione, nell'interesse degli anziani ospiti e della comunità montellese» conclude la presidente.

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«Faccio l’architetto, per questo sono andato via». Pubblicato dal Quotidiano del sud

«Faccio l’architetto, per questo sono andato via». Risponde così Stefano Volpe, generazione 1988, quando gli chiedo cosa l’ha spinto a lasciare Montella e l’Irpinia. Anche Stefano infatti, come tanti altri, dopo essersi trasferito a Roma per frequentare l’università non è mai più tornato. Dopo la laurea, nel 2014, ha vissuto due mesi in Irlanda per perfezionare l’inglese, successivamente è rientrato a Roma per lavorare da Fuksas, il prestigioso studio di architettura internazionale con sedi a Roma, Parigi e Shenzen. Dopo tre anni, tuttavia, si è staccato dallo studio, preferendo un tipo di lavoro autonomo affiancato da diverse collaborazioni; una scelta importante per la crescita professionale e in linea con la figura emancipata dell’architetto.
Stefano, interlocutore attento, preparato ma molto riservato, concede un po' della sua intimità solo quando, forse vinto dalla nostalgia, lascia ridestare il ricordo di quei sogni dischiusi nell’infanzia, e racconta:
«La mia passione è nata a Montella, tra i cui vicoli e rioni da bambino mi sperdevo e disegnavo…»
È meraviglioso immaginare come un luogo, con i propri vicoli e quartieri e con la propria storia, possa nutrire un’identità, coltivandone i sogni e irrobustendone le passioni, mentre amaro è realizzare come esso diventi poi il motore di una forza centrifuga, che spinge le sue risorse sempre più al nord.
«Chi sa» aggiunge Stefano meditando «forse crescere negli anni successivi al terremoto mi ha fatto venir voglia di partecipare alla ricostruzione per vedere gli edifici completi, non più dissestati e fatiscenti».
Il tempo e la ricostruzione ci hanno però insegnato che decadente non è soltanto un edificio diroccato da un cataclisma, ma può definirsi tale anche uno di recente costruzione, quando questo viene “tirato su” senza arte, cultura e (perché no?) passione.
«Non si può pensare di costruire, o ricostruire, un palazzo senza un background culturale e storico e senza pensare al contesto in cui verrà inserito. Non solo, nel caso di una ricostruzione, non si può non contemplare in fase progettuale la destinazione dell’edificio» afferma Stefano, e racconta:
«Dopo il liceo ero indeciso tra architettura e restauro, non avevo mai visto lavorare un architetto, non sapevo bene neanche cosa facesse. Questo perché fare l’architetto non esiste più dalle nostre parti tranne qualche eccezione, come lo Studio Verderosa di Lioni. Si è venuta a creare nel tempo una figura ibrida, una sovrapposizione di ruoli tra quello dell’ingegnere e del geometra, che bene si è consolidata nelle nostre zone, nutrita dal generale disamore per la cultura dell’architettura e la mancanza di denaro».
Ascoltando Stefano si immagina l’architetto come un direttore d’orchestra, come colui che mediante il pensiero trasforma la materia in arte, che “vede” per primo e che per primo costruisce. L’etimologia antica del termine sottolinea il peso di questa figura e della sua scienza.
Quando Vitruvio, nel prezioso trattato sull’architettura, delinea la figura dell’architetto ne prescrive l’adesione ai precetti della poliumathìa, ossia la necessaria conoscenza di diverse discipline: dalla matematica alla geometria, per le forme, la perfezione e la bellezza; dall’astronomia alla teologia, perché tutto sia secondo armonia e “gradito agli dei”; dallo studio delle leggi del diritto a quelle empiriche, quali l’acustica, l’ottica, la fisica fino alla medicina e la meteorologia. Tutte le scienze offrono, dunque, preziosi dettagli che migliorano lo spazio e l’ambiente concepito per l’uomo.
«Non dimentichiamo che gli edifici sono pensati e costruiti per la vita dell’uomo, di cui lo spazio è l’elemento fondamentale» spiega Stefano «ed è proprio lo spazio il dominio dell’architetto».
«L’architettura organizza l’area comune: scuole, edifici, opere pubbliche. E può farlo proprio perché contiene in sé il background culturale per gestire gli spazi».
Non serve chiedere a Stefano se ha in mente qualche buon esempio di recupero e gestione di spazi pubblici a Montella perché, da appassionato qual è, fornisce da sé un vasto elenco di luoghi da recuperare. Persino la sua tesi di laurea ha avuto ad oggetto un importante castello della zona che cela tra le sue mura affreschi del Trecento. Si tratta di un lavoro dettagliato che prevede il recupero e la valorizzazione del sito, contemplando un tipo di fruizione moderna ed ambiziosa: «Ho immaginato il castello del Monte come un piccolo albergo fornito di centro Spa, che permetterebbe di recuperare sia la struttura in questione che la zona circostante e lo stesso monastero. A mio parere è un errore adibire quel sito a solo museo. Bisogna pensare alle cose che creino un reddito e, per la gestione di un bene del genere, solo un museo non è sostenibile».
Oltre al Monte anche palazzo Virnicchi rientra nella lista di Stefano:
«Un edificio antichissimo che è stato lasciato degradare nel tempo e nel disinteresse generale, non solo, nell’area che rimane oggi si pensa di farne un parcheggio!».
«In quel caso» spiega Stefano «non è pensabile ricostruire un rudere da zero, ma potrebbe crearsi un parco archeologico». Lo stesso pensiero vale per l’antico mulino ad acqua andato distrutto: «ricostruire equivale a creare un falso storico, un edificio moderno con le forme dell’antico. E poi, per quale destinazione? Credo sia opportuno consolidare quello che esiste ed immaginare un percorso all’aperto che contempli anche il vicino ponte romano. La qualità del turismo è fondamentale per le nostre zone, solo il turismo culturale può apportare davvero qualcosa al territorio, soprattutto se inquadrato in una rete di comuni e in un percorso culturale che impegni un visitatore a lungo».
Secondo Stefano migliorare i trasporti aiuterebbe già a trattenere giovani e professionisti «avere un collegamento rapido con Avellino e Napoli significherebbe cambiare la struttura sociale. I trasporti e la logistica sono fondamentali: ci fosse il treno non solo per la sagra!» esclama.
Due anni fa, in occasione del trentottesimo anniversario del terremoto, Stefano è stato organizzatore della mostra d’arte “Quasi quaranta”, tenutasi presso il castello dei Cavaniglia a Bagnoli Irpino.
«Eravamo sette ragazzi tra scultori, pittori e fotografi, ognuno dei quali ha parlato tramite l’arte. Per l’occasione abbiano fatto aprire il castello, che altrimenti sarebbe rimasto chiuso.
L’idea che abbiamo è quella di organizzare una Biennale di arte che ricordi il terremoto e quello che ha significato».
Come Stefano tanti altri giovani, che sono partiti e si sono affermati fuori, possono rappresentare per l’Irpinia una risorsa, attirare loro e lo sguardo giovane, professionale e appassionato che li caratterizza, significherebbe riportare dignità e futuro a questa terra.

Bruno Roberta

 

 

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I componimenti di Silvana Gambone

Montella.eu dopo la pubblicazione del libro "La svolta di Viola "  pubblica  i componimenti di Silvana Gambone  

1) ANNI
Anni trascorsi
anni di leggerezza
di baci, di giolla.
Anni di folli passioni
amori malati
che tolgono il respiro
e lasciano il segno.
Anni perduti, investiti
in un ingrato progetto
in cui più non credo.
Anni che fingo di ignorare
mentre spudorati
emergono dai miei occhi
scorrono sul viso
solcano questa pelle
che ancora vesto
e dalla quale
nel calar della notte
mi separo
togliendomi di dosso
il suo tacito peso.

2) Rinascita

Un dolore freddo e costante
mi accompagna
illusa
credevo di poter gestire
invece la “scimmia”
si è presa tutto di me.
Lacrime sorde
non riescono a salire
inchiodate nella gola
graffiano
lo stato ipnotico
nel quale sono sprofondata
mi ha reso muta
stordita, annebbiata.
Non so dove mi trovo
ne da quanto tempo sono qui.
Un barlume di lucidità
in me si desta.
Schiudo i miei occhi
e vedo…
laggiù in fondo al tunnel
una luce lontana
qualcosa mi attrae a lei
sento speranza nel cuore
ed è lì che devo andare.
Trattengo il respiro
raccolgo la forza
spinta dalla sopravvivenza
corro corro corro
lasciandomi alle spalle
i tentacoli del buio.
Sfinita mi sdraio,
la luce del sole
scioglie caldi singhiozzi
e sento riaprirsi le finestre
dell’anima

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Quella pietra a Montella nel ricordo di Gaetano , pubblicato dal Quotidiano del sud

In prima fila gli studenti dell'Itia di Bagnoli - Il liceo scientifico Rinaldo d’Acquino ospita nel giorno della memoria i ragazzi dell’Itis di Bagnoli Irpino che, sotto la guida del vicepreside e professore di storia Raffaele Ficetola, hanno apportato un contributo particolare alla giornata della memoria con la commemorazione di Gaetano Iannella, eroe irpino fuggito dai campi di concentramento di Auschwitz e insignito della medaglia d’onore al valor militare dal Presidente della Repubblica.

La dirigente scolastica dell’Istituto Superiore Rinaldo D’Acquino, Emilia Strollo, che accoglie i giovani provenienti dalle scuole, ricorda come proprio quest’ultimi, che rappresentano il futuro di questo comune, siano i veri destinatari delle testimonianze «perché non ci si abitui a pensare al passato come qualcosa di semplicemente “lontano”, ma da esso si impari a conoscere il rispetto per tutti e per ogni cosa».

«Parlare di Shoah è difficile» commenta il professore Ficetola «e noi abbiamo deciso di farlo nel “Progetto Memoria” approfondendo la ricerca storica soprattutto quella locale, ed è così che ci siamo imbattuti nella figura di Gaetano Iannella».

I ragazzi dell’Itis, infatti, ricostruiscono storicamente gli eventi più importanti e significativi di quel buio periodo storico contestualizzando in questo modo le proprie ricerche, mentre i ragazzi della scuola media di Montella e di Cassano si cimentano in letture, poesie e riflessioni personali sull’argomento.

Gaetano Iannella, di origine montellese, fu arrestato in Albania in seguito ai fatti dell’8 settembre e deportato nel campo di concentramento di Auschwitz. Lavorava nelle cucine, come raccontano alcune testimonianze, e appena poteva portava in segreto il cibo ai bambini affamati del campo.

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SENZA VERGOGNA di Totoruccio Fierro

I^ e II^ PARTE - Avevamo finanche battezzato il "cerchio magico" degli amici con l'acronimo "Volticonbrafi", che era la risultanza delle iniziali dei cognomi: Volpe,Tiretta,Conte,Branca e Fierro.

Ci riunivamo quasi tutte le sere,quando alla casa di uno,quando di un altro : le nostre madri,con grossi sacrifici,ora me ne rendo conto,non ci lasciavano quasi mai a pancia vuota!I momenti più belli li trascorrevamo da zia Flora,in piazza, e da zia Carmela,la madre di Peppo Branca,al Carmine.Qui ci sentivamo perfettamente (ENTRA E COMMENTA )

a nostro agio,in quanto la casa,a quel tempo,era isolata rispetto al paese e per poterci arrivare bisognava inerpicarsi lungo l'unica strada di accesso,scoscesa e pietrosa (quella che costeggia il campo sportivo) che passava,prima,davanti alla villa dell'avvocato Sarni e più sù,trasformandosi in gradoni sconnessi,costeggiava l'abitazione delle sorelle Coscia.

>     D'estate,cenavamo all'aperto su una grande loggia e potevamo parlare ad alta voce, fare chiasso e muoverci a nostro piacimento,tanto l'eco della nostra presenza si perdeva nelle tenebre delle notti stellate!

Facevamo quasi sempre le ore piccole,accompagnate dal vino di Zì Silao,che generosamente ci offriva,spillandolo dalle numerose botti della sua cantina,ricavata in un anfratto roccioso alle spalle della sua abitazione.Il vino era il prodotto della sua vigna,ma,in verità,al di là della sua genuinità,non aveva una gradevole abboccatura,né i pregi e le qualità di consistenza,di equilibrio e di integrità di gusto che sono propri della tradizione enologica italiana,Per intenderci,non era certamente il "Prosecco" delle terre venete di Valdobbiadene!Ma a quel tempo non andavamo troppo per il sottile: ci accontentavamo di tutto,anche se i sapori,certe volte,ci facevano trasalire,aggredendo le nostre papille degustative!

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A ricordo di un alunno di Totoruccio Fierro

“ L’ alunno serio, interessato, ha sentito vivo l’ interesse per la vita scolastica, a cui ha partecipato attivamente durante il triennio; animato da buona volontà e desiderio di migliorarsi, ecc.”    Questo é il giudizio globale sul livello di maturazione raggiunto dall’ alunno Meo Tommaso, nato ad Atripalda il 12 settembre 1983, riportato al n.121 del Registro generale degli alunni, al termine della frequenza della Scuola Media, nell’anno scolastico 1996/97.
Durante il suo ultimo anno di scuola, avevo in più occasioni avuto il piacere di apprezzare le doti di compostezza, serietà e impegno di questo “ giovinetto pallido e bello...con un viso gentil da sventurato “ ( Corradino di Svezia di Aleardo Aleardi ).
Ci scambiavamo spesso un breve saluto, un sorriso affettuoso e cortese...
Venni a sapere, poi, che non aveva continuato gli studi superiori, affrontando anzitempo la più dura ed impegnativa condizione lavorativa di apprendista meccanico.
Se avessi saputo, per un improvviso miracolo di preveggenza, lo avrei trattenuto per qualche anno in più a scuola e comunque per tutto il tempo necessario, affinchè l’ombra sinistra e incombente della Morte in agguato, avesse sorvolato rapida e sconfitta la fatale curva della strada per “ Cruci “, per dileguarsi nelle nitide e terse altezze dei cieli azzurri o nei cupi e atri abissi degli inferi!
Se avessi saputo, avrei pregato il Dio dei giovani di proteggere il suo cammino...
E, allora, il sorriso gioviale e sereno di lui mi ritorna sovente nella mente e riaccende il dolore, trafiggendo l ‘anima incredula e sgomenta...
Tutto accadde il pomeriggio di Venerdì Santo del 2 aprile 1999!
La dolce aria di primavera inoltrata, indusse Tommaso a cavalcare un infido motorino alle spalle del padre:
una rapida corsa nel vento della spensierata giovinezza!
Poi, all’ improvviso, il cielo si fa scuro e le nuvole scaricano copiose gocce mortali:
il mezzo non regge la strada e la falce della Morte, che con una tonaca e cappuccio neri era nascosta beffarda dietro un noce, recide con spietata e feroce crudeltà un fiore fiorente!
L’ accaduto, pure a distanza di tempo, sembra inverosimile e di fronte a quella prematura morte ci sentiamo più fragili e impotenti a decifrare il nostro umano destino ed incapaci a comprendere perché si può morire a sedici anni su una strada di campagna nota e familiare ( lontana da quelle intensamente trafficate ) sulla quale si spostano solamente sonnacchiose mandrie di mucche!
E forse ha ragione il Poeta quando ci avverte che “ è meglio oprando obliar, senza indagarlo, questo enorme mister dell’ universo “.

Questo articolo lo scrissi 20 anni fa...forse la verve letteraria era più pronta ed efficace a sessant’anni! Bah!

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Gemelli, destini incrociati di Roberta Bruno del Quotidiano del sud

Umberto e Michele Maio, classe 1981, oggi sono due cittadini europei, provengono da, Montella, i cui abitanti li ricordano con affetto come “i gemelli”, mentre l’Italia li ha inseriti nella lunga lista dei cervelli in fuga.
Nel 2005, dopo aver portato a termine il liceo scientifico, i gemelli si sono trasferiti a Bologna dove Umberto, appassionato osservatore della volta celeste, ha conseguito una laurea in astronomia, mentre Michele, più attratto dalle forze del mondo, in fisica.
Dopo l’università le strade si sono divise: Michele ha conseguito un dottorato di ricerca in fisica teorica in Olanda per poi spostarsi in Spagna per il postdoc, mentre Umberto ha conseguito il dottorato a Monaco, e dopo essere stato impegnato in posizioni intermedie e postdoc per tre anni e mezzo, vince una borsa di ricerca all’INAF (Istituto Nazionale Astrofisica) a Trieste.
Oggi Umberto vive a Berlino e oltre al titolo di professore associato al MIUR, è ricercatore associato di astrofisica a Postdam, dove si occupa di galassie, stelle, evoluzione dell’universo e buchi neri, mentre Michele, che ha lasciato la ricerca, vive ad Amsterdam e si occupa di finanza.
«Non sono mai stato competitivo» racconta Michele «mentre Umberto, soprattutto al liceo, era in competizione con me, ma se glielo chiedi ti dirà sicuramente di no!» ride.
«Idealmente avrei voluto fare ricerca all’università, ma nel tempo ho cambiato idea: vedevo persone tra i 40-50 anni ancora in attesa di un posto. Così lasciai il postdoc e cercai di capire come poter vendere la mia preparazione scientifica. Nel 2014 sono tornato ad Amsterdam
e sono entrato in finanza. Ho lavorato prima in una compagnia di consulenza e poi per l’istituto di credito olandese ABN AMRO; lì mi occupavo di modelli matematici, producevo numeri che andavano a finire nella banca centrale europea.
La particolarità di stare in un mercato di lavoro libero e flessibile è che inizi a lavorare svolgendo una mansione e arrivi alla pensione facendone tutt’altra; ogni cambiamento intermedio è sempre un miglioramento».
«Quando ho cambiato lavoro avevo già trovato altro, ma da settembre, così mi sono goduto due mesi di vacanza: sono andato in sud America da solo, sono stato per un mese e mezzo sulle Ande (dall’Ecuador Bolivia e Cile) mi sono arricchito, riposato, e liberato la mente, è stata una vacanza sia fisica che mentale e a settembre ero pronto anche mentalmente per affrontare il nuovo lavoro.
In Europa e soprattutto in Olanda si punta molto sulla qualità della vita, la quale deve essere quanto meno decente, il benessere mentale è fondamentale e lo sanno bene, e anche le aziende vogliono che ci sia un equilibrio tra la parte lavorativa e quella personale e privata, perché sanno che un eventuale alterazione ricadrebbe negativamente anche nel lavoro».
Per Umberto, invece, la competizione con Michele è terminata al liceo, quando nella cameretta gareggiava col fratello per vedere a chi prima riuscisse l’esercizio di matematica. Racconta: «Ricordo che all’inizio anche all’università era come andare a scuola insieme: chiacchieravamo spesso, ci scambiavamo idee e opinioni sugli stessi temi. Poi gli studi sono diventati sempre più specialistici, fino a quando ci siamo resi conto che non ci capivamo più! Così abbiamo deciso di smettere di parlare di scienza tra di noi».
Umberto, che nel suo ambiente lavorativo ha incontrato altri tre irpini astrofisici, vede il problema dell’emigrazione come una questione nazionale: «anche da Trieste, ricordo, i giovani andavano via». «Gli scienziati italiani sono molto apprezzati all’estero, sono tanti i connazionali che, tra Germania, Francia, America, fanno andare avanti la ricerca, mentre la percezione generale dell’Italia è rimasta quella di pizza, mafia e altri luoghi comuni. L’istruzione tedesca non brilla per acume critico, e il fatto che la Germania sia vissuta come il migliore dei mondi possibili diventa un limite alla criticità di chi ci abita.
Spesso chiacchiero con mio padre sulla situazione in Irpinia e a Montella, e mi rendo conto che la “decadenza” e l’abbandono di quei luoghi siano da imputare relativamente alla gestione locale, poiché limitata e riflesso di quella nazionale».
Dopo il dottorato, cosi come Michele, anche Umberto si è trovato al bivio del continuare la strada della ricerca o intraprendere quella della consulenza: «Ebbi un’offerta da McKinsey, ma scelsi il dottorato, in Germania ci sono tante risorse per la ricerca, viaggio tra America e Asia e lavoro anche in Italia, dove non nascondo che un domani ritornerei».
Nonostante le grandi possibilità di carriera e sviluppo che l’Europa offre, vivere fuori dall’Italia significa vivere lontano da famiglie e tradizioni, e nonostante sia bellissimo integrarsi e conoscere nuove culture è vergognoso e fa rabbia non poter costruire una vita dignitosa nel proprio paese d’origine.
«Oltre all’inglese ho voluto imparare anche l’olandese» racconta Michele «senza conoscere la lingua del luogo che ti ospita non è possibile integrarsi realmente in una cultura. Altrimenti si fa la vita dell’emigrato, e invece è necessario integrarsi e conoscere lingua, tradizioni e cultura, imparando tante cose utili anche per se stessi. Ci sono diverse usanze curiose, come quando al mattino sei già a lavoro e arrivano i colleghi che si siedono senza neanche dirti buongiorno, pensi che ci sia qualcosa che non va, e invece loro fanno proprio così; oppure quando sei in strada e parli con qualcuno a 70/80 cm di distanza e puoi stare certo che qualche passante passerà esattamente tra te e il tuo interlocutore senza porsi assolutamente il problema del “disturbo”».
Per Umberto invece tasto dolente dell’Italia è il mancato investimento nella ricerca e nel Meridione: «Se 1/3 della popolazione è al Sud è giusto che un 1/3 degli investimenti siano al Sud» afferma. «Questo è un problema urgente e d’interesse nazionale, prima che l’Italia si trasformi completamente nel Sud della Germania».
«Due anni fa rimasi colpito dalle parole del sindaco del mio paese» racconta invece Michele «nel suo discorso faceva riferimento esclusivamente alla fascia più anziana della popolazione, e si evinceva come il futuro dell’economia montellese fosse ancora un tipo agricoltura senza il supporto delle tecnologie».
I giovani e le tecnologie per Michele sono argomenti che andrebbero considerati e rivalutati soprattutto in funzione del lavoro: «il mondo oggi chiede basi matematiche per tutto, e la gente nasce con il telefono in mano: sarebbe bene che sappia anche che cosa vi sia dietro».
Anche per Umberto la scienza è fondamentale per il futuro, ma forse non esattamente nella stessa connotazione che ne dà il fratello: «Dagli anni ’80 in poi c’è stata un’impronta neoliberale, non si perseguiva nulla che non portasse un profitto immediato, e la scienza venne acclamata proprio perché creava profitto» spiega. «oggi il marketing o il counseling non sono altro che questo: un modo di fare profitto utilizzando dati e impiegando gli scienziati, che sono gli unici a saper adoperare questi dati, come fossero manovali. Questo spiega, difatti, come mai la ricerca scientifica sia finanziata soprattutto nelle aziende private, che perseguono il profitto, e non più negli istituti classici di ricerca, dove invece si fa scienza per la scienza».

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13 dicembre 2019 Santa Lucia Santa messa in diretta

Dalla chiesa di Santa Lucia in Montella diretta streaming della santa messa

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I presepi di Roberto Moscariello

Robero Moscariello nato in Germania  del rione Fondana (Ponte re li ammuni ) , abita a Montella lavora a Nusco e si diletta a costruire dei plastici di luoghi di Montella .

 

IL PRESEPE SUL SS. SALVATORE

IL MULINO

S. FRANCESCO

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75mo anniversario della morte di Filippo Bonavitacola (Foto Pietro Sica e di redazione)

Oggi i Carabinieri di Montella ed il Circolo Culturale Cristiano "Santa Croce" Il Sindaco del Comune di Montella , ricordano Filippo Bonavitacola M.O.V.M. - Nato a Montella (Avellino) nel 1914, fucilato a Branova (Slovacchia) l’8 dicembre 1944, carabiniere, Medaglia d’oro al valor militare alla memoria. Al momento dell’armistizio tra l’Italia e gli Alleati, Bonavitacola si trovava in Albania, a Berati. Si unì subito, così come fecero molti carabinieri della Legione di Valona, ai partigiani albanesi e con questi combatté, sino a che non fu catturato dai tedeschi ad Elbasan. Destinato ad un campo di concentramento in Germania, riuscì ad evadere e si unì ai partigiani cecoslovacchi. Nuovamente tratto prigioniero, il valoroso carabiniere, per non aver voluto calpestare gli alamari strappatigli dai nazisti, fu condannato a morte dai tedeschi.
La motivazione della Medaglia d’oro al valor militare decretata alla sua memoria ricorda: “Sorpreso dall' armistizio dell' 8 settembre 1943 in territorio albanese, si univa ai partigiani nella lotta contro i tedeschi. Catturato e condotto in campo di concentramento tedesco, ne evadeva unendosi ai partigiani russi e slovacchi per continuare la impari lotta. Nuovamente catturato, conscio della propria fine, mantenne durante il processo e la lettura della condanna a morte fierissimo contegno, rincuorando i compagni di prigionia, inneggiando al Re e all'Italia. Al momento dell'esecuzione assestava un forte pugno al capitano tedesco che gli si era avvicinato per bendarlo e, scoprendosi il petto, gridava: «Sparate pure, non temo la morte!». Fulgido esempio di alte virtù militari e di fierezza nazionale”.
I resti di Filippo Bonavitacola poterono essere riportati in Italia soltanto nel dicembre del 1994 e sono stati tumulati nel cimitero di Cassano Irpino, vicino al suo paese natale. Qui gli è stata intitolata una via e la caserma che, a Montella, appunto, ospita la Compagnia carabinieri. Ricordano Bonavitacola anche strade di Roma e di Napoli e una piazza di Cassano.

 


© 2019 Montella.eu

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Il restauro della Chiesa del SS.Salvatore

Un restauro per la fede, per la cultura per la memoria storica .Quest’antica cartolina evidenzia come la nostra Chiesa del SS. Salvatore ha visto colori e stucchi che la rendono particolarmente affascinante rispetto all’attuale tinteggiatura di color bianco uniforme. Nell’interno di reperire i colori originali, èstato scoperto che gli antichi decori erano tutti dipindi con vivaci colori pastello.
Nasce quindi in noi il desiderio di riportare la Chiesa al suo antico splendore, attraverso un percorso di rivisitazione e di rivitalizzazione della nostra identità perduta.
                                                                                                    Il Rettore e Comitato del SS. Salvatore


I Colori del Passato
Numerose sovrapposizioni di dipinture ricoprono attualmente le pareti e gli stucchi della Chiesa. Lo spessore è tale da impedire una chiara lettura del modellato delle decorazioni a stucco.
Molteplici sono le stuccature evidentemente eseguite in momenti differenti in quanto di composizioni diverse. Alcune parti anche di ampie dimensioni sono state risarcite con malte cementizie mentre altre presentano integrazioni di malte a base di gesso. Durante la realizzazione di saggi di pulitura sono stati rinvenuti sul cornicione della Chiesa frammenti dei vecchi capitelli.
I saggi stratigrafici effettuati su gran parte delle decorazioni, con l’asportazione meccanica mediante l’uso del bisturi delle diversw sovrapposizioni, hanno rivelato la presenza di policromie e dim piccole tracce di doratura.
L’intervento di restauro avrà lo scopo di riportare alla luce i colori originali degli stucchi, asportando le dipinture sovrapposte, e di evidenziare il modellato e l’intaglio originale.
                                                                                                                                     Margherita Gramaglia

Carissimi Montellesi e Devoti di Gesù Salvatore, a conclusione del nostro pellegrinaggio annuale desiderofarvi giungere il mio più sentito ringraziamento per la vostra intensa partecipazione, ma anche per la vostra generosità. Colgo l’occasione per annunciarvi che , al più presto, intendiamo iniziare un’importante opera di restauro interno del nostro antico e prezioso Santuario del SS.mo Salvatore. E’ nostro desiderio riportarlo all’antico splendore, al fine di recuperare la pregevole e antica decorazione a stucco. Sarà così possibile ammirare l’armonia delle delicate e preziose tonalità cromatiche originali.
Per portare avanti quest’opera, è necessario un gesto di generosità da parte di voi tutti, a favore del nostro amato Santuario. Uniti potremo riconsegnare alla storia e alle future generazioni tutta la bellezza che caratterizza questo amatissimo Tempio, custode e testimone della storia di fede di Montella e dei Montellesi.
Il Signore Vi beneditca!
                                                                                                                                           Il Rettore  Don Andrea Ciriello

E’ possibile offrire il proprio contributo con:
Offerta diretta ad un componente del Comitato opersona incaricata ( che rilascerà una regolare ricevuta )

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