“…...nella cantina, in giro rosseggia parco ai bicchieri l’amico dell’uomo, cui rimargina ferite e gli chiude solchi dolorosi,…. “
Dalla poesia “Teatro degli Artigianelli” di Umberto Saba
Al pari del lessico italiano, nella parlata montellese con il termine cantina si indica sia la stanza, per lo più sotterranea, freschissima, dove si conserva il vino sia il luogo dove si vende il vino, e talvolta anche generi alimentari.
Tradizionalmente le cantine erano equivalenti alle cosiddette “bettole” ed erano locali pubblici destinati alla vendita dei vini, alla loro mescita.
Nella generalità è noto che a Montella, nei tempi lontani, la produzione del vino era assai limitata per cui quello che veniva venduto e servito era per lo più vino, rosso, sangiovese o proveniente da Montemarano o da Taurasi.
Spillato direttamente dalla botte il vino, solitamente, non era servito in bottiglia ma in bricchi di vetro.
Erano delle bottiglie-caraffe, una specie di rustici calici, d’uso esclusivo per servire il vino sfuso nelle osterie.
Nella generalità anche nelle cantine montellesi si poteva ordinare il vino iniziando da un semplice bicchiere (corrispondente ad un decimo di litro), si passava poi al “quartino” (bricco da un quinto di litro), successivamente al classico bricco da mezzo litro ed infine a quello da un litro.
Per le bevute in gruppo si usava “l’arzulo”, vale a dire una caraffa di argilla, dalla forma particolare, a due manici, con beccuccio; la sua capacità era da due ed anche da cinque litri.
Il vino veniva portato al tavolo accompagnato da comuni bicchieri di vetro da tavola insieme, sempre a pagamento e su richiesta dei clienti, a taralli con pepe, olive, noci, castagne e, volendo “i cantinieri” servivano, con pane, anche “cacio” e provolone piccante, cibi questi idonei ad essere innaffiati da tanto …vino !!
Non mancavano mai le gassose, in bottigliette piccole, prodotte, alla “stazione”, in via Scipione Capone, dai fratelli Fierro e a Sorbo, poi, da Agostino Capone; le gassose, con il tappo a molla, erano usate per allungare il vino.
Un tempo a Montella questo genere di esercizi pubblici erano abbastanza diffusi ed erano situati principalmente nelle adiacenze di Piazza Bartoli, nonché nei vari casali del paese.
La parte antistante della cantina, prospiciente alla strada, era, prevalentemente occupata per
la vendita al dettaglio. In questa zona si trovava il bancone per la vendita del vino “sfuso”; accostate alle pareti, si trovavano poi le botti o grosse damigiane da cui, come si è detto, veniva spillato il vino che, per uso domestico, veniva “misurato” e poi versato nei contenitori portati dai clienti.
Solitamente attigua a questa sezione del locale si trovava una cucina, a volte di dimensioni assai ridotte, in cui il gestore del locale preparava alcuni piatti da servire ai clienti. Questi cibi erano preparati in precedenza, dunque, erano disponibili all’occorrenza ed erano costituiti da fave lesse, “mogliarielli”, “ielatina”, spezzatino di carne, baccalà, cibi tutti questi che, qualche volta con contorno di “pepacchi fuorti”, venivano serviti agli allegri ….amici di Bacco !
L’altra parte del locale, era invece arredata con rustici tavoli, dalla tinta scura (resa ancor più scura per il tempo immemorabile d’uso), senza tovaglia, con panche oppure, talvolta, con sedie impagliate; questo spazio era, pertanto utilizzato per “ospitare” gli allegri bevitori e clienti vari.
Dunque, l’interno della cantina era alquanto semplice; il locale era per lo più illuminato direttamente dalla luce proveniente dalla porta d’ingresso, fatta a vetri, d’estate spalancata e protetta da una tenda antimosche.
L’ambiente, anche di giorno, non era dunque molto luminoso. Con il buio, in tempi lontanissimi, il locale era illuminato da qualche lume a petrolio e successivamente a corrente elettrica.
Anche in questa situazione la luce era comunque assai fioca anche perché attutita dal denso fumo che, proveniente da sigari e sigarette, ristagnava nell’aria miscelandosi con l’odore pungente del vino, di chiuso e dei corpi accaldati.
Il pavimento era in genere fatto di semplici laterizi, di cemento grezzo e in qualche caso anche semplicemente lastricato di pietre di fiume.
Le pareti, anch’esse grezze, erano spoglie, pitturate con calce; solo in qualche locale vi erano appesi collane di peperoncini forti secchi, qualche utensile tipico o anche con rari quadretti.
In fondo al locale generalmente si trovava una porta che conduceva all'esterno, il più delle volte in un cortile, dove per i bisogni fisiologici, si trovava un rustico cesso, vale a dire una cabina, costruita in legno o anche in muratura.
Qualche volta nel retro della cantina in alternativa al cortile si trovava un orto che, munito di un pergolato, accoglieva, in estate, qualche tavolo con sedie e, in casi assai rari e soprattutto in tempi alquanto recenti, anche un piccolo campo per il gioco delle bocce.
I giochi erano di fatto una componente essenziale della vita delle cantine.
I più diffusi erano quelli con le carte “napoletane” (briscola, scopa e tressette), la morra e soprattutto quello del cosiddetto “Patrone e sotta”.
In italiano “Padrone e sotto” era un gioco di carte e di bevute di vino.
Era assai diffuso, soprattutto nel meridione, con varianti diverse e si giocava con le carte in 4, 6 o 8 persone, a squadre.
(Rappresentazione della commedia in vernacolo montellese “Chi patisce, capisce” ambientata in una vecchia cantina )
Oltre alle carte da gioco occorrevano le bottiglie di vino e un numero di bicchieri (pari al numero dei giocatori) nei quali si versava la bevanda, fino a colmarne l’orlo.
Spesso per la pratica di questo gioco veniva utilizzato l’ ”arzulo”, ovviamente quello da cinque litri !
Lo scopo di questo gioco era quello di bere, il più possibile e pagare meno bevande possibile.
“Il Padrone e sotto”, come già detto, era assai praticato nelle cantine montellesi, era animato dalla voglia di bere e creava varie e divertenti situazioni.
Era un “gioco delle parti”, basato su un cerimoniale che contemplava la costituzione di una specie di tribunale, presieduto da un capo, appunto un “patrone” aiutato da un sottocapo; entrambi decidevano se i giocatori potevano bere o non bere.
Di fatto poteva capitare che “patrone e “sottopatrone” bevessero tutto il vino di quel turno di gioco (situazione questa non rallegrante per gli altri giocatori) o anche che qualcuno dei partecipanti, con il sollazzo degli altri, fosse estraniato dal gioco, non gli fosse permesso di bere nemmeno un goccio di vino; in tale evenienza egli veniva (come è spiegato nel Vocabolario Montellese-Italiano di Virginio Gambone) mandato “all’urmo”, a rinfrescarsi – figuratamene - all’ombra dell’olmo!
Di contro, durante il gioco, poteva anche capitare che si individuasse, a sua insaputa, un giocatore e che si decidesse di farlo ubriacare completamente.
In questa eventualità il designato era obbligato a tracannare bicchieri e bicchieri di vino, al punto che poi alla fine della serata non si reggeva più sulle sue gambe !
Come detto innanzi, un tempo le cantine erano diffuse in tutto il paese, soprattutto nella zona di piazza Batoli.
Infatti, nell’attuale Piazza Moscariello, alle spalle della Chiesa Madre, c’era la cantina re zi N’Tonio re “Petrocchia”, vale a dire di Antonio Salvatore Vitale il cui soprannome era dovuto - come ha chiarito un suo discendente – “alla sua bassa statura e al baffo che lo assomigliava a Re Vittorio Emanuele”. La cantina venne poi ceduta al figlio Nicola Anselmo che la gestì nel corso degli anni con la moglie Addolorata Volpe.
In via Filippo Bonavitacola si trovava la cantina denominata della “mamma e della figlia”, ossia della madre del sarto Amerigo De Marco e di sua sorella Melinda.
In via Don Minzioni, subito dopo le “Chianche vecchie” c’era la cantina di Elvira Bosco, la mamma di Pasquale e Giuseppe i quali nel locale attiguo svolgevano l’attività di “ferraciucci”.
Poco dopo l’inizio dell’attuale via Michelangelo Cianciulli (là dove ora c’è la “Brasserie” di Bifulco) vi era la cantina di Angelina, ossia la moglie di Raffaele Gambone (detto “Rafaele re la Remeta”) e mamma di “don Mario il barbiere”.
Questa cantina, come mi ha detto lo stesso “don Mario”, fu dal 1943 gestita da Generosa, la moglie di Alfonso Gambone che, all’incirca negli anni ’50-55, trasferì la sua attività all’imbocco dell’attuale Via Pasquale Colucci, al “Riarbero”, in alcuni locali del barone Abiosi, convertendo la cantina in trattoria con un annesso piccolo albergo.
Nel locale lasciato da Generosa si trasferì la cantina di Angelo Moscariello ( figlio di Peppo di “Ciuoglio”); Angelo, poiché vendeva vino proveniente dalla Sicilia, denominò la sua cantina “Conca d’oro”.
Angelo negli anni ’60 si spostò nel fabbricato, di sua proprietà, quello posto al termine del “ponte della piazza”, sulla cui facciata è visibile l’insegna “Hotel Conca d’oro”, una struttura questa fornita (fino a quando visse Angelo) di una ventina di camere nonché di una sezione interna adibita a Bar, a pizzeria e alla ristorazione.
La realizzazione di tale complesso fu di fatto possibile giacché Maria Pizza, moglie di Angelo, aveva acquistato “la licenza commerciale” che, come si ricorderà in seguito, originariamente apparteneva al cantiniere Angelo Marano di Sorbo.
Lungo via Michelangelo Cianciulli, a San Giovanni c’era poi la cantina di Filomena Moscariello la cui attività fu continuata dal figlio Fernando; il locale, attualmente chiuso, fu convertito in pizzerie prima e poi in ristorante e bar.
Sempre nelle adiacenze di Piazza Bartoli, esattamente al vico Ferri c’era la cantina di Zia Carmela Bozzacco.
Secondo i miei ricordi questa era una delle poche cantine di Montella in cui era possibile “mangiare” e di fatto era, per lo più frequentata da “gente di passaggio” .
Ormai anziana “zia Carmela” lasciò la gestione della sua cantina interamente al figlio Salvatore (detto anche “Totore re boffone”).
Negli anni 60, Totore, affiancato dalla moglie Margherita Gramaglia, trasformò, con buona intuizione ed intraprendenza, la “cantina” in trattoria; successivamente ristrutturò interamente il locale in modo da dargli le caratteristiche di un vero e proprio ristorante, di una spaziosità tale da permettere, sin da allora, anche l’organizzazione di feste matrimoniali.
Dopo la morte di Totore, sua moglie Margherita (coadiuvata dai suoi figli Ernesto e Carmelo) ha dato un ulteriore sviluppo alla originaria attività della suocera, un’attività che al giorno d’oggi si identifica in quella dell’ “Albergo-Ristorante zia Carmela”, una struttura che dispone di 21 camere, di giardini, terrazzi, piscina e parcheggio privato.
Passata l’attuale via Filippo Bonavitacola, all’inizio di via Ferdinando Cianciulli c’era la cantina di Tore Ronca, detto “Iescola”.
Tore era il nonno dei miei amici Mario, Alberto ed Italo; questa estate, in previsione di questo articolo, ho chiesto ad Alberto notizie più dettagliate su questa cantina.
Essa era in attività dal 1905 e nella sua gestione subentrò, nel 1948, per la morte di Salvatore Ronca, il figlio Vincenzo e sua moglie Angela Cientanni, originaria del “Lavrini”.
Vincenzo pur facendo, come è noto, il calzolaio coadiuvava la moglie nella gestione della cantina che fu “ammodernata”, nel 1954, con l’istallazione di un distributore di vino a pressione idrica e con l’applicazione, alle pareti, di bianche mattonelle di ceramica.
Il locale, rispetto a tutti gli altri, assunse un “tono” diverso; tra l’altro Angela praticava, come si diceva allora, una cucina “pulita”, ben curata e pertanto le sue “porzioni” di “ielatina” e i suoi “mogliarielli” diventarono prodotti assai apprezzati, molto richiesti e dunque anche “asportati”, insieme a buon vino, per uso casalingo e familiare.
Angela morì nel 1979 e l’attività fu continuata dal figlio Italo che rientrato dalla Francia, dopo qualche anno trasferì la cantina nell’attuale via Nicola Clemente, la “titolò” “Bistrot” vale a dire in un locale diverso, più moderno, sullo stile di quelli francesi.
“Il Bistrot” negli anni si specializzò anche nella produzione di dolci, si mutò sempre di più e alla fine s’è convertito, trasferendosi giù alla Serra, agli inizi della via Corte di San Pietro, nel locale Bar-pasticceria- gelateria attualmente gestito da Salvatore Delli Bovi.
Lungo la via Ferdinando Cianciulli, poco distante dall’abitazione del professore Giuseppe Scandone, di fronte quasi all’attuale via del Carbonaro c’era la cantina di Michele Molinari il quale abitava in cima alla via Cappella, vale a dire la zona più alta di Montella.
Un tempo lontano altre due cantine si trovavano a Garzano.
La prima era quella di Umberto Chiaradonna, esattamente in via Giulio Capone, quasi accanto al campo sportivo.
La seconda cantina di Garzano si trovava esattamente all’inizio della via Spinella; era quella che apparteneva a Gerardo Romano il quale, successivamente, trasferì poi la sua attività in via Michelangelo Cianciulli convertendola in ristorante e albergo; oggi quella lontana attività si identifica nell’attuale “Bar Romano”, gestito sempre dalla stessa famiglia Romano, vale a dire da Gerardo (che conserva il nome del nonno) e da sua moglie Carmen.
A Sorbo, in via San Michele, nei pressi del palazzo Marano,c’era poi la cantina di Salvatore Dragone, detto anche “re di Olofano”; procedendo lungo l’attuale via Sorbo, quasi all’altezza della traversa sottotenente Roberto, c’era la cantina di Agostino Capone (detto “Pistacca”) il quale, come già detto in altra parte, fabbricava, coadiuvato dal figlio Antonio, anche gassose e chinotti.
Sempre a Sorbo, nelle adiacenze dell’edificio scolastico e dell’ufficio postale, c’era la cantina di Angelo Marano che - appartenente alla famiglia dei cosiddetti “Flamini” - l’ha gestita fino a gli anni 50. In tal senso Carmela (la figlia di Angelo che, con il marito Graziano Casalini, vive, attualmente, come me, in Toscana) mi ha ricordato che il padre, nella “sua cantina, oltre al vino, vendeva anche, frutta, verdura, lupini e tutti i tipi di bibite. Durante le ore diurne la cantina veniva tenuta aperta dalla figlia Dora e il padre le dava il “cambio”, dopo cena, perché' per una giovane donna era rischioso rimanere in quell' ambiente in quanto che, molto spesso, le serate finivano con delle belle ubriacature. Nel 1956 tutta la famiglia Marano si trasferì a Lastra a Signa vicino a Firenze e vendette, come già accennato, la licenza commerciale a Maria Pizza la quale l’utilizzò per avviare le attività alberghiera e di ristorazione correlata all’ “Hotel Conca d’oro”.
Scendendo lungo via del Corso si trovava la cantina di Maria che era originaria di Castelfranci e veniva soprannominata la “Tonna”; la cantina era situata nei locali ove attualmente c’è il negozio di detersivi di Sabatino e di sua moglie Elvira e successivamente fu trasferita all’interno di Piazzavano, ove s’è estinta.
Ricordo che la “Tonna” vendeva anche i lupini che erano esposti davanti alla cantina e che “misurava”, alla buona, servendosi di una “scittolo” con il fondo bucato e da cui defluiva l’acqua salata.
(Scena della commedia “Chi patisce, capisce” ambientata in una vecchia cantina montellese )
Sempre lungo via del Corso, all’altezza di via Santa Lucia, c’era la cantina di Teodoro Granese, più giù, dopo “l’Ospizio”, all’inizio dell’attuale via Ing . Cianciulli, prima della casa di don Sapio De Marco, c’era la cantina di Giovanni Picariello.
Per concludere va ricordato che anche a Fontana c’erano due cantine: la prima era quella di Antonio Manzi, in via Casaliello e la seconda, era quella di Michele Dello Buono, in via Pendino.
Dall’elenco fin qui tracciato appare evidente che le cantine sono state elementi costitutivi del passato e vanno dunque ricordate come componenti di una tradizione paesana caratterizzata da una indiscussa umanità e da civile convivenza.
Un tempo esse, con modalità e forme diverse, fungevano da luogo di socializzazione, molto simile a quello svolto dalle moderne pizzerie, trattorie, ristoranti e bar.
Erano luoghi prettamente maschili, un luogo dove il consumo del vino era un mezzo per stare insieme con gli amici.
Solitamente erano frequentate da operai e contadini che vi si recavano soprattutto la domenica pomeriggio e nei giorni di festa.
A frequentarle, in quegli anni lontani, erano davvero in tanti, accomunati tutti dalla grande passione per il vino che era bevuto in allegria e nella generalità in maniera equilibrata.
Nelle cantine la gente si incontrava, facendo una partita di briscola o di tressette, veniva, spesso, a sapere le novità paesane, parlava di situazioni economiche proprie o di altri, allegre o poco allegre.
Davanti a un bicchiere di vino i discorsi spaziavano dalle situazioni quotidiane a quelle politiche, amministrative; si facevano allusioni, prese in giro e qualche volta volavano bestemmie.
Insomma nelle cantine si apprendevano notizie che, stando a casa, la gente certamente non avrebbe saputo.
Qualcuno ha definito la cantina “un focolare di amicizia e di solidarietà”, un luogo ove certamente si beveva, ma tutto stava nella misura individuale di assunzione delle bevande.
Nella generalità, come ho già detto, la gente andava alla cantina per passatempo, per fare “quattro chiacchiere” e certamente non mancava chi, con passione un po’ spropositata per il vino, alla cantina andava solamente per ubriacarsi, forse unicamente per annegare nell’alcool dispiaceri e paure.
Ricordo ancora certi pittoreschi personaggi paesani, beoni dal naso paonazzo, campioni di grandi ubriacature che, a notte tarda, nelle strade deserte del paese, usciti dalla cantina, lentamente, barcollando e soprattutto urlando e in lite con avversari immaginari, a fatica cercavano di raggiungere la propria abitazione, in uno dei casali del paese.
Ricordo (con simpatia e in forma opportunamente anonima) alcuni di quei personaggi.
Esattamente il “Cang….ri” che abitava dietro San Mauro, un altro, soprannominato “Zocc..….ne” che abitava a Garzano e che da sobrio era un accanito e coscienzioso lavoratore.
Ne ricordo ancora altri tre i quali abitavano a San Simeone e che erano designati con i soprannomi di “Tata……la”, “Cal……re” e “Sab.….to”.
Quei lontani personaggi, insieme a tanti altri, costituivano una testimonianza tangibile del fenomeno dell’alcolismo, un fenomeno, in quell’epoca, assai comune sia tra i frequentatori delle cantine paesane sia in tutto il Meridione, con punte elevate, anche dell’80% !
Volutamente tralascio l’approfondimento dei suddetti aspetti negativi che, oggettivamente c’erano ed erano correlati, anche, alla frequentazione delle cantine.
Ho preferito tracciare una rievocazione bonaria e venata di nostalgia per la “vecchia cantina” e per il modo con cui essa, nel bene e nel male, incideva sulle tradizioni e sulla vita di una intera comunità.
Ormai di cantine a Montella, quelle appartenenti ai miei ricordi lontani, non ce ne sono più; con molta gradualità esse, come ho già detto, si sono estinte o, perdendo il loro primigenio aspetto, hanno mutato funzione e allocazione trasformandosi, nel migliore dei casi, in bar, pizzerie trattorie e, come s’è già visto, in alberghi-ristoranti.
(Scena della commedia “Chi patisce, capisce” ambientata in una vecchia cantina montellese )
Pensando a quelle cantine di un tempo lontano, quello che meglio ricordo e che oggi più apprezzo è che quei luoghi (al pari dei “caffè re la chiazza”, delle botteghe dei calzolai, dei barbieri, dei sarti) erano, luoghi, sani e rustici, di socializzazione e di incontri, tutti elementi questi che contraddistinguevano la lontana epoca contadina e che restano, a mio avviso, congeniali alla crescita umanitaria nonché propedeutici al senso di “solidarietà diffusa” di cui ci parla anche Papa Francesco.
Oggi viviamo in epoca, detta postmoderna; vale a dire un’epoca fatta anche di estraneità e perfino di indifferenza.
Io penso. e concludo, che un poco di quel trascorso umanitarismo - tipico di quel tempo passato - non farebbe certamente male, anzi, aiuterebbe tanto, tantissimo, visto e considerato che ce n’è, ahimè, tanta, tanta, tantissima carenza !
22. marzo. 2021
N.B.
Il presente articolo è stato pubblicato sul periodico Il Monte" - Anno XIII - n. 4 (ottobre-dicembre 2016) - Sezione " Narrativa e Poesia"
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