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Gioia Marano - di Roberta Bruno - dal Quotidiano del sud

Si sono svolti nella giornata di ieri i funerali di Gioia Marano, la bambina irpina che ha commosso l’intera nazione senza che fosse possibile, però, trovare un cuore adatto a lei. Gioia si è spenta venerdì primo novembre, nella festa di tutti I Santi, portando via con sé dal paese irpino quel tepore settembrino che ancora non si era arreso all’inverno.  La piccola combatteva, da due dei suoi tre anni, contro una grave cardiomiopatia. Una patologia che colpisce il muscolo cardiaco riducendone l’efficienza del cuore, il quale fatica a pompare il sangue nel resto del corpo. Gioia, ricoverata all’Ospedale Bambin Gesù di Roma da tempo, ha subìto diversi interventi e tante complicazioni, fino a ricevere nel 2018 il trapianto di cuore con un modello sperimentale artificiale: il più piccolo al mondo.
Nell’attesa di un altro “di carne”, come nella favola di pinocchio, il piccolo cuore artificiale di Gioia non ha retto e, prepotente, ha interrotto, insieme col suo battito, l’allegria zuccherina del paese in festa dopo la raccolta delle castagne. Come una doccia fredda la pioggia ha violentemente spento i carboni ardenti nei bracieri, scacciando ospiti e turisti; mentre il vento, gelido e forte, ha separato i suoni dagli strumenti, soffiando via il sorriso dai volti, per poi riunire la comunità nella piazza adiacente la chiesa Madre sotto la pioggia fitta, leggera e silenziosa di un grigio lunedì mattina.
«La chiesa era gremita di persone» commenta con stato d’animo emotivamente coinvolto Don Franco, il parroco della chiesa di Santa Maria del Piano «una funzione molto partecipata. La gente è stata toccata nel profondo dalla storia di Gioia, dalla forza e insieme sofferenza di questa bimba che aspettava il trapianto di cuore. Una grande commozione univa i presenti: la comunità come un’unica grande famiglia».
Presenti alla celebrazione funebre, oltre Don Franco, tutti i parroci del paese come Don Raffaele Dell’Angelo, Don Gildo Varallo, Don Andrea Ciriello e, a presiedere l’Eucarestia, Padre Paolo, guardiano del Convento di San Francesco, il quale racconta: «Il gruppo dei giovani di San Francesco è sempre stato attento e sensibile nei riguardi di questa vicenda. Abbiamo organizzato in questi anni anche dei concerti per sostenere e stare vicino alla famiglia Marano, consolidando con quest’ultima un legame forte da parte di tutta la comunità conventuale».
«In certe occasioni – commenta commosso padre Paolo – bisogna saper controllare persino se stessi per poter riuscire a portare una parola di conforto, e per me che sono un uomo dalla lacrima facile non è affatto semplice non commuoversi dinnanzi a questa storia, ma credo che bisogna soffermarsi sull’energia che questa bambina ha generato attorno a sé, suscitando empatia e coinvolgimento. Per saper gioire bisogna diventare piccoli».
Morte e malattia turbano sempre l’animo umano, e quando sono i più giovani ad esserne colpiti ci si sconvolge anche di più, perché tutto appare irrazionale e contro natura.
Nelle parole spese per gioia Padre Paolo ricorda anche altri bambini della comunità montellese, che lottano ancora oggi per la vita, e la dolce Rosetta, la giovane che ha perso la vita, in questa primavera, in un incidente stradale proprio lungo il viale che porta al Convento di San Francesco. Ad abbracciare la famiglia di Gioia anche il sindaco Rino Buonopane che ha voluto fortemente essere presente ai funerali. Ma l'intera comunità altirpinia, che non ha mai fatto mancare il suo sostegna alla famiglia, ha voluto essere presente a ribadire che il dolore appartiene all'intera comunità . A salutare il piccolo feretro un applauso senza fine e il lancio di palloncini bianchi.

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L'APPELLO di Roberta Bruno - dal Quotidiano del sud

Il Piano di Zona non prevede il trasporto e lo studente non può frequentare i laboratori prescritti dal neuropsichiatra - Le ore di assistenza garantite non sono sufficienti. Basterebbe un pullmino per portarlo in città . Ermes è un ragazzo autistico di 13 anni, vive a Forino e ha bisogno di terapie adeguate.

Di qui la scelta del neuropsichiatra che lo segue di indirizzarlo verso i laboratori attivati a Bellizzi. Ma Ermes non sa come raggiungere ogni volta il centro, a tre chilometri da casa sua, né la sua famiglia è in condizioni di accompagnarlo. Dal Piano di Zona che gli garantisce appena sei ore di assistenza la precisazione che non è previsto alcun trasporto per fruire dei laboratori. Eppure basterebbe un pullmino messo a disposizione dal Comune di Forino o da qualche associazione per aiutarlo a stare meglio e non perdere i laboratori. 

FORINO – “Ogni famiglia colpita dall’autismo vive una tragedia”, Ermes è il messaggero degli dei, figlio di Zeus e della Pleiade Maia. Quest’ultima, bella e solitaria, viveva in solitudine in una caverna, il suo nome, che proviene dal comparativo latino maius-maior, (“maggiore”, “più grande”) allude a qualcosa di ineffabile, ed è per questo che era associata, nella sconfinata immaginazione antica, al misterioso quanto fondamentale simbolo della fecondità.
Seguendo la mitologia si scoprono le Pleiadi trasformate in costellazione; queste compaiono nel buio della notte per accompagnare con la propria luce i navigatori che si sentono persi nell’immensità del mare.
Ebbene, Ermes nasce da questa unione prolifica tra il re degli dei dell’Olimpo e la potenza generatrice di una protostella, che solitaria e straordinaria stringe in grembo il potere della creazione. E quale poteva mai essere il ruolo di Ermes se non quello di messaggero degli dei?
Colui che nasce fanciullo, e tale rimane, vola rapido da una parte all’altra, re del Logos e del pensiero egli è l’unico preposto alla discesa nell’Ade, guadagnando così l’epiteto di Psicopompo.
Ermes è raffigurato con il caduceo, un bastone costituito da due serpenti che si intrecciano fino a formare una spirale, paradossalmente poi confuso con quello di Asclepio, il simbolo che vediamo affisso nella croce delle insegne farmaceutiche e che impone l’equilibrio del pharmakon, che è al contempo cura e veleno. I serpenti rappresentano, dunque, l’equilibrio tra il bene e il male ed Ermes, garante e messaggero, ne ha il controllo, suscitando il rispetto di tutti gli altri.


L’incontro nel profondo di Ermes con Ade fa perdere però al primo la parte essenziale del suo “essere comunicazione”, quello con la vita reale. Così, chiuso dall’interno, il messaggero rimane incastrato, come un Teseo senza Arianna, nel labirinto interiore.
Ermes è un eterno bambino, rinchiuso in un corpo che continua a seguire le leggi della fisica nello spazio e nel tempo, ha tredici anni, potrebbe chiamarsi in tanti altri modi, anche femminili, ma per comodità continueremo a chiamarlo Ermes.
Ebbene, come tutti gli adolescenti della sua età va a scuola, ma per via delle sue caratteristiche non resiste a lungo seduto tra i banchi dell’aula.
Ha una famiglia sicuramente complicata alle spalle: Zeus non è sicuramente un padre perfetto, occupato spesso da altri impegni è talvolta istintivo e violento, mentre la madre, unica nel suo genere, è rinchiusa in una profonda solitudine. Ermes, poi, non riesce ad attribuire alle cose lo stesso valore che gli altri vi danno; che sia il denaro, consuetudini o comportamenti, lo spazio o il tempo. Ma riesce ad amare, ed ama, in una maniera tutta particolare, la musica.
Se le sue giornate, trascorse ormai lontano dal perduto mondo mitologico, siano per lui ricche o meno di eventi, noi non possiamo stabilirlo, eppure possiamo fare qualcosa affinché anche la sua vita trascorra dignitosamente, come quella degli altri umani.
“Ogni famiglia colpita dall’autismo vive una tragedia”: la bellezza della vita che germoglia si ferma, impalpabile, dietro una campana di spesso vetro. Le carezze non toccano e gli sguardi non congiungono, le speranze e i progetti gelano, come quei fiori nati in una primavera che sa ancora troppo di inverno.
Diagnosticato intorno ai due anni, l’autismo è una malattia del neurosviluppo che decreta l’impossibilità per i bambini colpiti di raggiungere uno stato sufficiente di autonomia, costringendoli, invece, a vivere in un contesto di vita protetto e facilitato.
Non si può guarire, ma si può unicamente migliorare la qualità di vita, sia dei bambini che delle famiglie.
Ma torniamo ad Ermes e alla sua di vita. Oltre alle poche ore che lo trattengono a scuola (solo due!) e le mattine impegnate in una terapia occupazionale in un centro diurno del salernitano (uno dei modi per occupare il tempo), si inseriscono nella sua quotidianità tutta speciale sei ore donate da un’operatrice che fa parte del piano zona di Forino, che ha come obbiettivo quello di fornire sostegno al bambino e allo stesso tempo alla famiglia.
Ma tutto ciò può davvero bastare affinché le mura domestiche non diventino una cella per tutti?
“Dall’autismo non si guarisce”, è una condanna. Eppure, la bellezza dell’umanità sta nella capacità di saper trasformare i verdetti in assoluzioni, continuando a fare, a sperare e lottare nella vita, affinché questa possa essere sempre bella e sopportabile, e soprattutto degna di essere vissuta.
A questo scopo l’impegno medico e sociale si incontrano, dando vita a cure alternative che non si riducono prettamente ai medicinali ma in “terapie occupazionali”, che lasciano esistere ed esprimere il bambino.
Il neuropsichiatra infantile prescrive così ad Ermes di frequentare i laboratori scolastici di Bellizzi, a soli tre Kilometri da Forino, fiducioso in un suo coinvolgimento e progresso.
Questi laboratori oltre che gratuiti sono particolari, i ragazzi che partecipano svolgono attività teatrali (in un vero teatro!) musicali, artistiche, ma anche motorie e di riflessione, come lo yoga e lo Qi-Gong. Si svolge un’attività di Parent-traning che forma e aggiorna i genitori facendoli diventare cooperatori di un percorso educativo delicato ed importante, offrendo a quest’ultimi anche uno sportello di psicologia solidale.
Tutte attività che sono necessarie, per tutti gli Ermes, se non a guarire, per lo meno ad iniziare a vivere.
Le persone che collaborano in questo istituto sono tutte specializzate RBT e sono esperte di sviluppo comportamentale e cognitivo.
Quello che tiene ancora lontano Ermes da questo mondo è la componente disumana che vive nella burocrazia, e che non può non considerare questo ragazzo se non come una pratica o un numero. Disumanità che si può contemplare e compatire (forse) nella frase: «Il Piano di Zona non lo prevede».
Il diniego non riguarda solo il trasporto di Ermes verso Bellizzi, ma colpisce e incide su altro: come la possibilità di apprendere e perpetuare quei comportamenti che appartengono a quella considerata da millenni un’unica cosa con la dignità umana, ossia le pratiche cognitivo-comportamentali più intime, come poter andare in bagno correttamente, mangiare usando la forchetta non mettendo il viso nel piatto al pari degli animali.
Quella frase e quel diniego non solo non fanno più di quel bambino una persona, ma gli impediscono quel lento apprendere che lo riconduce e riabilita all’esistenza.
In una vita fatta di dolorose attese, scandita da crisi epilettiche e psicotiche, e domata a suon di Moditen e Depot, perché spegnere, insieme ad Ermes, anche la nostra ultima fiamma di umanità?
Quanto costi questo diniego forse chi sta dietro una scrivania non lo sa e non potrà mai saperlo, ma lo sa bene chi paga il prezzo di una decisione presa arbitrariamente e superficialmente,
che sia la famiglia che vive tale dramma, che sia un volontario che a tale scopo si batte senza vedere riconosciuta un briciolo di solidarietà o di giustizia, o che, infine, sia Ermes stesso, a cui viene tolta, di nuovo, la possibilità di vivere ed esprimere se stesso.
In Irpinia di piccoli Ermes ce ne sono 291, e ognuno di loro aspetta, come scrive De Andrè sulle orme dell’Antologia di Spoon River, che “una morte pietosa lo strappi alla follia”.
È il caso di chiedersi se la follia non sia, invece, la nostra.

 

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Castagna, la sagra sceglie i colori dell’autunno - di Roberta Bruno - dal Quotidiano del sud

MONTELLA. Dal legame con le radici al treno del paesaggio. Ieri la presentazione al Circolo della stampa - AVELLINO – Si è tenuta ieri la conferenza stampa di presentazione della 37esima sagra della castagna IGP di Montella. Presenti il sindaco Rizieri  Buonopane, l’assesso re con delega al turismo Angela Marano e l’assessore politiche agricole Emiliano
Gambone, a moderare Annibale Discepolo. Evento di qualità che indossa i colori autunnali, il rubino del vino, il verde dell’olio e il marrone che richiama alla terra, alle radici e al faticoso, ma dignitoso, compito di
raccogliere i suoi frutti. Novità di quest’anno il treno storico Avellino-Rocchetta, che partirà da Benevento, e che per i giorni 2 e 3 novembre giungerà fino a Montella. «La sagra è per noi occasione di promuovere il territorio - afferma il sindaco Buonopane due fine settimana che abbiamo a disposizione saranno sfruttati al meglio per organizzare il flusso turistico senza sovraffollamento.
Punteremo alla promozione culturale, con visite guidate al Convento di San Francesco, al Castello del Monte e al Santuario del SS. Salvatore, oltre che a quella naturale, con escursioni in montagna e nelle
aziende locali, grazie anche all’impegno delle associazioni. Stiamo, inoltre, dando vita ad un Comitato per il rifacimento del vecchio mulino, il recupero del luogo è un argomento caro a tutta la comunità montellese ». 

Tra mostre fotografiche, organizzate dal Forum dei Giovani, e le attenzioni dedicate ai bambini, non mancano le attenzioni alla qualità dei prodotti forniti, che saranno garantiti e accertati nella tracciabilità.
«Noi montellesi abbiamo la castagna nel sangue e nella tradizione» afferma Emiliano Gambone prima di spiegare le problematiche legate castagno e al territorio. «Il vero problema del castagno non è il cinipide, ma il cambiamento climatico. Quello, come tutti i parassiti, non attacca la pianta che lo tiene in vita, ma porta una diminuzione nella raccolta del frutto.

I cambiamenti del clima rappresentano invece un grande pericolo per l’intero castagno. La particolarità della nostra festa è che deriva dal rito della tradizione contadina e la nostra scommessa è questa: mantenere in vita la castagna per le generazioni future». Grande entusiasmo nelle parole dell’assessore Angela Marano, che elogia il lavoro svolto dalle associazioni locali, le quali si occuperanno della promozione del territorio non solo facendo scoprire le bellezze naturali, come l’Alto piano di Verteglia, ma promuovendo i luoghi di cultura e di culto. «L’attenzione al turismo - sottolinea Marano - sarà costante per tutto l’anno, in modo tale da mantenere acceso l’interesse per la nostra terra al di là u MONTELLA. Dal legame con le radici al treno del paesaggio. Ieri la presentazione al Circolo della stampa SUMMONTE Rivivono le antiche specialità Appuntamento oggi e domani a Summonte con la 37^ Sagra della Castagna dedicata ad uno dei prodotti più pregiati del territorio irpino.
Un viaggio nel segno della tradizione e delle ricette più genuine. Si inizia questo pomeriggio, alle ore 18, con l'apertura degli stand dolciari e gastronomici. Tantissime le specialità preparate dalle massaie summontesi a cui si affiancheranno le classiche caldarroste e ballotte, accompagnate da ottimo vino. Nè mancheranno musica e animazione.
Domenica alle ore 9,30 visite guida te al borgo e passeggiata nel castagneto e nei boschi e alle ore12 apertura stano gastronomici e festa nel centro fino a tarda notte.
LA SAGRA Volturara si mette in vetrina Musica, artigianato, tipicità, senza dimenticare le vie ferrate e di arrampicata. Sono gli ingredientidella 35esima edizione della "Festa della Castagna, del tartufo e del fungo porcino" in programma a Volturara stasera e domani.
Sono già centinaia, infatti, le roulotte e decine i pulman prenotati, a conferma della capacità di Volturara di essere un centro di attrazione Irpina sia per i prodotti di eccellenza, per le bellezze naturalistiche che per siti di interesse. Sarà l’occasione per andare alla scoperta del territorio, a partire dalle vie di arrampicata e ferrate. Da non perdere anche la tappa al Museo etnografico. 

Mongolfiere in aria Caldarroste dell’evento». Presente all’evento anche Pietro Mitrione, presidente dell’associazione In Loco Motivi, che insiste sull’importanza della comunicazione e dei trasporti in Irpinia.
L’Ofantina, l’unica arteria di collegamento di questa terra, è da oltre un anno con la viabilità interrotta per lavori.

A tal proposito il sindaco Buonopane afferma di aver ricevuto risposte positive dalla Provincia sulla messa in sicurezza della strada. La storica stazione ferroviaria di Montella è dunque pronta, per il 2 e 3  ovembre, ad accogliere turisti, curiosi e appassionati, assetati di cultura e affamati di bellezza.
Roberta Bruno

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Manzi: la mia vita nel segno dell’arte - di Roberta Bruno - dal Quotidiano del sud

Montellese di nascita, una sua creazione esposta agli Uffizi - Questa domenica racconto la storia unica e straordinaria di un grande artista, il maestro Antonio Manzi, irpino di nascita e Fiorentino di adozione. La mente è uno strumento sorprendente, raccoglie insieme immaginazione, sensibilità e forze dell’intelletto; un gioco sinergico, che tormenta gli animi di coloro che guardano negli occhi i mostri che la mente genera, la cui espressione si sublima spesso in arte.  Ne sono figure la scrittura e la musica, ma non solo. Chi plasma la materia, imprimendole una forma immortale è, come il Demiurgo platonico, un’Artista.
L’arte, espressione di un’idea, rappresenta il segno del passaggio sulla terra di uomini straordinari.
“Il genio è l’1% ispirazione e per il 99% sudore” scriveva Thomas Edison, una tra le più grandi menti dell’Ottocento, alludendo alla semplicità e alla naturalezza che le grandi opere suggeriscono a chi le contempla. Eppure, l’osservatore ignorerà sempre la fatica e il tormento celati dietro quelle opere.
Antonio Manzi nasce a Montella il 15 marzo 1953, discendente, in linea materna, dalla famiglia Marano, agricoltori locali, tra i quali, nella memoria dell’autore, personaggio rappresentativo sarà il nonno, che il Manzi rappresenterà in ritratto all’età di 12 anni. Disegno significativo per l’autore, in ogni linea del volto ed ogni ruga vi sono le radici di un forte castagno; negli occhi, provati dalla fatica, si distingue il tratto del lavoratore assiduo e onesto; si colgono nel ritratto le radici che legano l’artista alla terra nativa.
Antonio possiede già nel suo patrimonio genetico l’arte:
I suoi genitori sono abili nel muovere le mani. Eredita, forse, proprio dal padre orologiaio, pratico dei piccoli ingranaggi, l’attenzione ai particolari e alle minuzie, e l’ambizione alla perfezione dei dettagli; mentre, dalla madre sarta, la grande libertà nel creare la bellezza.
«Nel 1957 io e la mia famiglia ci siamo spostati a Lastra a Signa, cittadina a pochi Km da Firenze. I miei genitori si separarono presto; non fu facile sopperire soli alla mancanza, anche economica, di mio padre. Ero un bambino molto vivace ed espressivo, e gli anni della mia educazione in un collegio per bambini difficili furono decisivi, per me e per la mia arte.
Per dieci anni sono stato a contatto con un’impalcatura umana complessa, maturando fortemente, e forse precocemente, quell’espressione artistica che ha meravigliato Firenze fin dalla mia prima esposizione».
Si può collocare attorno ai 12 anni non solo la sua maturità artistica, ma anche la consapevolezza delle proprie capacità. «Alla domanda cosa vuoi fare da grande – racconta – risposi: “voglio fare il Manzi”. Iniziai così a disegnare sui tavoli in marmo di una trattoria della zona frequentata dai personaggi della Firenze “bene”. Fui notato e apprezzato, e a 19 anni esordì con la mia prima grande mostra alla Galleria Guelfa di Firenze, riscuotendo un successo straordinario sia in partecipazione che in vendita».
Il primo periodo dell’artista è “tormentato”, come testimoniano le stesse rappresentazioni che evidenziano dolore psicologico e grande sensibilità.
«“Disegni dei mostri”, mi dicevano in paese. E io rispondevo loro: “i miei mostri un giorno saranno Angeli”».
Così difatti è stato. Ammirevole il cammino di quel bambino che, da autodidatta nella magna Firenze artistica, attraversa un percorso difficile ma notevole, lottando, fin da giovanissimo, per la propria libertà e indipendenza.
«La mia arte, espressione artistica forte, si manifestava con personalità. Una scuola mi avrebbe certamente corrotto e deviato dalla mia poetica. Ho seguito il mio percorso liberamente e ottenendo giustizia esclusivamente per il mio merito. Ho assecondato in maniera spontanea e naturale la mia arte, le mie ispirazioni e i miei interessi: dalla pittura ad olio al disegno, dalle ceramiche ai bronzi e ai marmi, dalla grafite alle matite a punta. Ho conosciuto tutto seguendo la mia straordinaria libertà e curiosità, lontano da qualsiasi mercato. Mi sono sempre rifiutato di essere un operaio di pittura».
Nella vita dell’artista è memorabile l’anno 1997, quando venne incaricato della realizzazione delle “Quattro porte” in bronzo del Santuario del SS. Salvatore in Montella.
«Un benefattore aveva destinato 100 milioni per realizzare l’opera in bronzo. Impiegai quattro giorni per completare le porte. C’è una preziosa particolarità nel modo in cui ho scolpito l’Ultima Cena nel bronzo di quelle porte monumentali: a differenza della scuola tradizionale, che prevede la collocazione della scena in orizzontale, io l’ho posta verticalmente. Scelta unica nel suo genere, con una modellatura pulita e lontana dalla gestione accademica. I costi delle porte furono tali da superare la cifra dei cento milioni, e fui proprio io a donare il resto. I montellesi ne furono colpiti. Volevo contribuire, rendendo omaggio alle mie origini, a quella devozione. Ero certo che il SS. Salvatore proteggesse anche me e che avrebbe continuato a vegliare sulla mia salute e la mia arte. Così è stato, quelle porte hanno rappresentato l’apertura simbolica del mio percorso artistico».
Dal ‘97 in poi la carriera del Manzi è stata coronata da riconoscimenti unici e straordinari, di cui un’artista gode in vita raramente. Nel 2005 espone a Firenze nel Giardino di Boboli, per sei mesi, 40 opere, fra sculture in marmo, ceramiche, bronzi e graffiti; una mostra sorprendente che cattura l’attenzione internazionale.
«Già esporre nel Giardino di Boboli - commenta l’artista – significa toccare il cielo con un dito.
Ma nel 2007 ho avuto l’opportunità incredibile di esibire le mie opere a Campi Bisenzio nelle sale di Villa Rucellai, dove, a seguito delle 150 opere donate, è nato il Museo Antonio Manzi. Una soddisfazione incredibile avere un museo per le proprie creazioni, e da vivo!» commenta ridendo l’artista. «Questi riconoscimenti sono stati per me importanti, emozione indescrivibile essere profeta in patria due volte, a Montella e a Lastra a Signa».
Nel 2018 il museo è stato visitato dal direttore degli Uffizi, il quale ha insistito affinché entrassi anche io a far parte della Galleria degli Uffizi. Ho donato un autoritratto, e durante l’evento a Palazzo Pitti nella Sala Bianca, tra i sindaci presenti c’era il sindaco di Montella Ferruccio Capone, il quale fece un discorso splendido, consegnandomi successivamente le chiavi della città di Montella e facendomi dono della cittadinanza onoraria». È un orgoglio, per la comunità Montellese, entrare nel museo di un grande artista nato a Montella e che allo stesso tempo omaggi questa terra.
«Porto la bandiera di Montella ovunque e con orgoglio: non siamo eterni, ma possiamo lasciare un segno».
Degno di nota è il regalo da parte dell’artista alla comunità montellese, una possente scultura in bronzo, alta 5 metri, definita “Elogio al Migrante”.
«Quell’opera straordinaria è un riconoscimento per tutti i montellesi nel mondo, soprattutto per quelli che non ci sono più e che hanno pagato con la vita l’emigrazione. Penso che l’uomo sia fatto per aiutare l’uomo, è questo il messaggio profondo di quel monumento. Con esso i montellesi si sono fatti onore nel mondo e oggi più che mai è fondamentale ricordarlo. Arte e bellezza ne sono il segno eterno. L’uomo si eleva solo se opera nel bene e in comunione con l’altro, questo è il messaggio, mistico e terreno, che ho voluto donare a Montella da Irpino».
In questa opera maestosa ritornano i tratti antichi della prima opera, quelli del nonno, le cui possenti radici sostengono le generazioni protese verso l’alto.

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Ama: in prima linea in difesa del territorio - di Roberta Bruno - dal Quotidiano del sud

MONTELLA. L’appuntamento di avvicinamento al trekking, promosso dalla giovane associazione  Prenderà il via domani il progetto della giovane associazione AMA (Associazione Musica&Ambiente) con la giornata di avvicinamento al trekking e alla sicurezza in montagna. Una gita all’insegna della natura e della sostenibilità, adatta a tutti coloro che desiderano avvicinarsi, anche per la prima volta, al mondo delle escursioni in tranquillità, potendo contare sul sostegno di esperti come Alessandro De Cristoforo, capostazione del soccorso alpino e speleologico Campania.
AMA, fondata da giovani, è impegnata nella salvaguardia dei beni ambientali e naturali, oltre che nella promozione di attività musicali e ricreative.
«AMA è nata in modo spontaneo» racconta il vicepresidente Alessandro Di Nolfi: «I campeggi estivi sull’Altopiano di Verteglia sono il momento più aggregativo per i giovani della zona. Ci si ritrova tutti in montagna, si sta in comunità e a contatto con la natura, si fa musica, si discute e ci si entusiasma, finendo inevitabilmente per sognare sotto un bellissimo manto stellato».
Alessandro, laureato in architettura, ha occhi irraggiati dalla passione che arde solo in coloro che credono fortemente in qualcosa, la stessa che batte nei cuori giovani e impavidi, ma che viene educata dai ragazzi di questa associazione in funzione di lucide analisi e studi attenti, consci che passi falsi in questa terra di mezzo non possono più essere fatti.


«La nostra associazione si pone come obbiettivo quello dell’informazione, sensibilizzazione e dell’educazione al territorio, per rendere conoscibili e fruibili le bellezze delle nostre terre tramite incontri periodici ed escursioni. Vogliamo cambiare il modo in cui si guarda alla terra - aggiunge il presidente Gennaro Volpe - che la si rispetti come luogo da valorizzare e non più come un possedimento personale da sfruttare. Puntiamo in particolar modo sui giovani, perché sappiamo che hanno in mano il futuro di questo territorio e, allo stesso tempo, la terra potrebbe restituire loro il futuro. Non vogliamo farlo da soli, ma attraverso una rete di comunicazione che colleghi tutte le altre risorse locali, culturali e turistiche. Dialoghiamo con Maps Cassano, Ente Parco dei Monti Picentini, Comune di Montella, Soccorso alpino e speleologico Campania, Forum Lioni, Pro loco Alto Calore e altri enti locali che mirano all’interesse e al bene dell’area».

Non mancano critiche e perplessità che riguardano la gestione passata del Parco regionale dei Monti Picentini. La pigrizia e l’indolenza, unite alla mancanza di una conoscenza approfondita delle norme che tutelano il Parco, hanno portato, nel tempo, invece che ad una vigilanza sulla flora e sulla fauna del parco stesso, ad un loro completo abbandono.
«Quando si vuole svolgere un’attività o costruire qualcosa si tende, tra l’incertezza e la negligenza, a negare il permesso, anche a chi si muove nel rispetto della sostenibilità naturale del posto». È evidente che questo atteggiamento non porta alla salvaguardia del territorio, ma lo condanna paradossalmente ad un vero e proprio abbandono. La grave conseguenza di questa pratica si risolve nella consegna del nostro patrimonio naturale al “più forte”, ossia colui che, non interfacciandosi affatto con l’ente legittimo, si appropria arbitrariamente del territorio, forte della mancanza o dell’insufficienza di qualsiasi controllo. «Il riferimento a coloro che indiscriminatamente tagliano i faggi in luoghi e zone protette, che distruggono, bruciano e scacciano, appropriandosi di un bene che è di tutti, è evidente» prosegue il vicepresidente «insomma, crediamo sia l’ora di frenare il disinteresse dilagante dei più, giovani compresi, che legittima i pochi ad appropriarsene illecitamente, disincentivando prepotentemente qualsiasi iniziativa». Sono inclusi tra questi anche i gesti vandalici, segno ineludibile di un sentimento di dominio sui luoghi. «Tempo fa – raccontano i giovani di AMA - abbiamo realizzato una zona “riposo” fatta di panche e installazioni in legno, completamente sostenibile. Quest’area è stata, purtroppo, immediatamente vandalizzata e distrutta, a sfregio non solo del nostro lavoro e del nostro impegno ma, a ben guardare, soprattutto del territorio».
Il raduno è previsto per domani ore 10.00, presso l’Altopiano di Verteglia, punto di riferimento sarà il ristorante la Faja, per poi dirigersi verso le Ripe della Falconara.

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“Ho scelto di partire per crescere” - di Roberta Bruno - dal Quotidiano del sud

Per Mauro l’esperienza in Romania, poi il lavoro come ingegnere a Modena - Mauro Granese, nato nel 1992, è un ingegnere informatico di origine montellese.

Curioso, sensibile e sempre alla ricerca di nuove conoscenze, Mauro si è allontanato da Montella per seguire i suoi studi e i suoi interessi.
«Forse il mio caso è anomalo» racconta Mauro «mi sono laureato di martedì, e il giovedì mattina era già a lavoro. Incravattato e impomatato, seduto presso l’ufficio consulenza di NetCom group a Napoli.
In due giorni la sua vita è cambiata di tanto, da studente a lavoratore. Ma ancora non poteva immaginare che nelle settimane successive sarebbe cambiata ancora di più.
«Dopo quindici giorni di lavoro come consulente, l’azienda ha proposto, a me e un altro ragazzo laureatosi con me, di andare in Romania come HMI (Human-Machine Interface) pre-integrator per la compagnia di ricerca avanzata Magneti Marelli».
Si spostano le aziende e, dietro queste, si spostano anche gli ingegneri. Per nove mesi, tra neve, freddo, ma tanto calore umano, Mauro ha fatto esperienza in una delle più importanti multinazionali italiane specializzata nella fornitura di prodotti e sistemi ad alta tecnologia per l'industria automobilistica, con sede in Transilvania.
«Il nostro ruolo nella società in Romania era, nello specifico, “HMI pre-integrator”, ossia integratori software per HMI. Fornivamo, inoltre, supporto, in quanto figure professionali complete, agli sviluppatori assunti e ancora non laureati».
Nonostante l’inverno rigido e le difficoltà relative alla lingua, Mauro ha trovato un ambiente giovane e accogliente, che, persino ora che è tornato in Italia e lavora in CNH industrial a Modena, ricorda con nostalgia: «In Romania l’ambiente lavorativo era molto giovane e leggero. Di italiani eravamo in 4 o 5, e si creava un rapporto stretto e molto particolare che, invece, qui a Modena è più blando e limitato. Quello che mi ha colpito in maniera particolare, una volta giunto qui in Emilia, è stato trovare tra i colleghi tanti ragazzi del Sud, ma nessuno o pochissimi della regione emiliana o del Nord-Italia. Rispetto a questa “stranezza” mi sono risposto che l’andare in via è in generale qualcosa di comune e generale; da Sud al Nord, dal Nord al Nord più profondo e all’estero, tutti si spostano o cercano qualcosa di altro o qualcosa di nuovo, soprattutto negli ultimi tempi».
Mauro, dal tono tranquillo e sicuro, mi spiega il suo condivisibile punto di vista sul fenomeno dell’emigrazione, fenomeno complesso e ricco di sfumature, tiene a specificare, ma per certi versi naturale.
«Ho avuto richieste di lavoro anche al Sud, ma dopo aver studiato tanto ho creduto non valesse la pena rimanere fisso ancora nello stesso posto. Quello che più mi interessa ora è fare esperienza il più possibile. Voglio vedere e conoscere nuove realtà, ambienti differenti rispetto a quelli in cui mi sono formato. Voglio crescere professionalmente, sperimentare e apprendere nuovi modi di lavorare e punti di vista differenti. Credo che lo stare a contatto con “la diversità” sia l’unico modo per predisporsi sul serio alla conoscenza. Quando lavoro, gomito a gomito, con persone che provengono da tutto il mondo, mi rendo conto del grande limite imposto dal rimanere chiuso ostinatamente nella propria realtà, senza sforzarsi mai a capire la prospettiva dell’altro».
«Il sistema economico di tipo capitalistico» continua a spiegare Mauro «e la conseguente globalizzazione hanno portato allo scambio di capitale umano, la cultura di massa spinge chiunque a spostarsi, oggi non si può più pensare di poter controllare questo flusso o, peggio ancora, limitarlo».
La strumentalizzazione e la semplificazione politica e culturale, di questo fenomeno molto vasto e complesso sono, secondo Mauro, i peggiori compagni per leggere la realtà, tramite i quali nella cultura popolare si addita facilmente “l’estraneo”. Il tono di Mauro si fa più domestico e familiare quando i commenti sull’emigrazione raggiungono anche il suo paese d’origine, Montella. Eppure, non manca qualche nota di dispiacere e sconforto:
«Quando torno al mio paese mi capita di non sapere con chi stare, perché tutti quelli che conoscono sono andati via!» ride, ma poi aggiunge più serio:
«Come dicevo, sono convinto che lasciare il proprio luogo di origine per spostarsi sia un qualcosa di naturale, quello che mi fa rabbia, o peggio tristezza, è stare ad ascoltare le storie di amici che sono stati costretti a partire da una necessità impellente. Quella di andare via, per me, è stata una scelta, ma io non riesco a pensarmi “fortunato” solo per questo! Guardando alla mia terra, e con ottimismo, dico che per i prossimi dieci anni sarà così, se non peggio.

Non solo per i mancati investimenti o la inesistente svolta nel turismo, ma perché sono convinto che per questa “svolta” bisogna essere pronti. Bisogna che ci sia formazione, educazione, mentalità differente e aperta per volere, prima ancora di affrontare, un vero cambiamento. Ci vogliono generazioni e generazioni per cambiare il modo di pensare e di guardare alle cose, generazioni!»
«È giusto che chi scelga di partire abbia la libertà di muoversi. Contrariamente è snervante capire che questa scelta per tanti non esiste, e quando lo dico non penso solo all’Irpinia. Questo malessere mondiale ti fa capire quanto la società abbia fallito.
C’è poco da essere felici in un momento storico come questo» conclude Mauro «l’unico pensiero di speranza, in questo momento così buio e infelice, è che la coscienza di massa inizi a cambiare, e forse sta evolvendo. Se è come credo, la possibilità che nel tempo le cose comincino a cambiare è allora possibile».

 

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“Nei piccoli la purezza di San Francesco” - di Roberta Bruno - dal Quotidiano del sud

La settimana di gioia e iniziative culturali per festeggiare il Santo di Assisi attraverso la manifestazione Francesco d’Incanto volge al termine. «La manifestazione ha alle spalle una lunga storia e un’antica tradizione, che di anno in anno
si è ampliata e allargata a  sempre nuove iniziative e attività, coinvolgendo nel tempo tutte le fasce della comunità, dai più piccoli ai più grandi» spiegano gli organizzatori di Francesco d’Incanto Paola Giannone, presidente del Comitato Festa di
San Francesco e padre Cirillo del Convento di San Francesco a Folloni.
Il tema di questa XXII edizione è “Tu sei Eterno Gaudio”, messaggio tratto dalle parole e dalle azioni del Santo.
«L’eterno gaudio – spiega padre Cirillo - è una gioia che non ha inizio, né fine, è eterna proprio perché nasce dalla pace e dalla gioia interiore che non deve essere adombrata dagli accadimenti, spesso tristi e infelici, della vita, ma che deve, al contrario, dare luce, illuminando il cammino interiore prima, e quello altrettanto tortuoso della vita esteriore poi».
«Proprio a questo tema spiega il presidente Paola Giannone sono state dedicate le giornate di festa e impegno » che, nella giornata di ieri, hanno visto protagonisti anche i bambini.
«La figura di San Francesco, come quella di Gesù, è vicina ai bambini. È proprio nei bambini che è possibile ritrovare quella fiducia pura, che conduce ad amare incondizionatamente e genuinamente Dio», afferma padre Paolo, guardiano del Convento e responsabile della manifestazione. «L’incon tro con Francesco significa semplicità e gioia» continua padre Paolo «Francesco è stato un matto, un giovane innamorato della vita e dei piaceri, il suo percorso, il suo cammino, interiore o meno, non è così distante da quello di qualsiasi giovane di oggi; tra turbamenti e crisi inevitabili della crescita. Il Convento di San Francesco oggi è un luogo aperto a tutta la comunità, tutti possono recarsi qui e concentrarsi sulla
riscoperta di qualcosa che è dentro di sé. Essere frate, come ci ha insegnato Francesco in primis, significa sentirsi fratello e mettersi a disposizione dell’altro, proprio come un fratello».
Mentre Padre Paolo spiega i progetti messi in opera per la realizzazione della felice “Insula Franciscana”, che
verrà inaugurata prossimamente, i bambini provenienti dalle scuole dei paesi dell’ Al ta Valle del Calore (Montella,
Nusco, Bagnoli, Cassano, Montemarano e Castelfranci) si riuniscono all’interno del Convento duecentesco, guidati dalle maestre e dagli organizzatori: non esistono più classi e scuole differenti, ma comunione, fusione e allegra confusione!
«L’idea di Padre Paolo di coinvolgere le scuole in questa iniziativa è molto importante per il territorio» commenta la maestra Michela, dell’Istituto comprensivo di Bagnoli, recentemente accorpatoa quello di Nusco.
«La leggenda del sacco di pane, per esempio, fa parte della tradizione culturale di tutti i paesi dell’Alta Valle del Calore. Addirittura, in tempo di guerra, un pezzo della stoffa del sacco veniva distribuito a tutti i soldati figli unici che andavano in guerra, in segno di protezione. È importante coltivare la tradizione, e ancor di più se diviene occasione di incontro e collaborazione con le scuole dei paesi vicini». Unità e comunità sono i temi attorno aimquali l’intera comunità di San Francesco opera. Dalla nascita di questa iniziativa sono stati, infatti, creati due importanti eventi: la “Fiaccola d’Assisi”, una marciaper la pace di 400 km, organizzata dall’Associazione Podistica Montellese, che va da Assisi a Montella, i cui corridori portano con sé una fiaccola accesa sulla tomba del santo; e la “Marcia della Fratellanza Senza Confini”, una
marcia che impegna sindaci e cittadini dell’Alta Valle del Calore dai propri paesi fino alla croce antistante del Convento.
Ogni paese, inoltre, a nrotazione, porterà di anno in anno in dono l’olio che servirà a tenere accesa la lampada che arde e illumina per l’intero anno dinnanzi al Conventodi san Francesco, in segno di pace, unità e comunione.
L’arrivo della marcia “Senza Confini” è prevista per oggi, alle 17.30, seguirà l’accensione della “Lampada dei Comuni”.
Dalle 18.30 animazione per bambini a cura diPeter Pan mentre alle 20.00 la serata inizierà con la decima edizione del Palio del Sacco.
Dalle 21.00 seguiranno spettacoli musicali degli Ex voto con musica popolare e quelli della Nuova Compagnia di Canto Popolare. Alle 23.00 spettacolo di fuochi pirotecnici a cura di Fernando Mastromarino e, infine, Dj set a concludere la serata.
SS. Messe alle 7.30, 9.00 e 11.30 e, alle 18, la Messa della Solennità di San Francesco, presieduta dal vescovo
Pasquale Cascio,

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Da Montella in Inghilterra: qui opportunità e prospettive - di Roberta Bruno - dal Quotidiano del sud

Roberto: ho scelto Londra per ricominciare, generazione 1991, è un ragazzo di Montella, anche lui arruolato tra le fila dell’armata G.I.E. (Giovani Irpini Emigrati): risorse del nostro territorio che cercano lavoro e fortuna altrove, lasciando, tra l’amore e il rancore, il luogo natale.
Roberto, eccellente cameriere, conosciuto da tutti i ristoranti della zona, ha sempre lavorato mentre cercava di stare al passo con gli studi di ingegneria. Dopo una pessima esperienza ad un CAF di Avellino, dove veniva trattato senza considerazione e senza rispetto, svolgendo mansioni che non inerivano le sue competenze, ha deciso di partire per Londra l’anno scorso. Racconta:
«Se avevo paura? La verità, cara Roberta, è che, affetti e famiglia a parte, non avevo niente da perdere. Ero arrivato ad un punto tale per cui la paura di rimanere qui, nella condizione in cui mi trovavo, tra mancanza assoluta di crescita e prospettive, vinceva su tutte le altre. Ricordo ancora le parole di mio padre, mi disse: sei mio figlio e vorrei tenerti sempre al mio fianco, ma se fossi un amico ti direi di andare via».
Mentre Roberto racconta le difficoltà della sua scelta mi tornano in mente le parole di una vecchia e malinconica canzone che il maestro di musica ci faceva cantare al “piccolo coro” della scuola elementare, e che, ironia della sorte, Roberto, senza neanche accorgersi, ripete fedelmente: «La noia, l’abbandono, il niente sono la malattia di questo paese» afferma. «Conoscevo storie di amici già partiti e che a Londra stavano bene. Così sono partito anche io. I primi giorni sono stato loro ospite, poi ho trovato un posto economico adatto a me.
Ho subito iniziato a consegnare curriculum, sia a mano che tramite internet, e dopo una settimana ero già assunto in un ristorante italiano: Carluccio’s.
Nonostante il lavoro vada bene le difficoltà ci sono, a partire dalla lingua. All’inizio, anche per andare semplicemente dal tabaccaio, mi preparavo il discorso da casa».
Roberto descrive il mondo del lavoro londinese, in cui l’offerta è così vasta che la conoscenza dell’inglese passa facilmente in secondo piano. Nel lavoro, poi fa notare, è da apprezzare soprattutto la meritocrazia.
«Ho iniziato come bartender – racconta Roberto - e in un solo anno ho avuto due aumenti di stipendio. Non solo c’è la possibilità di crescere lavorativamente, ma le giornate più affollate e faticose vengono adeguatamente ricompensate non solo economicamente ma, ancora più importante, umanamente. Mi sono sentito ringraziare per il lavoro che ho prestato, cosa che a chi, come me, era abituato in Irpinia ad essere riconoscente per la chiamata di lavoro, è una cosa che impressiona non poco. L’impegno dato viene riconosciuto e apprezzato. In Irpinia, purtroppo, non esiste mobilità sociale, non ci sono prospettive di crescita» afferma Roberto riesumando il ciclo dei vinti.
«Oggi, se penso al mio anno futuro sorrido, perché so che il mio impegno verrà ricompensato con una promozione: salirò di grado a poco a poco.
Qui a Montella, invece – prosegue Roberto con verdetto verghiano - stai dentro un pantano, ma ovviamente non affoghi. Sopravvivi».
Le parole di Roberto sono amare, ma vere e coraggiose. Ripercorrono le paure covate, nutrite e maturate nel silenzio delle giornate passate senza impegno e che si annidano nei cuori di tanti altri, giovani o meno.
«Montella è la mia casa e ne sento nostalgia, mi manca la mia famiglia: senza che io possa vederli i miei nipotini crescono e i miei genitori invecchiano. Tutti questi affetti mi vincolano a questo luogo, ma credo che è arrivato il momento in cui sono obbligato a pensare solo a me stesso; per non sentire più, alla sera, quella sensazione di aver buttato un’altra giornata.
È la seconda volta che torno a casa, e ogni volta che parlo con i vecchi amici li sprono ad andare via. Fino a qualche anno fa pensavo che fosse il luogo perfetto in cui crescere, ultimamente mi sto ricredendo su questa favola. Siamo in un luogo abbandonato a se stesso: senza possibilità per i bambini di praticare uno sport che non sia il calcio, senza strutture e senza ferrovie e con l’unica via di comunicazione per Avellino paralizzata da due anni. Ci hanno abituato ad accettare qualsiasi disservizio, tutto è nella norma e ci va bene così. Come se non potesse essere altrimenti. E invece le cose funzionano altrove, e io ho aperto gli occhi su questo, mi sono reso conto che le cose possono funzionare».
Quando Roberto dice che ha aperto gli occhi si riferisce a tutto l’impatto che si ha vivendo in una grande città come Londra: multiculturalismo, scenari diversi e possibilità sempre nuove, strutture pubbliche funzionanti e accorte alle esigenze del cittadino e del turista.
«Mi sono sempre definito di mentalità aperta e tollerante. Eppure, solamente stando immerso costantemente nella pluralità, capisci quanto sia affascinante la diversità delle culture, delle religioni e degli orientamenti sessuali. A Londra a Canary Wharf, il quartiere in cui lavoro, c’è una scalinata arcobaleno dedicata al tema dell’omosessualità, mentre nella metropolitana vengono continuamente fatte campagne di sensibilizzazione. Quando in una metropoli convivono dieci milioni di individui ci si rende conto di che cosa significhi la libertà di vivere se stessi come meglio si crede. Purtroppo per questo paese, qui siamo indietro anni luce».
Le differenze che Roberto evidenzia sono tali da rendere queste realtà quasi due mondi separati: «Avrei potuto farmi assumere in qualche fabbrica in zona – continua - ma la verità è che questo lavoro, oltre ad essere logorante e alienante, non elimina il rischio di finire un domani in mezzo ad una strada. E allora – chiede con rancore Roberto - chi ti prende più? Come ti reinventi?»
La domanda, che ha il sapore dell’ingiustizia, ritorna spesso nelle parole di Roberto.
«Perché non potermi mettere in gioco? Perché subire la frustrazione di questa incertezza? Non parlo del posto fisso, ma di una lecita mobilità nel mondo del lavoro: a Londra, se domani mi dimetto in dieci giorni ho già un altro impiego; qui, se domani mi licenziano come e cosa faccio?

In Inghilterra vedo molte possibilità che si aprono, le sento che sono tutte dinnanzi a me. Ora ho tanti progetti e voglio scegliere la mia strada. Posso continuare nel management, se voglio, o riprendere gli studi autonomamente, approfittando del fatto che lì l’università è finanziata quasi del tutto a fondo perduto, o ancora, posso spostarmi, magari verso gli Stati Uniti. Tutte possibilità, queste, che io mi vedo aperte dinnanzi solo ora».
Ricordo che al coro, mentre con il maestro cantavamo “Che Sarà”, proprio non riuscivo a capire il motivo per cui il protagonista della canzone doveva andare via. Me lo chiedevo soprattutto nella strofa in cui doveva separarsi dal suo primo amore, mi sembrava all’epoca una cosa così innaturale.
Oggi, che pare non siano passati 50 anni dall’uscita di quella canzone, mi soffermo su un’altra strofa, quella che recita così:
“So far tutto o forse niente da domani si vedrà”.
Ebbene, che sarà di tutti questi giovani e di questa terra?

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L’atleta delle Fiamme Oro a Lonato vorrà qualificarsi per la Coppa del Mondo 2020

Di origini montellese, è stato campione italiano e nel 2014 ha vinto il bronzo in Cina - Angelo Moscariello di origini montellesi è dal 2009 atleta delle Fiamme Oro nel settore tiro a volo, specialità skeet. Lo Skeet, spiega Angelo, è uno sport in cui è richiesta «concentrazione e nervi saldi, imbracciare un fucile è una sensazione particolare, ma in quei momenti la forza che si deve avere proviene unicamente dalla mente».
Angelo, che gareggia da quando aveva 12 anni, ha partecipato con successo a diverse competizioni sportive sia in Italia, come atleta delle Fiamme Oro, sia all’estero, in rappresentanza della nazionale italiana.
«Ero un bambino quando accompagnavo mio padre al poligono di tiro a Montella. Ero affascinato. Provare fu per me una vera rivelazione: non solo ero molto portato ma avevo una buona mira e una grande inclinazione». Il cammino di Angelo inizia così nella TAV “Tana del Lupo”.
«A 14 anni, quando sono entrato nella categoria juniores e ho gareggiato per la prima volta in un campionato italiano, partecipando alla mia prima gara importante, ho capito che avrei voluto fare soltanto quello».
Nel 2006 Angelo è stato convocato nella nazionale juniores e ha iniziato a gareggiare fino a conquistare il suo primo bronzo ai mondiali di tiro a volo del 2009, conquistando l’anno successivo anche l’ingresso nel Gruppo Sportivo Fiamme Oro.
«A 20 anni mi hanno portato in Nazionale e gareggiai ai mondiali, posizionandomi quattordicesimo nella classifica totale e secondo in quella a squadre, con un solo punto di distacco dal primo. A 21 anni invece sono entrato a far parte della “categoria eccellenza”, conquistando l’oro nella competizione del Campionato Italiano. L’anno successivo ho partecipato alla Coppa del Mondo in Arizona e ho gareggiato in diverse competizioni sia con la maglia delle Fiamme Oro, che per la Nazionale Italiana. Nel 2014 ho conquistato il terzo posto della Coppa del Mondo in Cina e nel 2016 vinsi le gare di qualificazione per il Campionato italiano; la gara più importante dell’anno, qualificandomi primo e stabilendo il mio record personale con 123/125».
Nel 2017 Angelo ha continuato a gareggiare nelle maggiori competizioni di skeet, lottando nelle finali senza mai conquistare il podio.
In questo sport, incentrato sulla solidità e sulla resistenza mentale, basta una distrazione, un pensiero o una paura perché il colpo sparato sfiori il dischetto senza distruggerlo.
«In quei casi - racconta Angelo - il difficile non è isolarsi dall’ambiente esterno, ma riprendere il controllo di se stessi dopo l’errore. Nella mia ultima competizione, la TAV Umbriaverde, mi sono trovato in questa situazione.
«La gara è iniziata male – racconta - ho concluso la prima delle 5 serie con 22/25.
In quei momenti è necessario creare una bolla attorno a sé, nessuna distrazione, soprattutto nessuna ansia da prestazione. Una volta che si manca il dischetto non bisogna pensare, ma concentrarsi su quello dopo. Riprendere la calma e le redini della situazione: hai solo pochi decimi di secondi per eseguire l’azione, con precisione chirurgica».
«Così, ho ripreso il controllo e nelle altre serie sono stato perfetto. Purtroppo, non ho ottenuto il podio per un solo punto. Ma anche questo fortifica».
La prossima settimana Angelo sarà impegnato nella competizione di Lonato del Garda (Brescia) dove sarà in gioco la qualificazione per la Coppa del Mondo 2020.
«Certamente sento una forte pressione per questa gara così importante, ma ho anche una grande forza interiore: voglio dimostrare chi sono e quello che valgo.
Questo sport spesso mi ha trattato male ma, da vero innamorato quale sono, non mollo e farò di tutto per conquistarlo».
A questo ragazzo così determinato, che porta in alto il nome della nostra terra, non possiamo che fare tutti insieme un grande in bocca al lupo.

Roberta Bruno dal Corriere del sud

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Partita da Montella, oggi lavora nel mondo dei guanti bianchi - di Roberta Bruno - dal Quotidiano del sud

Miriam: così a Roma assaporo l’universo dell’arte - Miriam Pascale, nata nell’anno 1990, è una ragazza di Montella, tra le diverse qualità che la contraddistinguono emerge un grande senso creativo, che le permette di trovare equilibrio e armonia in tutto ciò su cui ripone lo sguardo. Appassionata d’arte e maestra ceramista si è diplomata presso l’Istituto d’arte di Avellino per poi frequentare l’Accademia di Belle Arti ad Urbino, città in cui studiava e si manteneva grazie alla borsa di studio e al lavoro di cameriera.
Attualmente Miriam vive a Roma, culla della civiltà e della cultura, il cui presente non rispecchia certamente i fasti dell’antichità.
Il lavoro per cui Miriam negli anni si è specializzata richiede garbo e sicurezza, tocco delicato e al contempo deciso, il gruppo professionale a cui la giovane montellese appartiene viene definito con un nome particolare e anche molto affascinante, quello dei Guanti Bianchi. Mi spiega:
«Sono chiamate “Guanti Bianchi” quelle figure professionali che si occupano di predisporre gli ambienti e prestano un supporto tecnico e pratico durante l’allestimento di mostre o di esposizioni d’arte. Ci chiamano così perché, quando maneggiamo queste opere, indossiamo dei guanti di cotone bianco. Non so spiegare il motivo per cui sia questa la mia grande passione, so solo che quando sono a contatto con l’arte e tocco con le mani queste opere meravigliose sento dentro un’emozione indescrivibile, sono felice e non smetto di sorridere. Credo sia l’effetto della mia grande passione».
Eppure, dopo anni di studio e di preparazione, di sacrificio e di forza di volontà, le mani di Miriam hanno calzato guanti di un bianco ben diverso.
«Ho studiato per formarmi professionalmente, anche dopo l’università ho frequentato un corso di otto mesi a Venezia, per curatori di mostre e rassegne, e alla fine abbiamo dato vita ad una speciale esposizione con capolavori di artisti internazionali, che prese il nome di “Command-Alternative-Escape”».
«Tuttavia – continua Miriam - terminato il corso, è svanita anche la magia e così, non riuscendo ad attraversare l’impenetrabile portale che conduce al mondo del lavoro, sono tornata a Montella e sono stata assunta in un supermercato della zona. Sono passati mesi, giorno dopo giorno mi sentivo morire lentamente, mi ha fatto resistere l’obbiettivo che mi ero posta di mettere qualcosa da parte per poi ripartire, e così a novembre ho lasciato di nuovo tutto e sono arrivata Roma, una città da cui mi aspettavo molto di più».
«È dura stare in un posto nuovo, dispersivo e sconfinato come Roma, per mesi e senza lavoro.
Quando poi, finalmente, a febbraio sono riuscita a trovare lavoro in una ditta di allestimento mostre, dopo pochi mesi il mio responsabile è sparito nel nulla, lasciandomi di punto in bianco di nuovo in sospeso e senza impiego.
È stata un’esperienza davvero terribile, piantata in asso così, senza garanzie, spiegazioni e prospettive e ancora senza lavorare. Presa dallo sconforto ho pensato di ritornare a Montella. La mia fortuna è stata poter contare sulla dimensione familiare che si era intanto creata attorno a me; infatti sia il mio ragazzo che mio fratello Marco vivono ormai a Roma per lavoro con me.
Ho cercato di non perdermi d’animo e ho iniziato ad ingegnarmi come meglio potevo: mi dividevo tra vari lavoretti al mattino e in serata facevo la babysitter.
Sinceramente pensavo che Roma potesse offrirmi di più. Sembra impossibile credere che una città che è in se stessa un’opera d’arte, che dispone di un patrimonio culturale incommensurabile, possa essere così degradata e consumata».
Ma nonostante le tante difficoltà, Miriam non smette mai di entusiasmare quando raccontando scende nei dettagli del suo lavoro e delle sue passion:
«Il modo in cui l’opera d’arte viene vista è l’opera stessa – afferma Miriam.
Una volta ho allestito a Villa Borghese una mostra di un’artista, Vettor Pisani, che avevo studiato con interesse all’università e che, dunque, conoscevo bene. Ecco, toccare le sue opere è stata un’emozione unica. È stato un po' come quando da bambino ricevi un gioco nuovo: già l’involucro di per sé possiede un’aura speciale e hai paura di romperlo solo togliendo l’imballaggio. Sfilare un’opera dal suo rivestimento è una grande emozione, forse non è percepibile dall’esterno, perché quando il lavoro è già compiuto e si sta dinnanzi al quadro esposto nessuno si pone domande, e tutto sembra così normale e scontato, come se l’opera fosse stata lì da sempre in quel modo. Invece chi usa il tatto, con i noti guanti bianchi, sa bene che non è proprio così.
Non so se può essere un buon paragone, ma personalmente in quelle circostanze mi viene da immedesimarmi in un muratore che tira su un muro e poi pensa: “oddio e se cade?” Ecco, a volte penso proprio questo!» ride imbarazzata.
Dietro all’apparente timidezza e ai grandi occhi espressivi di Miriam si nasconde in realtà una particolare tenacia, temprata dalla sofferenza.
Si dice che crescendo si perda la voglia di lottare per i propri sogni e ci si appiattisca, assecondando le forme che la vita impone. Ma Miriam dà a tutti l’esempio contrario.
«Tante volte mi sono detta: basta, cambio strada e cerco un lavoro che non abbia a che fare con il mondo dell’arte. Eppure, non mi sono mai arresa. Anzi, ho imparato a non arrendermi. Un tempo ero più razionale, adesso so come allentare la presa nel momento in cui mi rendo conto che le cose non vanno come vorrei. In quei momenti in cui brancoli nel buio o ti fai coraggio e non ti arrendi, o impazzisci. Sono fiduciosa e propositiva per questo nuovo anno, che per me, come quando ero a scuola, inizia con settembre. Per ora mando il mio curriculum e attendo risposte, ma, ripeto, non mi arrendo!».
Settembre è un mese particolare: la maggior parte dei giovani come Miriam, dopo aver passato le vacanze in terra natale, prepara la valigia per il rientro in città, lasciando il vuoto, oltre che nell’armadio, anche nei paesi.
«Ho notato con piacere che in queste settimane estive c’era vita a Montella rispetto all’anno scorso, ma da domani tonerà ad essere un deserto. Tra ottobre e novembre non ci sarà più neanche un ragazzo. Ogni volta che torno vedo sempre qualcosa che manca, si fanno passi avanti è vero, ma anche tanti indietro, e tirando le somme si rimane pressappoco fermi. Si intuisce che sono state messe in atto nuove idee, ma è allo stesso modo è semplice capire che gli ideatori sono sempre gli stessi personaggi e non i giovani». E Ancora: «Vedo tanti spazi lasciati a sé come la biblioteca: quando ci sono tornata mi ha dato un’idea di vuoto che mi ha molto intristito. O come Verteglia, i rifugi, la piana; luoghi che hanno tantissimo da offrire, ma che ancora non sono utilizzati».
Secondo Miriam qualsiasi posto privo dello spirito e dell’entusiasmo giovanile è destinato lentamente a morire.
«Esiste un’importante differenza tra la tradizione e il vecchio – conclude Miriam - non si può pensare di trasmettere le tradizioni con canali antiquati, bisogna sapersi adattare ai cambiamenti e ai nuovi tempi, altrimenti si rimane indietro e la tradizione, invecchiata, viene dimenticata.
Conosco tanti giovani, a partire da mio fratello, con un legame viscerale per questa terra, che potrebbero fare e dare tanto. Ma lo spirito da solo non paga».

 

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Turismo, l’Irpinia punta a far rete in un sistema di qualità - di Roberta Bruno

MONTELLA - «Si è molto parlato di qualità e turismo, e di turismo di qualità. L’Irpinia potenzialmente offre tantissimo, ma bisogna che questa offerta venga tradotta in un sistema di qualità in un progetto che deve  essere messo in rete». Così il presidente di Confartigianato Campania, Ettore Mocella , nel corso della seconda tappa di “Irpinia Sistema Turistico” avuta luogo, nel pomeriggio di ieri, presso il Santuario di San Francesco a Folloni di Montella. «La nostra è infatti una mappatura dei bisogni di questo territorio, ci sono energie,  ma bisogna saperle incanalare », dichiara Mocella.
«Le manifestazioni di interesse saranno raccolte fino al prossimo 30 ottobre ed il prossimo appuntamento sarà a Calitriannuncia il presidente di Confindustria Avellino, Pino Bruno, che sottolinea più volte il concetto di «fare rete e di farlo qualitativamente. Per questo motivo - aggiungesi sono messi insieme questi tre enti” (Confindustria Confartigianato e Federalberghi, ndr.). L’obiettivo è quello di mettere in campo interventi di qualità per evitare quel turismo “mordi e fuggi” avvicinandosi, così, ai modelli già presenti in Umbria e Toscana. “Confidustria è a disposizione  ribadisce Bruno e speriamo che il territorio risponda a queste agevolazioni sul turismo che anni fa non esistevano ».
Gerardo Stabile, presidente Federalberghi Avellino, sciorina numeri da raggiungere affinché vi sia velocemente un’adesione e venga immessa sul mercato un prodotto nei tempi rapidi richiesti: «Sicuramente questo progetto può dare un forte contributo alla nostra provincia. Non stiamo
vivendo un buon momento,  nonostante l’estate ha restituito un dato positivo nelle varie strutture. Ma il turismo è fatto di 365 giorni all’anno e, quindi, bisogna capire come intervenire ed alimentare questo sistema.
L’obiettivo è quello di dare un contributo di qualità, di servizi a tutti coloro che arrivano in Irpinia.Conclusioni affidate a Vittorio Ascione, apoletano,
consulente tecnico del progetto: «Abbiamo avuto evidenzia  un confronto con Tour Operator e vari imprenditori nazionali sul pacchetto Irpinia, e tutte le risposte sono state positive, ma solo a determinate condizioni. Tutte le testimonianze del turismo irpino riportano sempre la stessa lamentela: la mancanza di strutture adibite al pernottamento degli ospiti. L’Irpinia ha molto da offrire  di  chiara –ma è male organizzata ».
Roberta Bruno

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Il vino e l’identità della terra irpina - di Roberta Bruno

SALZA - Il vino protagonista indiscusso del convegno multidisciplinare tenutosi nel centro storico di Salza, presso il palazzo Imperiale D’Afflitto del XVIII  sec, recentemente recuperato, nell’ambito della rassegna “Salza rock and more”. Gli ospiti hanno declinato l’argomento ognuno secondo  la propria ersonale passione e formazione professionale, incuriosendo e allietando gli ospiti presenti in sala e dando vita ad un dialogo vario e interessante.
Dopo i saluti e i ringraziamenti del sindaco di Salza Irpina Luigi Cella, che ha ricordato come anche la politica si stia muovendo, finalmente, per accendere i riflettori sul territorio irpino nelle sue peculiarità, il dibattito è stato condotto sul terreno della tradizione e delle curiosità in un abile excursus sul vino come “storia d’amore”, realizzato dalla dottoressa Katya Tarantino, biologa, nutrizionista e presidente dell’associazione Pabulum, che ha saputo metter in luce il significato culturale e socialmente condiviso di questa bevanda, per lungo tempo considerata elemento misterioso ed esoterico. In seguito, la parola è passata a Giulia Corrado, biologa e nutrizionista anch’essa, che ha illustrato le proprietà nutrizionali del vino, smascherando luoghi comuni.

Il terzo ospite, Graziella Di Grezia, medico radiologo, ha affrontato con estrema chiarezza il rapporto tra vino e salute. Titolo della sua presentazione “il buono, il brutto e il cattivo”, riferimento alla gamma completa degli effetti del vino sull’uomo a seconda della quantità e dell’uso che si fa di questa  inebriante bevanda. Dopo una prima parte “scientifica”, il dibattito ha preso una piega più culturale con la partecipazione dell’ex presidente della comunità Montana Terminio Cervialto, Nicola Di Iorio, storico dell’aglianico e autore del libro “Rosso dalla Terra”. L’autore, anche sommelier, ha raccontato la storia della nostra terra e delle nostre viti, ha narrato dei conflitti accesi con i popoli confinanti, tra aneddoti e curiosità.

È importante conoscere le proprie origini, sottolinea Di Iorio, per appropriarsi della propria cultura e riaffermare una propria identità nelle potenzialità di questo  territorio. Origini, infrastrutture, trasporti e solida unità consorziale e politica sul territorio sono, per il vecchio presidente della comunità Montana, i punti di forza che mancano, ma che sono necessari per rilanciare la nostra provincia, ancora troppo indietro rispetto ai tempi.
E’ stato, poi, il professore Alessandro Di Napoli, curatore della ricchissima antologia “Vino, Eros e Poesia. Da Omero ai giorni nostri”, a incantare il pubblico con la lettura di magnifiche poesie sul vino tratte dall’antologia. Spesso si tende a dimenticare come il vino sia stato fonte d’ispirazione di tanti artisti e poeti, maledetti o meno, e che abbia accompagnato e cullato menti epensatori, amori e passioni dell’intera umanità. Ma, come ricorda il saggio professore, l’aurea mediocritas deve essere sempre presente: come nei simposi dell’antica Grecia era imposta una regola nel bere, che andava rispettata in modo tale da poter discutere con scioltezza ma lucidità dei grandi temi eletti, allo stesso modo le grandi opere letterarie sono figlie della moderazione; la smoderatezza, invece, non ha mai creato nulla di bello.
Ad accompagnare il convegno ladegustazione dei vini locali, gentilmente offerti dalla cantina Di Meo e la mostra dedicata alle opere in olio su tela dell’artista Alessandro Follo.

 

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Roberto: così a Torino ho realizzato i miei sogni - di Roberta Bruno - dal Quotidiano del sud

Roberto Tucci, nato ad Avellino nel 1974, non manca certo il dono dell’intraprendenza. Ottimista e dinamico, è riuscito a coltivare nel tempo le proprie passioni, rendendole di volta in volta una piacevole scoperta. Roberto, che ama vivere nelle grandi città, ha vissuto e lavorato per diversi anni a Roma, a Milano e a Torino, dove attualmente si è stabilito. «Già da giovanissimo avevo curiosità di andare fuori  racconta Roberto - ciò nonostante avevo deciso di iscrivermi alla facoltà di Scienze della Comunicazione, presso l’università di Salerno, che all’epoca rappresentava una novità. Successivamente ho frequentato il master in Relazioni Pubbliche Europee a Roma, presso Ateneo Impresa, anche quella era una novità per quei tempi. Successivamente ho fatto uno stage prima a Roma presso l’agenzia di Klaus Davi e poi a Milano, dove mi sono trasferito nel 2000, cambiando presto agenzia. Il passaggio da Roma a Milano è stato significativo: mi sono subito ambientato e trovato a mio agio nel contesto lavorativo. Certamente la dimensione più umana e vivibile  della città, rispetto a quella della capitale, ha fatto la differenza. Attualmente vivo a Torino, soltanto perché sono innamorato del lavoro che sto svolgendo ma, in futuro, sarei felice di tornare a vivere a Milano.
Negli anni duemila c’era il boom di internet racconta ancora Roberto - dopo essere stato in “Say What?”, un’agenzia di comunicazione classica rispetto alla Klaus Davi, ho lavorato prima in una startup che si occupava di annunci di lavoro e poi presso Wireless, una rivista mensile specializzata in tecnologia.
In seguito, ho lavorato per dieci anni in eBay Classifieds come responsabile di marketing e revenues (Head of Core). Mi piaceva, viaggiavo molto tra l’Olanda e la California dove si trovano le sedi centrali dell’azienda, e avevo dinnanzi una prospettiva di carriera internazionale. Eppure, sentivo che in fondo non era quella la mia strada.

Il grande cambiamento è avvenuto nell’anno 2014 quando sono entrato in contatto con la Holden, la scuola di narrazione fondata nel 1994 da Alessandro Baricco, con la quale coltivavo un rapporto fin dai tempi dell’università, quando organizzavo eventi culturali ad Avellino. In breve: io avevo ormai esperienza in rete e loro cercavano un modo per lanciarsi online. Mi sono piaciuti immediatamente, dal mondo lavorativo al metodo utilizzato, del tutto diverso rispetto all’azienda multinazionale. Oggi mi occupo del mondo della comunicazione all’interno della scuola e coordino anche due college: Brand New e Story Design, due corsi che fanno parte del biennio della Holden per ragazzi dai 18 ai 30 anni. Anche se tardivamente, ho  coperto tutto il fascino dell’insegnamento e ne sono entusiasta. Stimoli continui, passione e freschezza sosono solo una parte di quello che questo incredibile mestiere offre a chi gli si dedica. Inoltre, i giovani allievi ti costringono a “stare sul pezzo” ed è proprio per seguire questa nuova e coinvolgente passione che oggi mi sono stabilito a Torino». 
Gli hobbies e le passioni di Roberto sono innumerevoli, ma tutte hanno in comune la stessa dedizione per l’arte e la cultura. Infatti, ltre all’insegnamento e alla comunicazione, ha coordinato un’associazione di scrittura in carcere chiamata “Il Due”, che prende il nome dal modo di definire il carcere di San Vittore, situato al civico numero due............CONTINUA SU "IL QUOTIDIANO DEL SUD

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Di nuovo nella sua Cassano dopo 15 anni trascorsi in Francia - di Roberta Bruno - dal Quotidiano del sud

Giovanni è un giovane di Cassano Irpino, partito per la Francia dopo il liceo. A Parigi si è dedicato agli studi di filosofia prima, e a quelli di arti visive poi. È rimasto lontano dall’Irpinia per oltre 15 anni, e ciò che l’ha spinto a partire non è stata la mancanza di lavoro ma, come tiene a sottolineare più volte, l’assenza di un contesto culturale adeguato.
Dopo tanti anni Giovanni è tornato al proprio paese con l’intento di avviare un processo culturale partendo dal basso, dalla terra, come quel luogo che unisce gli uomini nel lavoro, e che può formare una comunità forte delle proprie radici e tradizioni, nel rispetto di un’economia sostenibile per la società e per il futuro.
«Ho sempre avuto l’indole dell’evasore. Da bambino – racconta Giovanni - appena riuscivo scappavo di casa e giravo per il mio paese, a Cassano mi conoscevano tutti, e mamma per recuperarmi era costretta a chiedere, casa per casa, se mi avessero visto.
Ho sempre detestato sentirmi costretto: all’epoca avrei voluto fare il liceo artistico a Benevento, ma i miei genitori decisero per me che sarebbe stato meglio il liceo scientifico. Quando finii il liceo decisi di partire per Parigi, mio padre mi disse che non mi avrebbe dato una lira, ma io non mi lasciai intimidire e partii ugualmente. Ho sempre trovato tanti lavori per mantenermi: consegnavo i giornali prima di andare ai corsi, ho fatto il barman, il cameriere, e più tardi ho lavorato nel mondo fotografico e della moda come operatore video e assistente fotografico».
Giovanni è rimasto all’estero per circa 20 anni, tra la Parigi mondana e la passione per le montagne della Francia meridionale, con solo qualche piccola parentesi italiana: «Nel 2004, insieme alla mia ragazza, sono tornato in Italia, all’epoca stavo scrivendo delle sceneggiature e lasciai la Francia insieme ai vari lavori che seguivo per concentrarmi sulla scrittura. Mi interessava molto il fenomeno dell’immigrazione di ritorno tanto che mi adoperai per realizzare un documentario. L’anno successivo andai in Francia per poi ritornare in Italia nel 2009, quando mi interessai agli studi di speleologia e presi l’abilitazione per le tecniche di corda. Sono stato ancora a Parigi per altri 5 anni: collaboravo con la RCS francese, mi sarebbe piaciuto creare una sorta di casa di produzione. Nonostante il mondo della moda e della fotografia mi abbiano dato molte soddisfazioni, permettendomi di viaggiare e di avere anche una retribuzione non indifferente, mi resi conto che si trattava di un ambiente autoreferenziale, nel bene e nel male. Così, ottenuta la disoccupazione, ho girato tra le montagne della Francia meridionale. A quel punto iniziò ad interessarmi l’aspetto documentaristico del mondo animale: desideravo traslare le competenze che avevo acquisito in quegli anni in un ambito opposto al mondo cittadino e modaiolo; iniziavo a decostruirle per riadattarle ad un nuovo ambiente».
Il ritorno alla ruralità è stata così per Giovanni una scelta:
«Nonostante i miei studi filosofici sono un tipo piuttosto pragmatico» continua «infatti ho deciso di tornare alla terra. Vedo l’agricoltura come una possibilità politica di cambiare le sorti del nostro luogo e farne un posto più piacevole. Il mio pensiero abbraccia un concetto di agricoltura diverso rispetto al passato più recente, perché si sviluppa in direzione di un canale culturale. Il tentativo di creare un contesto culturale non si insedia in maniera autistica ed estranea al territorio ma, al contrario, parte dal basso, vivendo quotidianamente il contesto e imparando a conoscerlo nelle sue dinamiche e organizzazione, affinché si possa riuscire al meglio senza fallire. In luoghi come questi saper lavorare nel mondo naturale, mettendo a frutto le caratteristiche del paesaggio, è essenziale; l’errore dell’industrializzazione forzata e avulsa dal contesto del post terremoto, di cui noi tutti oggi tocchiamo con mano l’esito dannoso, non è più ripetibile».
Giovanni entusiasma quando parla dei suoi sogni di cultura e di un futuro in armonia col progresso e la sostenibilità. Temi estremamente attuali e intrecciati tra loro. Anche se un futuro senza giovani è difficile da immaginare. Per Giovanni la tendenza filo-senile è da arginare: «Non si può dare fiducia solo all’anziano, – afferma - senza l’estro e l’entusiasmo giovanile le tradizioni si irrigidiscono e invecchiano senza possibilità di attecchire su un nuovo terreno fertile. L’errore fa parte dell’esperienza e un “anziano” non è meno fallibile di un giovane.
Io per esempio sto imparando a fare l’agricoltore da autodidatta e imparo sul campo a tutti gli effetti. Quando parlo con il vicino, mi rendo conto di come si persegua ancora quello che in apparenza è il vantaggio immediato: come togliere le erbacce con il diserbante piuttosto che studiare nuovi metodi, scoprendo che spesso le erbacce sul terreno è meglio lasciarle.
Senza aprirsi alla cultura anche nel mondo agricolo si continuerà ad utilizzare la parola “beneficio” piuttosto che “tossicità”; smetterò di perseguire questa strada della coltivazione solo quando mi renderò conto che non sia effettivamente possibile coltivare naturalmente, cosa di cui sono certo il contrario.
Che dire, sono un sognatore e continuo a pensare ai miei sogni come un ideale, ho rifiutato tanti lavori anche a tempo indeterminato solo perché non rispecchiavano le mie aspettative a lungo termine. Sono io che devo strumentalizzare il lavoro adeguandolo alle mie esigenze, non il contrario. L’unico lavoro che deve impegnare le persone è quello di concretizzare il proprio sogno. Le energie spese per trovare il lavoro a tempo indeterminato, il famoso posto fisso, le considero riduttive: un’offesa per l’intelligenza e la dignità di una persona.
Forse si tratta di un compromesso che io personalmente non riesco ad accettare. Sono scappato dal contesto urbano perché mi sentivo stretto, decidendo di stare in un luogo in cui la vita costa meno proprio perché possa permettermi di lavorare saltuariamente e con tempi più umani.Recentemente due aziende mi hanno proposto dei lavori, ho rifiutato. Non riesco ad ingabbiarmi in un lavoro a tempo indeterminato: se un giorno voglio andare in grotta devo poter andare. Posso impegnarmi per qualche settimana, un mese, ma con la prerogativa che non sia per sempre».
Nei tempi più recenti produzione e lavoro sono termini che coincidono come mai prima: l’industria non conosce riposo, l’agricoltura intensiva manca di rispetto ai tempi di rigenerazione che la natura impone, all’uomo tanto quanto alla terra. In questa prospettiva la filosofia di Giovanni, per quanto possa apparire contro tendenza, apre su scenari meno utopici e realistici di quanto si poteva pensare negli anni precedenti, per via dell’esigenza stringente dei nostri tempi. Per Giovanni il dialogo ed il conseguente scambio di idee e conoscenze possono portare ad un libero associazionismo “dal basso”, che lentamente cooperi per le esigenze di tutti: «L’agricoltura ha la possibilità di soddisfare le esigenze prime, ristabilendo una comunità. Il mio sogno è quello di un’agorà: fare gruppo e legarsi insieme permette di operare nella più assoluta sostenibilità. Oggi basterebbe un trattore per 10 aziende agricole, e invece ognuno compra il proprio. Bisogna che si esca da questo individualismo e che si cooperi per fare qualcosa di più. Sono convinto che l’agricoltura sia un buon modo per fare cultura, per dare valore al territorio, ma in questo processo devono concorrere più forze, compresa quella politica».

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“Al Sud nessuna opportunità per noi ingegneri” di Roberta Bruno - dal Quotidiano del sud

Dal Politecnico alla scommessa con la Magneti Marelli - Aurelio De Simone, classe 1992, è un brillante ragazzo montellese, appassionato fin da piccolo agli studi scientifici. Dopo la laurea triennale in ingegneria aerospaziale all’università Federico II di Napoli e la specializzazione al Politecnico di Torino, ha sviluppato una tesi sperimentale a Lowell, vicino Boston, collaborando ad un progetto tutto italiano sulle strutture aeronautiche. Una volta tornato in Italia è stato costretto al Nord per lavoro: nessuna azienda meridionale ha ricercato la sua figura professionale.
«Scegliere ingegneria per me è stato uno sviluppo naturale, mi piacevano la matematica e la fisica e prediligevo discipline non troppo mnemoniche, come ad esempio medicina; il calcolo rappresentava per me il giusto compromesso tra teoria e attività pratica. Ho scelto ingegneria aerospaziale per pura curiosità sugli aerei.
L’esperienza americana è stata particolarmente formativa. Lì cercavano dei ragazzi italiani per portare avanti un progetto sullo studio del comportamento della struttura globale, scindendola in piccole parti e definendo dei calcoli sulle microstrutture. I ragazzi formati in Italia hanno un diverso atteggiamento e approccio nei confronti della teoria: abbiamo basi molto più teoriche rispetto a tanti altri studenti europei e non.
Dopo la laurea sono stato contattato da Avio Aero, un’azienda che opera nella progettazione e produzione di oggetti e sistemi per velivoli, per uno stage di sei mesi, finito il quale, non avendo avuto un’offerta per la posizione a cui ambivo, ho cambiato società, passando ad una multinazionale italiana che si occupa della fornitura di prodotti e sistemi tecnologici per il mondo automobilistico, la Magneti Marelli».
Aurelio è entrato far parte del gruppo Marelli con un graduate program, ossia un programma di formazione che passo dopo passo introduce il soggetto all’interno di un contesto lavorativo.
«Sono entrato nella società con un graduate program – racconta Aurelio - ossia un processo di formazione e inserimento ai fini dell’azienda, funzionale al raggiungimento di una figura particolare, come ad esempio il direttore dello stabilimento. Oramai le aziende puntano alla formazione delle figure professionali dall’interno: un ragazzo neolaureato viene assunto e iniziato al contesto lavorativo dallo stesso gruppo. Vengono fissati degli obbiettivi, ed una volta raggiunti, se ne pongono di nuovi; in questo modo è data ai giovani la possibilità di formarsi e, al contempo, far carriera».
Avendo vissuto in diversi contesti Aurelio riporta l’esperienza vissuta tra Napoli e Torino: «Posso dire che la mia formazione è stata complementare: un’ottima base teorica a Napoli coronata dallo sviluppo di una mentalità più pratica a Torino. Mi spiego: Napoli possiede un ambito accademico certamente più preparato, ci sono ricercatori molto in gamba e noti sulla scena internazionale; Torino invece si affaccia sullo scenario europeo non solo geograficamente, ma anche perché è allacciata alla stragrande maggioranza delle aziende presenti sul territorio e oltre il confine. Lavorativamente parlando, il vasto raggio d’azione del Politecnico si traduce in un approccio molto più pratico ed europeo, mentre, nell’ambiente partenopeo si è irriducibilmente ancorati all’approccio tradizionale e teorico; che non è un male, anzi, è un gran punto di forza della formazione meridionale, ma forse l’unico.
A Torino, come dicevo, aiuta la posizione geografica più europea, ci sono sicuramente più soldi, più contatti e più scambi culturali: tesoro per un ambiente accademico. Nell’ambito universitario del Nord la vita è decisamente semplificata, mentre Napoli è una città che ti tiene sempre in lotta. Tuttavia, bisogna dire che i professori sono molto più disponibili ed umani al Sud, e che le associazioni studentesche sono riuscite ad ottenere tanto, soprattutto per quanto riguarda la gestione degli appelli d’esame. Dal mio personale punto di vista questo si traduce per lo studente in una semplice dinamica: al Sud un esame si prepara nei tempi “giusti” per darlo nel migliore dei modi, mentre al Nord l’esame “si tenta”, trasformando l’università in una corsa sterile.
Il vantaggio teorico che si ha quando si arriva al Politecnico è notevole: metà degli esami li avevo già affrontati a Napoli, e la preparazione dei miei compagni che provenivano dalla triennale settentrionale era minore rispetto alla nostra. Viceversa, il loro orientamento pratico era evidentemente maggiore del nostro: conoscevano ed utilizzavano una quantità di programmi mai sentiti. Credo che il mio percorso sia stato la giusta combinazione».
La piacevole chiacchierata con Aurelio tocca molti punti interessanti, immancabile il parere del giovane ingegnere sull’Irpinia: «È piacevole tornare in vacanza ma non lavorerò mai qui, non perché ho dei limiti al riguardo, ma perché non esiste un piano industriale. Inoltre, neanche da Napoli ho mai avuto proposte per la mia figura professionale. Recentemente ho ricevuto un’offerta da Ema, Europea Microfusioni Aerospaziali, risibile rispetto alla mia posizione attuale e senza alcuna prospettiva di carriera.
Ogni volta che sono tornato a casa in questi anni ho trovato davvero pochi cambiamenti, diciamo il minimo sindacale urbanistico – ride – ma nessun programma per un piano industriale o traccia di rapporti con l’Europa. Mancano le aziende che danno la possibilità di rimanere sul territorio».
Gli esempi e i paragoni che Aurelio pone tra l’Irpinia e altrettanto piccole realtà del Nord fanno però riflettere: «Poniamo un esempio: Villar Perosa, in Piemonte, è un comune italiano di 4.000 abitanti, la metà di Montella, ma è allo stesso tempo culla di tantissime aziende, tra le quali la SKF, il più grande distributore di cuscinetti a sfera al mondo. Ma la realtà industriale non è per forza tutto: il più noto festival musicale e letterario italiano si tiene annualmente a Barolo, nelle Langhe cuneesi. Questo evento è cresciuto nel tempo fino a diventare un’attrazione mondiale, valorizzando le risorse del luogo e le tradizioni agri-vinicole della regione che lo accoglie.
Come si può pensare allo sviluppo dell’Irpinia quando dalle nostre parti non esistono collegamenti, infrastrutture o incentivi? L’anno passato abbiamo avuto una bellissima occasione per rilanciare la nostra terra, il Verteglia Mater. Doveva essere un evento unico nel suo genere e invece è stata una grandissima delusione.
Sono mancati i collegamenti con il nostro paese oltre alle strutture necessarie per ospitare tutte quelle persone, facendo venire meno, di conseguenza, la microeconomia che gira attorno a questo tipo di eventi. Inoltre, l’assenza di un direttore artistico, perlomeno competente, che riuscisse ad organizzare un programma anche semplice per intrattenere gli ospiti durante le giornate o che si occupasse della gestione simultanea dei palchi allestiti per le serate, è stata una mancanza ancora più grave per un evento di quella portata. Sinceramente credo che la mancata replica dell’appuntamento di quest’anno sia il segno silente del grande fallimento.
Se da un anno all’altro non si opera per sopperire alla mancanza di strutture ed infrastrutture funzionali a tale evento, è inutile illudersi e prendersi in giro: l’abbandono di tali iniziative è già scritta. Un vero peccato, questo evento poteva riportare alla nostra meravigliosa terra la visibilità che merita».

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Qui ho imparato a curare il cuore - Valentino, fuggito da Montella in Svizzera: “Voglio diventare un buon medico -” di Roberta Bruno - dal Quotidiano del sud

Valentino M., generazione 1989, è un giovane di origini russe, adottato da una famiglia montellese. Valentino è giunto in Irpinia all’età di otto anni, iniziando, dunque, il suo percorso di studi in svantaggio rispetto ai suoi coetanei. Ciò nonostante, grazie alla grande curiosità e alla sete di conoscenza che lo contraddistinguono, la sua istruzione è andata progredendo, fino a concludere il percorso di scientifico di Montella. Oggi Valentino è uno specializzando in medicina nella città di Coira, in Svizzera, e nonostante appaia come un giovane timido e riservato, è certamente un ragazzo che sa cosa vuole. «Il primo momento in cui ho pensato di andare via dall’Italia - racconta Valentino - è stato durante l’Erasmus in Spagna. All’epoca frequentavo uno degli ospedali più importanti della regione, quello di Santiago; mi resi subito conto della differenza abissale che intercorre tra le strutture ospedaliere altre e quelle italiane. Il pensiero di trasferirmi in Spagna fu immediato.
In seguito, quando ho iniziato ad informarmi sulle specializzazioni, ho capito che in Italia i laureati in medicina continuano ad essere studenti anche dopo la laurea. Posso essere criticato, ma bisogna rendersi conto che il rimborso di 1.700 euro non può bastare come stipendio all’età che si ha quando si concludono gli studi di medicina. Certo possono apparire come un’ottima retribuzione rispetto al contesto lavorativo attuale, ma se si analizza con raziocinio si comprende facilmente che non può garantire néstabilità e né indipendenza. Così, dopo la laurea,mentre praticavo il tirocinio obbligatorio, ho iniziato a studiare il tedesco».
Ma a spingere definitivamente Valentino fuori dal confine italiano è stato il rifiuto ricevuto da un esperto medico campano:
«La mia passione è il ramo della cardiologia. Così dopo la laurea andai da un cardiologo, molto famoso a Salerno, perché volevo imparare a fare l’ecocardiografia, ero emozionato ed entusiasta. Mi presentai, gli spiegai la mia passione e le mie intenzioni.
Mi respinse. È stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso. In quel momento ho capito che dovevo andare via. Mi sono abilitato alla professione, ho fatto il test di specializzazione e intanto lavoravo in Basilicata alla guardia medica.
Facevo tutti i turni possibili per mettere da parte un po' di soldi mentre continuavo a studiare il tedesco. Successivamente, ho lavorato per tre mesi all’ospedale di S. Angelo dei Lombardi, facevo il volontario al pronto soccorso, pensavo di imparare qualcosa e invece insegnavo io a loro. Finalmente ricevetti la chiamata che aspettavo dalla Svizzera, ero atteso per il colloquio per il primo anno di specializzazione in medicina interna».
La forza che muove Valentino è prevalentemente una, quella di  migliorarsi, di continuare ad imparare e di fare sempre meglio: «voglio diventare bravo - afferma – e sentivo che l’Italia non me l’avrebbe permesso. Sono stato studente per 6 anni e adesso non voglio continuare ad esserlo nel mio lavoro.
L’ospedale in Svizzera è organizzato diversamente da quelli italiani, già da  adesso ho grandi responsabilità: salvo vite, mi chiedono di uscire in ambulanza, e, di conseguenza, anche la retribuzione è in proporzione a tali mansioni». Quando chiedo a Valentino se anche in Svizzera ci sono casi di malasanità mi risponde: «Chiaramente, in tutti i sistemi possono esserci delle falle. Ma una grande differenza può rintracciarsi nella gestione del problema e nel modo in cui si cerca di ovviare ai propri  punti deboli. Per esempio, da noi in Svizzera si fanno periodicamente delle riunioni   nelle quali si pongono delle valutazioni oggettive sugli eventi trascorsi, in modo tale da poter continuare ad imparare dagli errori in prospettiva di un miglioramento in futuro. Inoltre, gli ospedali svizzeri sono tutti in dialogo tra loro, per un continuo aggiornamento e un confronto prolifero.
Anche quando si trasferisce un paziente in un altrodale si rimane in contatto con la nuova struttura e si riceve un feedback.
Personalmente trovo queste pratiche molto utili perché così sono messo nella condizione di sapere se la mia diagnosi era esatta o meno, e posso conoscere tutti i successivi sviluppi. C’è da tenere  presente in questo confronto che gli ospedali in Italia sono un servizio pubblico, mentre in Svizzera no, perché sono le assicurazioni ad avere in mano gli ospedali, cosa che implica, di conseguenza, un servizio maggiore e una maggiore attenzione: in Italia ricoverare un paziente costa, mentre in Svizzera è un guadagno.
Tutto ciò implica una diversa organizzazione del lavoro. Si lavora molto  ma si è anche molto meglio retribuiti rispetto all’Italia. Inoltre lì, puntando ad un continuo miglioramento, gli ospedali mirano ai giovani, finanziando la loro formazione a questo scopo. Il mio ospedale, per esempio, mi ha mandato a  Norimberga per frequentare un corso in “medicina di emergenza, supporto vitale nel paziente traumatico e rianimazione cardiologica avanzata” pagandomi tutto, esami e certificazioni comprese. 

È comprensibile il motivo per cui sostengo che in Italia tutto questo mi sarebbe stato precluso». In questo periodo estivo Valentino è tornato in Irpinia, la sua terra, a godersi un po' di vacanza prima di riprendere la sua vita felice ma stressante, e passa le serate in piazza a chiacchierare con gli amici di sempre, Luigi e Salvatore, che fedeli lo attendono ad ogni festività.
«L’Irpinia è casa mia, torno 3 o 4 volte l’anno, ma nel tempo vedo Montella sempre uguale. I miei amici sono rimasti qui: c’è chi lavora con il  sostegno della famiglia, chi si arrangia, e chi, purtroppo, non lavora proprio. Giunti ai trent’anni si dovrebbe pensare ad una famiglia, e il non avere una stabilità economica penso sia terribile. 
Tra gli amici sono l’uni - co ad essere partito, e non me ne pento. Forse gli altri sono più attaccati alla terra o forse sono meno ambiziosi, ma credo che qualsiasi Irpino con un po' di ambizione  non rimarrebbe qui.
Per il futuro non saprei, in Svizzera voglio solo diventare bravo, poi magari torno e apro uno studio di cardiologia proprio a Montella. In fondo nel mio mestiere nonpuò esserci crisi: la gente è sempre malata e i medici non muoiono di fame. Oddio, - aggiunge sorridendo bonariamente - gli specializzandi italiani forse sì!»

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A Montella l’omaggio a due storici, protagonisti del panorama culturale irpino - di Roberta Bruno - dal Quotidiano del sud

Scandone, modello per il presente , Garofalo e Marino: ripartire dalla loro lezione per restituire dignità all’Irpinia - Un omaggio a due illustri storici montellesi, Domenico Ciociola e Francesco Scandone.

E’ il senso dell’incontro, tenutosi lo scorso 7 agosto tra le mura antiche del centro altirpino. Nella sala i volti di personaggi del passato, intrappolati in cornici, appese ai muri, guardano dall'alto la platea,mentre, tra accenni di saluto e sorrisi, la piccola élite culturale del luogo prende il proprio posto.
Al vicesindaco e assessore alle politiche culturali e sociali, professoressa Anna Dello Buono, il compito di introdurre l’incontro e gli studiosi Mario Garofalo e Giovanni Marino. Il recupero delle tradizioni storiche, tiene a sottolineare il vicesindaco, è una delle priorità della nuova amministrazione.
Lo storico Mario Garofalo, autore di autorevoli studi sull'Irpinia, introduce i protagonisti della serata con l'impeccabilità dello studioso appassionato e con la colloquialità propria di chi racconta aneddoti di vecchi amici. “La storia è magistra vitae - sottolinea Garofalo - ma spesso èmaestra”. Ribadisce la necessità di un ripensamento della toponomastica del paese “che potrebbe rappresentare una bella sfida per la nuova amministrazione comunale”. A prendere forma i ritratti di due personaggi, che rappresentano ancora un 
modello per il presente. Personaggi come Domenico Ciociola, studioso .............CONTINUA

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“Patrizia, da Castelfranci a Milano per educare a vivere insieme nella società multietnica” di Roberta Bruno - dal Quotidiano del sud Arte e cultura

Patrizia C. è una giovane donna di Castelfranci che vive a Milano da 13 anni, ed è oggi educatore presso un centro di accoglienza. Dopo la laurea in scienze dell’educazione all’università degli Studi di Salerno, Patrizia ha lasciato il proprio paese, guidata dalla curiosità e dalla voglia di fare nuove esperienze. La prima tappa di Patrizia è Pisa, ma, partita soltanto per una vacanza, non è mai più tornata: «Dopo la laurea ho fatto il servizio civile a Pisa presso la sede U.I.C. (Unione Italiana Ciechi), mentre per mantenermi facevo la cameriera, nei weekend frequentavo un corso a Firenze sulla cooperazione internazionale per i progetti di sviluppo con C.S.V. Sono sempre stata attratta dalle altre culture; al di là di voler aiutare gli altri sono sempre stata estremamente curiosa, ho sempre avuto interesse nel capire l’altro in generale.
Il mio sogno all’epoca era partire, andare in Africa, vedere quale fosse la realtà di quei luoghi e di quelle culture. Non sono più partita, e forse oggi un po' me ne pento, ma a quell’età avevo voglia di lavorare e di rendermi indipendente.
Ad un tratto, terminato il corso a Firenze, ho deciso di fare un master a Milano. Arrivai qui nel gennaio del 2006 e freequentai il Master “progettazione pedagogica nel settore della .......continua

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“Da Montella a Milano suonando il piano” di Roberta Bruno - dal Quotidiano del sud

Paolo Barbone, generazione 1985, fa parte dell’esercito di giovani irpini emigrati al Nord e conserva l’Irpinia nel cuore - Paolo Barbone, generazione 1985, è un giovane pianista montellese che fa parte dell’esercito di giovani irpini emigrati al Nord. Dopo la laurea in filosofia morale, conseguita alla Federico II di Napoli, e il diploma al conservatorio, all’età di 27 anni si è trasferito a Milano spinto dall’esigenza di  indipendenza economica, e non solo. La prima esperienza di lavoro l’ha vissuta presso il gruppo A2A, società di energia elettrica e gas: «Ho lavorato per tre anni per A2A, leggendo i contatori di Milano Nord e dando ripetizioni private di pianoforte.
Sono stato bene in quegli anni, ma arrivato ai 30 volevo cambiare e ho fatto domanda per le supplenze nelle scuole. Così ho iniziato ad insegnare musica e a svolgere il ruolo di docente di sostegno in un istituto comprensivo. Per il futuro posso dire che la città di Milano è la giusta realtà per me: qui ho relazioni e stimoli che mi interessano, e il mondo della scuola corona questo equilibrio. A Montella torno esclusivamente per la mia famiglia.
Credo che oggi sia forte il contrasto tra le generazioni: non si può stare a Montella immaginando di crescere dentro i limiti di origini e tradizioni che vanno in direzione diversa, se non contraria, alla propria».
L’educazione e la libertà di apprendere........CONTINUA

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“Il sogno? Un bistrot letterario nel cuore di Milano” di Roberta Bruno - dal Quotidiano del sud

BISTRO LETTERARIO 01Antonio si racconta, da Ponteromito nella capitale milanese - Antonio Di Dio, classe 1986 è un ragazzo che proviene da Ponteromito, comune di Montemarano. Laureato in due tempi a Fisciano, fa parte , anche lui del gruppo di giovani irpini che si è spostato a Milano per inseguire i propri sogni. Antonio è un ragazzo determinato, curioso e molto acculturato. Dopo un periodo post-adolescenziale non facile, per via di una malattia che gli ha colpito gli occhi e per la quale ha subìto un doppio trapianto di cornea, ha lottato, in una  convalescenza durata anni, per riprendere a pieno l’uso della vista: in fondo è sempre stato troppo appassionato alla letteratura americana per smettere di leggerla. A 23 anni si è

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