Di nuovo nella sua Cassano dopo 15 anni trascorsi in Francia - di Roberta Bruno - dal Quotidiano del sud
Giovanni è un giovane di Cassano Irpino, partito per la Francia dopo il liceo. A Parigi si è dedicato agli studi di filosofia prima, e a quelli di arti visive poi. È rimasto lontano dall’Irpinia per oltre 15 anni, e ciò che l’ha spinto a partire non è stata la mancanza di lavoro ma, come tiene a sottolineare più volte, l’assenza di un contesto culturale adeguato.
Dopo tanti anni Giovanni è tornato al proprio paese con l’intento di avviare un processo culturale partendo dal basso, dalla terra, come quel luogo che unisce gli uomini nel lavoro, e che può formare una comunità forte delle proprie radici e tradizioni, nel rispetto di un’economia sostenibile per la società e per il futuro.
«Ho sempre avuto l’indole dell’evasore. Da bambino – racconta Giovanni - appena riuscivo scappavo di casa e giravo per il mio paese, a Cassano mi conoscevano tutti, e mamma per recuperarmi era costretta a chiedere, casa per casa, se mi avessero visto.
Ho sempre detestato sentirmi costretto: all’epoca avrei voluto fare il liceo artistico a Benevento, ma i miei genitori decisero per me che sarebbe stato meglio il liceo scientifico. Quando finii il liceo decisi di partire per Parigi, mio padre mi disse che non mi avrebbe dato una lira, ma io non mi lasciai intimidire e partii ugualmente. Ho sempre trovato tanti lavori per mantenermi: consegnavo i giornali prima di andare ai corsi, ho fatto il barman, il cameriere, e più tardi ho lavorato nel mondo fotografico e della moda come operatore video e assistente fotografico».
Giovanni è rimasto all’estero per circa 20 anni, tra la Parigi mondana e la passione per le montagne della Francia meridionale, con solo qualche piccola parentesi italiana: «Nel 2004, insieme alla mia ragazza, sono tornato in Italia, all’epoca stavo scrivendo delle sceneggiature e lasciai la Francia insieme ai vari lavori che seguivo per concentrarmi sulla scrittura. Mi interessava molto il fenomeno dell’immigrazione di ritorno tanto che mi adoperai per realizzare un documentario. L’anno successivo andai in Francia per poi ritornare in Italia nel 2009, quando mi interessai agli studi di speleologia e presi l’abilitazione per le tecniche di corda. Sono stato ancora a Parigi per altri 5 anni: collaboravo con la RCS francese, mi sarebbe piaciuto creare una sorta di casa di produzione. Nonostante il mondo della moda e della fotografia mi abbiano dato molte soddisfazioni, permettendomi di viaggiare e di avere anche una retribuzione non indifferente, mi resi conto che si trattava di un ambiente autoreferenziale, nel bene e nel male. Così, ottenuta la disoccupazione, ho girato tra le montagne della Francia meridionale. A quel punto iniziò ad interessarmi l’aspetto documentaristico del mondo animale: desideravo traslare le competenze che avevo acquisito in quegli anni in un ambito opposto al mondo cittadino e modaiolo; iniziavo a decostruirle per riadattarle ad un nuovo ambiente».
Il ritorno alla ruralità è stata così per Giovanni una scelta:
«Nonostante i miei studi filosofici sono un tipo piuttosto pragmatico» continua «infatti ho deciso di tornare alla terra. Vedo l’agricoltura come una possibilità politica di cambiare le sorti del nostro luogo e farne un posto più piacevole. Il mio pensiero abbraccia un concetto di agricoltura diverso rispetto al passato più recente, perché si sviluppa in direzione di un canale culturale. Il tentativo di creare un contesto culturale non si insedia in maniera autistica ed estranea al territorio ma, al contrario, parte dal basso, vivendo quotidianamente il contesto e imparando a conoscerlo nelle sue dinamiche e organizzazione, affinché si possa riuscire al meglio senza fallire. In luoghi come questi saper lavorare nel mondo naturale, mettendo a frutto le caratteristiche del paesaggio, è essenziale; l’errore dell’industrializzazione forzata e avulsa dal contesto del post terremoto, di cui noi tutti oggi tocchiamo con mano l’esito dannoso, non è più ripetibile».
Giovanni entusiasma quando parla dei suoi sogni di cultura e di un futuro in armonia col progresso e la sostenibilità. Temi estremamente attuali e intrecciati tra loro. Anche se un futuro senza giovani è difficile da immaginare. Per Giovanni la tendenza filo-senile è da arginare: «Non si può dare fiducia solo all’anziano, – afferma - senza l’estro e l’entusiasmo giovanile le tradizioni si irrigidiscono e invecchiano senza possibilità di attecchire su un nuovo terreno fertile. L’errore fa parte dell’esperienza e un “anziano” non è meno fallibile di un giovane.
Io per esempio sto imparando a fare l’agricoltore da autodidatta e imparo sul campo a tutti gli effetti. Quando parlo con il vicino, mi rendo conto di come si persegua ancora quello che in apparenza è il vantaggio immediato: come togliere le erbacce con il diserbante piuttosto che studiare nuovi metodi, scoprendo che spesso le erbacce sul terreno è meglio lasciarle.
Senza aprirsi alla cultura anche nel mondo agricolo si continuerà ad utilizzare la parola “beneficio” piuttosto che “tossicità”; smetterò di perseguire questa strada della coltivazione solo quando mi renderò conto che non sia effettivamente possibile coltivare naturalmente, cosa di cui sono certo il contrario.
Che dire, sono un sognatore e continuo a pensare ai miei sogni come un ideale, ho rifiutato tanti lavori anche a tempo indeterminato solo perché non rispecchiavano le mie aspettative a lungo termine. Sono io che devo strumentalizzare il lavoro adeguandolo alle mie esigenze, non il contrario. L’unico lavoro che deve impegnare le persone è quello di concretizzare il proprio sogno. Le energie spese per trovare il lavoro a tempo indeterminato, il famoso posto fisso, le considero riduttive: un’offesa per l’intelligenza e la dignità di una persona.
Forse si tratta di un compromesso che io personalmente non riesco ad accettare. Sono scappato dal contesto urbano perché mi sentivo stretto, decidendo di stare in un luogo in cui la vita costa meno proprio perché possa permettermi di lavorare saltuariamente e con tempi più umani.Recentemente due aziende mi hanno proposto dei lavori, ho rifiutato. Non riesco ad ingabbiarmi in un lavoro a tempo indeterminato: se un giorno voglio andare in grotta devo poter andare. Posso impegnarmi per qualche settimana, un mese, ma con la prerogativa che non sia per sempre».
Nei tempi più recenti produzione e lavoro sono termini che coincidono come mai prima: l’industria non conosce riposo, l’agricoltura intensiva manca di rispetto ai tempi di rigenerazione che la natura impone, all’uomo tanto quanto alla terra. In questa prospettiva la filosofia di Giovanni, per quanto possa apparire contro tendenza, apre su scenari meno utopici e realistici di quanto si poteva pensare negli anni precedenti, per via dell’esigenza stringente dei nostri tempi. Per Giovanni il dialogo ed il conseguente scambio di idee e conoscenze possono portare ad un libero associazionismo “dal basso”, che lentamente cooperi per le esigenze di tutti: «L’agricoltura ha la possibilità di soddisfare le esigenze prime, ristabilendo una comunità. Il mio sogno è quello di un’agorà: fare gruppo e legarsi insieme permette di operare nella più assoluta sostenibilità. Oggi basterebbe un trattore per 10 aziende agricole, e invece ognuno compra il proprio. Bisogna che si esca da questo individualismo e che si cooperi per fare qualcosa di più. Sono convinto che l’agricoltura sia un buon modo per fare cultura, per dare valore al territorio, ma in questo processo devono concorrere più forze, compresa quella politica».
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