Sarà presentato il 13 gennaio, alle 16.30, presso il cinema comunale di Bagnoli Irpino, il volume di Tobia Chieffo “Aniello Capozzi-Fotografia di un’epoca”. A confrontarsi con l’autore il procuratore della Repubblica di S. Angelo Antonio Guerriero, il presidente della Provincia Cosimo Sibilia, il vicepresidente della Regione Campania Giuseppe De Mita. Pubblichiamo di seguito la prefazione di Aldo De FrancescoTra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio degli anni Sessanta, quando la nostra provincia cominciava a mettere il naso fuori dal guscio rurale, per cogliere qualche concreta opportunità turistica, rispetto a un amaro destino, chiamato da sempre “esodo”, in Alta Irpinia, fummo stregati dalla sfida del “Lago Laceno”.
Anche se ridotto a una paludosa reliquia geologica intorno a un pugno di terra, su cui sorgeva un rifugio, deserto o quasi, che dominava il pianoro, quel laghetto, nella conca di maestosi monti, lasciava immaginare altro futuro. Bastò liberarlo di alghe e giuncaglie, creare dei piccoli, confortevoli ristori, e l’altipiano, al centro di suggestive vette di vago orizzonte alpestre, popolato da mandrie di buoi, con gli ultimi mandriani, come i “butteri” maremmani, intenti a preparare arrosti e “ribollite”, cominciò a vivacizzarsi lentamente, a divenire meta di piccole comitive, di curiosi e saltuari visitatori.
Un po’ troppo, definirli turisti- anche se vi assomigliavano e forse già lo erano- che, all’improvviso, però, si moltiplicarono. Decisiva fu la feconda “sinergia”- allora si diceva collaborazione- tra il Comune di Bagnoli e due leggendari sognatori, amanti del cinema e geniali “compagni” di fantasia e di ideologie, Camillo Marino e Giacomo d’Onofrio, che, con il varo del Premio cinematografico neorealista “Laceno D’Oro”, favorirono le prime fortune dell’Altipiano, proiettandolo su ribalte più vaste.
Incancellabile il ricordo di quei giorni, legato a una mia personale felice esperienza artistica per merito della sensibilità di Gino Iuppa- volto bruno, carattere affabile, sorriso da hidalgo catalano- che volle affidarmi la cura della scenografia per la serata clou della premiazione, iniziata uno stupendo pomeriggio di Luglio e conclusasi, a tarda ora, tra una folla festante, sognante e stordita non ancora abituata a “kermesse” notturne. Fiducia che non delusi, ancorando la simbologia sinergica tra cinema e sviluppo turistico della montagna a due garrule baite e a un abbozzo di palo della linea elettrica da film della nuova frontiera, come un’ antenna esplorante il futuro.
Se questa esperienza artistica, per me, allora giovanissimo, dibattuto tra due imperiose passioni: la pittura e il giornalismo, fu molto gratificante; la sorpresa più bella, più educativa di quella circostanza- non trovo aggettivi migliori per definirla- fu la conoscenza di un mito, del pioniere, del profeta, del “gran signore” di Laceno: Aniello Capozzi. Figura che avrebbe potuto occupare un posto di rilievo in un’opera di Michael Blake, autore dell’insuperabile romanzo “Balla coi lupi” o di un lungo racconto di Mario Rigoni Stern, come uomo di azioni, di utopie e di rispettosa contemplazione.
In anni, in cui l’ Irpinia aveva ancora i colori dominanti del mondo bucolico e della ricostruzione, il bianco delle cave di pietra, il grigio cotto delle rotabili polverose, il nero degli “scialli erranti” tra campagne e usci, ma anche le calde tonalità delle memorie, i pastelli di Giuseppe Casciaro, il verde bosco di Michele Lenzi, l’ocra vivace, i toni forti e sanguigni di Luigi Crisconio, sempre vivi nel ricordo di Montella, Bagnoli, Nusco e Sant’Angelo; e le montagne erano ancora il “regno” di spaccalegna, di cercatori di fragole e di funghi, di estive transumanze, di tintinnìi di campanacci, quest’uomo- nel rispetto di un sacro, incontaminato scenario- vide altro ancora. Sognò una montagna di escursioni, di relax per un turismo portatore di risorse e rispettoso della natura: un futuro di lucenti piste innevate, che, dopo lente, sudate fatiche divenne realtà. E fu il “boom”.
Tutto nacque in una taverna- baita, osteria e locanda , rifugio e osservatorio: la “Taverna di don Aniello Capozzi”. Don Aniello, scritto così, però da pronunciare, di filato come una filastrocca di cantastorie, da leggenda senza fine; da qui, dal suo regno, indicato da una segnaletica a caratteri primitivi cuneiformi, in un angolo vicino a un bosco di abeti fitto, da lupi, cominciò la sua grande avventura. Volto asciutto, arguto e spigoloso da pioniere, colletto gualcito e lindo, rigorosamente privo di cravatta, capelli fulvi da pastore irlandese, un perenne vestito di panno scuro, personaggio di poche parole e di severe abitudini, generoso e cortese, di incrollabile volontà; dal suo ritratto, si capiva che Laceno aveva già quello che gli serviva: il suo incrollabile e decisivo profeta.
Profeta, sentinella, oste, eremita, artista, fotografo e mecenate, la sua “Taverna” divenne una vulcanica fucina : oltre a sfornare piatti dell’antica e squisita sobrietà contadina, tali non per invenzione ma per tradizione, spesso diventava luogo di dispute, di incontri e confronti, anche scontri sull’avvenire di Laceno, di consulti e convegni promozionali senza hostess, coupon o cioccolatini. Insomma una ricchezza di essenziale fervore montanaro.
La gente, quale che ne fosse la provenienza, si dava appuntamento sul Laceno con una parola d’ordine: “Vediamoci alla taverna Capozzi”, un impegno comprensivo di prenotazione e di un “pacchetto”, allora un termine ancora sconosciuto nel linguaggio turistico, di gentilezze, cortesie, dolcezze e squisitezze. Vi si pranzava, discuteva; lui, il capo, il condottiero, ne seguiva i discorsi, moderava qualche tono acceso e attizzava la legna nel camino, poi con il flash della sua fedele Reflex e una sintesi giudiziosa traeva le conclusioni, che decisero, passo dopo passo, il destino del pianoro.
Là dove c’era la “taverna” cominciarono ad allinearsi chalets , baite, villini, ristoranti, complessi alberghieri; si tracciarono strade, piste e “skilift” sui crinali dei monti. Il resto lo fecero la neve copiosa e la saggia tenacia contadina. Le vecchie ristrutturate mulattiere “Quercia di Loica”, “Colle Mulella Vallepiano”, “Costa del Cupone”, “ Piana dei Vaccari”, “Colle delle radiche” diventarono la rete di un serio decollo turistico. La sfida quotidiana di don Aniello alle istituzioni pubbliche, spesso inceppate da “lacci e lacciuoli”, nonostante una burocrazia ottocentesca, poteva contare le prime importanti vittorie. Più aumentavano gli ostacoli e più le difficoltà ne stimolavano i progetti. Don Aniello in mezzo ai difficili cantieri del decollo, continuava a guardare sempre più in alto: sapeva che era il tempo di aiuti intelligenti e bussò alla porta giusta, a quella del mitico presidente della Cassa per il Mezzogiorno, Gabriele Pescatore, serinese purosangue. Per avere ancora una volta ragione.
Quando il presidente gli rispose, dando via libera a nuove opere, a nuovi traguardi, lui gongolò dalla gioia, e soddisfatto non faceva che ripetere per giorni il proverbio: “Piu alto è il giunco, più basso si curva”, per dire che il meglio è sempre frutto della intelligenza che sa essere umile e flessibile. E così mentre sul Laceno insegnava a far turismo, a smuovere gli ostacoli anche attraverso il ricorso alle parabole, come quella appena ricordata, a trasformare un immenso stazzo in un polo turistico d’eccellenza, la moglie, la maestra Vincenzina Lepore, buona e paziente compagna di un’ operosa e lunga vita, giù a Bagnoli, educava i bambini delle elementari come diventare degni “alunni della montagna”, vicina e amica, una montagna particolare e bella che, alla fine del ’400, ispirò anche la popolosa pattuglia di umanisti napoletani, ospiti dei signori Cavaniglia nel castello di “Bagnuolo”: dal Sannazzaro al Pontano.
Le schiere di turisti vi giungevano a cospicui flussi dentro goffe e azzurre corriere . Con il “circo neorealista” di Camillo Marino e Giacomino D’Onofrio, salirono lassù e ne rimasero incantati i big del Cinema, della Cultura, dello Spettacolo, Pier Paolo Pasolini, Gillo Pontecorvo, Cesare Zavattini, Carlo Lizzani, Mario Monicelli, Lydia Alfonsi, Nanni Loy, Lando Buzzanca, Claudia Cardinale, Domenico Modugno, Maurizio Corgnati, una giovanissima Milva e tanti altri ancora.
La “Taverna” fungeva da stazione, salotto per arrivi e partenze, anche boutique e galleria d’arte. Al “suo signore”, guardato come un oracolo, con rispetto e ammirazione, molti chiedevano il segreto della scommessa solitaria e vincente. Lui calmo, olimpico, dalla semplicità disarmante, rispondeva: “Chi s’avoza matina , s’abbusc’ ’o carlino”. Anche il proverbio prese il volo. Scolpito su un “pignatiello” con la firma autentica di don Aniello, se lo portò “Mister volare”, il travolgente Modugno.
Negli anni in cui il divismo impazzava, e per avere un autografo bisognava appostarsi per ore dietro un codazzo di fan e “press-agent”; quassù a rilasciare autografi ai grandi artisti, a cambiare le leggi della popolarità, c’era solo lui, il “pioniere di Laceno”. La leggenda si diffondeva, nel segno di una fortuna e di una stima conquistate con fatica e, per questo, ancora più ammirate. Da ogni parte d’Italia, arrivavano alla “Taverna Capozzi”, premi, cimeli, riconoscimenti, prenotazioni ; in vecchie scansìe, usate come bacheche, si moltiplicavano targhe, titoli di cavaliere, commendatore, Grand’ufficiale, una valanga di encomi, auguri e di belle parole, di giornali e riviste. Omobono e i grandi caricaturisti del “Tartarino”, straordinario periodico umoristico dell’Avellino “nobilissima” – “punzonatura” da Lanzara, “pranzo” da Sofia o Barone, duelli al sole tra Grimaldi e Scalpati, “discese” libere al “Corso” di Ciccio Amatucci e Pippo Di Jorio - gli tappezzarono la “Taverna” di gustose caricature, ma lui non cambiò di un millimetro il suo sobrio percorso di vita.
Ogni mattina, all’alba, a bordo della mitica 500 berlina, guidata dal nipote Raffaele, raggiungeva il paese o s’avventurava nelle masserie alla ricerca di prodotti genuini: con un solo vezzo, irrinunciabile e vitale, un “giro di ronda” nel pianoro. Poi di nuovo alla taverna, a imbandire i tavoli di castagno stagionato, verificare varietà e sapori del menu: ravioli, funghi, zuppa di fagioli, fiocchi di tartufo, prosciutto fiammante, torte di miele, pane nero, fragoline di bosco al maraschino: il ben di Dio preparato dal cuoco Pasqualino, che portò il broncio per settimane perché osarono chiamarlo “chef”. Così, ogni giorno, anche nelle feste comandate e con la tormenta che fischiava minacciosa.
Poi a sera, stilato il bilancio del giorno, un ultimo pensiero a quello da fare l’indomani, dopo una rigorosa raccomandazione in cucina di mettere a bagno i fagioli per la “zuppa Raja Magra”: fagioli lessi, olio, aglio, origano del Cervialto, subito a nanna con il libro dei Promessi Sposi aperto, ad attenderlo. La lettura del Manzoni , un grande che amava, lo rassicurava, perché credeva nella grazia del Signore e della Provvidenza. Sempre cosi fino alla soglia dei novanta, senza perder mai il segno e il senno. Una sola volta don Aniello si fermerà. Ne avrebbe fatto volentieri a meno, ma dovette ubbidire: a convocarlo in Cielo era stato “personalmente” il Padreterno e non potette dire di no. Era il 21 dicembre del 1988, sul Laceno nevicava e lui, sul letto del delirio, raccontava chi gli fu vicino: “Pareva ballare con i lupi, con quegli occhi, in cui si vedevano i riverberi delle calde sere di montagna”.
Se “il ballo con i lupi” è leggenda di montagna; la storia di don Aniello Capozzi è poesia epica, leggenda a tutto tondo, fatica e generosità, senso del dovere e altruismo. E’ stato un bene ricostruirla, scandirne mete e conquiste, giorni, sogni e realtà, in un album di memorie e di immagini uniche, come questo che vi presento, voluto dal filiale amore del nipote Tobia Chieffo.
Era la testimonianza di antichi valori e di buone memorie che mancava ed era fortemente dovuta al “signore dei boschi”, al pioniere di un’ avventura coraggiosa, partita dalle prime “casette alveare” di Laceno e proiettata, come poi è stato, verso successive mete, prospettive sempre più concrete, per farne la più moderna stazione invernale del Sud.
Qui ogni pagina esalta la vita di un uomo, di grandi visioni , di fecondo intuito e di tenace tenuta, un uomo d’acciaio, come quei cento auspicati da Guido Dorso per un Sud nuovo, dallo sviluppo auto propulsivo, non effimero. Quanta lungimiranza.
Le foto sono specchio della realtà; e lo sono ancora di più, in questo pregevole volume per la testimonianza fedele che ci rende di tempi, in cui non vi erano vili trucchi e maldestri taroccamenti, oggi purtroppo di moda per volgari agguati.
Bisogna essere molto grati al curatore del libro, che non ha trascurato nulla, riuscendo nell’intento di definire il vero ritratto del grandissimo zio. In ogni immagine ci sono significativi dettagli, per riaffermare il carisma di Aniello Capozzi, che è la storia di Laceno; e, come tale, è giusto che il suo ricordo si diffonda nelle scuole, quale esempio di una cultura del fare, di quell’ altruismo edificante e concreto , di cui avrebbero tanto bisogno le nostre terre, i nostri amatissimi paesi.
Spero, nel concludere le mie note d’affetto e di gratitudine- che quest’avventura esemplare cosi ben illustrata e ricostruita dal volume curato da Tobia Chieffo- che mi ha fatto evocare una delle più belle estati della mia giovinezza, possa servire da rinnovato stimolo a realizzare un lontano auspicio del caro e compianto collega, Bruno Petretta, che propose la costruzione sul Laceno di un monumento, in omaggio ad Aniello Capozzi, di quel regno, di cui Bruno aveva conosciuto, amato e descritto la genuina semplicità.
Con questa dedica essenziale e riconoscente:
“Al ricordo grato di Aniello Capozzi, coraggioso pioniere del Laceno, che qui visse e operò. Tu, o turista, che arrivi quassù, per immergerti in un paesaggio di salutare pace, ricordati che quanto vedi e ammiri è dono del Signore ma anche frutto di menti e mani operose” . (DA "IL CORRIERE"
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