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Il Castello Longobardo di Montella

Un antichissimo sistema difensivo:
il castello della rotonda
del prof. Giuseppe Marano

Sui castelli del gastaldato di Montella non esiste a tutt'oggi uno studio sistematico e per così dire definitivo, per cui la fonte più attendibile per documentazione ed impianto scientifico resta l'opera dello Scandone (L'Alta Valle del Calore) il quale fissa nell'849 l'anno determinante del riassetto politico e territoriale del gastaldato di Montella, che "con tutti i suoi castelli" viene assegnato al Principato di Salerno a seguito appunto della divisione del Ducato di Benevento in due Stati indipendenti: il Principato di Benevento e quello di Salerno.

Quindi Montella con i suoi castelli costituiva un sistema difensivo di estrema importanza sia perché collocato a guardia di confini di Stato, sia perché in posizione strategica, dominanti assi viari obbligati costruiti dalla natura prima, e sfruttati e consolidati dall'uomo poi. Basti ammirare da un picco elevato il maestoso anfiteatro della Valle del Calore per individuare questi punti cruciali di passaggio di ieri e di oggi: lo spartiacque di Nusco a nord-est, ed il valico di Cruci d'Acerno a sud-est. Non per nulla a guardia del primo passaggio, dalla valle del Calore a quella dell'Ofanto, sorgevano due poderosi bastioni: il Castello di Nusco e quello di Oppido (il secondo testimoniato solo dal toponimo, il primo dai ruderi visibili sulla sommità del paese).

 

Lo Scandone ricorda opportunamente altri fortilizi, ma a noi preme soffermare l'attenzione sui punti, non a caso "cruciali", dei due "colli di bottiglia" ricordati. Il valico di Cruci d'Acerno era dominato dal castello della Rotonda sul quale ci soffermiamo perché ingiustamente poco conosciuto. Infatti esso è stato per così dire nobilitato e reso famoso nella storia da un memorabile fatto d'arme di cui fu teatro o meglio ... "vittima" nell'anno 1076. Sulla base di una sicura ricostruzione storica il castello venne cinto d'assedio e distrutto da Roberto il Guiscardo, diretto alla conquista di Salerno, dove il cognato Gisulfo resistette per ben sette mesi, difendendosi strenuamente al riparo della torre maggiore del Castello di Arechi, che ancor oggi si ammira nello splendido restauro affidato dalla Provincia alla Soprintendenza.

Intelligentemente il condottiero normanno voleva liberare le "montuose spalle" a nord di Salerno dalle minacce più pericolose: la più temibile era costituita per l'appunto dalla poderosa presenza di quel fortilizio longobardo che costituiva, integro, una terribile lancia puntata alle spalle.

Quei miseri resti di mura, pur mastodontiche, se ben si osserva, riecheggiano la musica maliosa di un passato che va onorato e non dissacrato nell'abbandono più bieco ed ottuso per quelle poche preziose reliquie in balia dell'implacabile e spietata consunzione del tempo. Anche noi per rendere omaggio al luogo e minimamente "compensarlo" della immeritata incuria, ci siamo recati con un gruppo di scolari in una breve escursione. Abbiamo constatato innanzitutto che quello che resta del fortilizio - con tutta la collina, a forma di cono perfetto, su cui sorge, cade in proprietà privata. I fianchi del colle sono impietosamente feriti da una strada che li incide fin sulla cima. I ragazzi stessi consideravano che se quelle "quattro pietre" le avessero avute gli Svizzeri o i Tedeschi, avrebbero avuto ben altro trattamento. Comunque le mura perimetrali sono ancora esistenti, qualche blocco è rotolato a valle. Visibili i fori di "emplekton" che li attraversano in tutto lo spessore e che hanno consentito la datazione coeva al tempo del Castello del Monte di Montella. Questi fori testimoniano l'antica presenza di tiranti lignei (ovviamente dissolti col tempo) che fissavano le fiancate delle "casseforme" in cui si versava la malta mescolata a pietre: infatti sono visibili sulle fiancate di vari castelli della zona. Dall'alto si ammira un panorama unico: si tiene sott'occhio a sud-ovest il valico di Croci d'Acerno, vicino; l'antica strada vitale di comunicazione dal Tirreno all'Adriatico che si snoda a mo' di collana dal valico e corre da un lato lungo il versante di Montella dall'altro lungo quello di Bagnoli, per ricongiungersi poi al valico di Nusco nei rami principali. In quest'ultima direzione si vede pure biancheggiare Bagnoli.

Certo sarebbe auspicabile un più degno destino per questo angusto fortilizio che può infondere ancora in chi non ha perduto definitivamente la capacità di ascoltarla, la sua antica voce.

Un aspetto poco trattato o addirittura lasciato in ombra dagli storici, ma non meno interessante e senz'altro più suggestivo degli altri, è senz'altro quello della comunicazione in codice, a distanza che intercorreva tra i vari castelli collegati in un sistema di controllo del territorio estremamente efficace. Dalle nostre dilettantistiche osservazioni condotte sul campo durante escursioni, abbiamo potuto rilevare che tutta la zona corrispondente grosso modo al Ducato Longobardo beneventano e successivamente ai Due Principati (di cui si coglie un'eco nell'intitolazione della strada nazionale omonima, l'Avellino-Salerno) era "geometricamente" sottoposta ad un vigile controllo dall'alto da un sistema di castelli dislocati ad una costante distanza ed in postazione strategica (queste due esigenze erano normalmente egregiamente contemperate). Quindi il nostro territorio era vigilmente scrutato da penetranti, invisibili "occhi d'aquila" annidati sulle alture.

Questa impressione può essere suggestivamente verificata considerando almeno due di questi manieri: quello di cui abbiamo già discorso, della Rotonda e quello del Montella. Se si percorre il tratto d'Ofantina da Montella a Nusco, quella collina sormontata dalla Rotonda emerge e spicca come un cono perfetto nella "forcella" dei due versanti di Croci d'Acerno: a veder bene, sembra un mirino d'un fucile puntato lungo tutto il raggio dell'Alta Valle Calore: un esercito ostile proveniente dalla valle dell'Ofanto, sarebbe stato subito avvistato e segnalato. Come? Ebbene qui ci soccorre nientemeno che Dante in ben due punti del Poema Sacro: Inferno, canto VIII, vv. 1-6 e canto XXII, v. 8, laddove si accenna esplicitamente a: "...cenna di castella". Nel passo precedente infatti lo spaurito pellegrino Dante, oppresso dalla tenebra infernale, vede accendersi un lumicino da una torre vicina, cui risponde da lontano un'altra fioca accensione. Certo quel barlume di luce rischiara un po' la tenebra spessa della paura, ma è una breve illusione perché in realtà piomba immediatamente sulla scena l'orribile guardiano infernale Flegiàs, richiamato appunto da quei segnali di fuoco. Non molto dissimili da questi dovevano essere le comunicazioni visive su codice convenzionale tra castello e castello: il "telegrafo ottico" di cui si è perduto il segreto: di giorno avvenivano "a specchio", di notte con candele o torce...

Nel torrione del Castello del Monte forse abbiamo individuato la finestrella delle segnalazioni che "incornicia" perfettamente il castello frontale di Bagnoli Irpino: è stata una suggestiva scoperta. Come segnalava a Montella la vedetta della Rotonda, un eventuale assalto dalla valle del Sele, essendo Montella preclusa alla vista dal massiccio del Salvatore? La triangolazione ottica avveniva con Bagnoli Irpino, ma non direttamente, riteniamo, in quanto, almeno a quanto abbiamo potuto constatare, il Castello di Bagnoli (non quello Cavaniglia - più recente -) non è visibile dal fortilizio, allora era necessaria la mediazione di un segnalatore intermedio, quale poteva essere uno dei tanti "Turricieddri" che sorgono ancora diruti intorno al paese. Uno di questi, in ampia posizione dominante, è stato con ogni probabilità da noi individuato su uno sperone roccioso in prossimità delle sorgenti del Muliniello.

In questo tipo di ricerca la fantasia deve supplire la carenza di precise basi documentali secondo la categoria, nobilitata dal Manzoni, del verosimile ove convive l'invenzione e l'aderenza alla realtà dell'epoca ricavata da un riscontro su vari piani analogici culturali ambientali, architettonici, toponomastici, letterari. Si tratta di una prospettiva particolarmente creativa e pertanto stimolante e gratificante la ricerca dei ragazzi in specie, che avvertono la storia come "una bestia nera". Un ragazzo ad esempio, a conclusione di un nostro discorso sui castelli e la loro funzione strategica di controllo del territorio, ha rilevato, con piacevole sorpresa per noi, che il Castello del Monte, non a caso è stato costruito su quella posizione dominante: infatti esso dominava oltre che direttamente e materialmente l'arteria che via Monte-Verteglia, portava a Serino-Salerno-Avellino (biforcandosi) Napoli, controllava "visivamente" anche l'importantissimo nevralgico valico di Croci che infatti si domina dal Castello. Inutile sottolineare la portata viaria di questo nostro valico. Molte altre congetture pertinenti o no - non si può giurare, ma comunque dotate di un minimo di razionale plausibilità - si possono affacciare

Ad esempio tornando al nostro fortilizio della Rotonda, il nostro gentile accompagnatore Sig. Ferruccio Bosco ci ha informato che i ruderi di una costruzione un po' discosta e sottoposta al fortilizio, sono di una Chiesa e così comunemente si ritiene, secondo forse una tradizione orale, perché di documentario a riguardo non c'è nulla. Ebbene, noi osservando l'assetto geomorfologico della zona, propendiamo per un'altra ipotesi: che si tratti di un avamposto di guardia, sorta di corpo avanzato o rivellino a maggior protezione lungo la direttrice sud-est della fortezza. Se non vogliamo andar molto lontano, basta considerare che la Chiesa o Cappella del Castello generalmente era costruita all'interno del castello o della cortina muraria. L'ipotesi più probabile invece è che si tratti di un avamposto strategico, o rivellino a guardia del vallone sottostante non visibile dall'alto della Rotonda.

La natura sin dall'inizio, ha offerto all'uomo come strade naturali, appunto, le vallate, che hanno per così dire "catturato" il suo passaggio, come un corso d'acqua... Possiamo dire che anche le strade subiscono col tempo una metamorfosi; strada, "stratula" ('piccola strada), tratturo, carraro, via regia; cambiano i nomi, i suoni, i "flatus vocis", ma anche la struttura (basti confrontare qualche raro frammento superstite dell'Appia Antica, con quella attuale!), ma la strada o le strade, sempre di lì passano: dove il passaggio lo ha imposto la natura! E' il caso di dire che la storia si ripete, anche in questo specialissimo caso, perché la sostanza delle cose rimane la stessa al di là dei cambiamenti "superficiali"; si ripete perché "le vene di fondo" attraverso cui passano gli uomini, non solo col fardello fisico; le strade sono sempre lì. Una di queste costanti era appunto l'obbligatorietà del passaggio. Allora nel tardo periodo longobardo, inizio normanno. intorno all'anno cruciale per il destino dei nostri castelli e dei loro signori, cioè il 1076, allora dicevamo, come dopo mille anni circa, passava una strada maestra, anzi un fascio di strade che si unificavano necessariamente in quel punto obbligato: nel valico di Cruci di Acerno, per diramarsi nella Valle del Calore, una volta superata la stretta. Ebbene lì era indispensabile un presidio, e la collina conica della Rotonda, sorgente a ridosso, era un formidabile "guardiano" designato dalla natura. Non a caso lì, i Longobardi "segnarono i loro riguardi", eressero il poderoso fortilizio chiamato Rotonda, non tanto da una improbabile e non attestata torre cilindrica, quanto da tale conformazione che assumeva vista da lontano la struttura difensiva.

I Longobardi la difesero strenuamente tentando di sbarrare il passo a Roberto il Guiscardo che, come abbiamo visto, con un agguerritissimo esercito marciava contro Salerno dove il cognato Gisulfo resisteva al sicuro della "turris maior' (torre maggiore) del Castello (ora detto di Arechi) che costituiva l'ultimo poderoso baluardo della resistenza longobarda in Italia Meridionale. Con la sua incontenibile onda d'urto il Guiscardo spazzò via la nostra Rotonda dopo aver messo a ferro e fuoco Conza della Campania e S. Agata di Puglia distruggendo i rispettivi castelli.

Dopo un millennio, meno qualche anno, discendenti di quell'antico ceppo germanico, i Tedeschi, sbarrarono nuovamente quel valico, sistemandosi a riparo delle mura perimetrali (quel che restava) della Rotonda, per contrastare la straripante avanzata della va Armata Americana del Gen. Clark, che procedeva lungo l'attuale nazionale: Bellizzi, Montecorvino, Acerno, Montella. Ecco che le strade s'incontrano nella storia. Ed anche gli uomini. Allora, nel 1076, come dopo un millennio, il nostro "povero volgo disperso che nome non ha" (che tanto faceva penare il buon Manzoni, e non solo lui), faceva da spettatore smarrito all'urto fra giganti. Eserciti stranieri si scontravano ferocemente sul nostro suolo allora come ier l'altro, Longobardi contro Normanni, Tedeschi contro il nucleo anglosassone di Americani ed Inglesi, parenti stretti del Nord. Da una testimonianza indiretta abbiamo potuto ricostruire l'ultimo scontro bellico alla Rotonda, quasi che il vetusto fortilizio non si rassegnasse alla definitiva estinzione per mano di Roberto il Guiscardo... ma volesse prendersi una rivalsa dopo un fiume d'anni... Ebbene il padre di un alunno che frequentava qualche anno fa la scuola media di Bagnoli Irpino ci ha raccontato che agli inizi degli anni '50 era degente presso l'ospedale di Torino. Quivi conobbe un americano che era stato a Bagnoli nell'ultima guerra. L'ex combattente gli raccontò in particolare che le schiere avanzate dell'armata furono inchiodate sul valico di Croci da un preciso, terribile fuoco d'interdizione proveniente dall'altura di fronte che era la nostra Rotonda.

Solo dopo un tremendo cannoneggiamento dalle retrovie, quell'accanita resistenza venne neutralizzata e le sue truppe ebbero via libera per Bagnoli Irpino. Il militare americano, che era un capitano, non sapeva se i tedeschi si erano ritirati strategicamente o ci avevano rimessa la pelle lassù. Non aveva potuto soddisfare tale curiosità. Certo è almeno curioso (non diciamo suggestivo, trattandosi di guerre che escludono "a priori" questo edificante aggettivo) notare questo reticolo impalpabile di fili che legano l'ieri alloggi, lungo cui corre intrecciandosi continuamente la chimerica corrente della vita. Un'altra piccola analogia tra i due termini storici di confronto: il 1076 Roberto il Guiscardo non poteva lasciarsi quel cuneo ribelle alle spalle del nostro fortilizio, magari aggirandolo; così pure mille anni dopo, gli Americani non potevano lasciare integra dietro di loro quella micidiale minaccia, 'bypassando" lateralmente, come si dice oggi, il fronte della Rotonda. Questo passato che ritorna sotto mentite spoglie è stato da noi ulteriormente riscontrato in un'escursione in un'altra suggestiva località, non lontana, lungo la stessa direttrice Montella-Salerno. Non a caso abbiamo detto "suggestiva": oltre al magnifico aspetto paesaggistico, il toponimo ci ha "suggerito" l'escursione.

Si tratta di una sommità montana, caratterizzata da un enorme blocco calcareo che a mo' di immane torre sovrasta l'alto Tusciano ed in particolare le due direttrici viarie convergenti sempre nel nostro "collo di bottiglia" di Croci d'Acerno: il nome riportato sulla cartina dell'I.G.M. è tutto un programma: Toppo Castello. Ebbene quel nome ci ha instillato la curiosità, ci siamo inerpicati ed abbiamo guadagnato una cima ed un panorama sorprendenti. Non solo, ma "desiderata sorpresa", abbiamo rilevato e filmato (a disposizione per pochi, autentici "amatori"!) inequivocabili vestigia di un antico fortilizio la cui tessitura muraria presentava uno stile del tutto simile a quella del Monte e della Rotonda, c'erano pure i nostri fori da "emplekton". Un altro bandolo di quel filo sottile della memoria e delle cose, che supera il baratro di un millennio, l'abbiamo trovato ancora lì, sulla cima di quel roccione squadrato (che dal lato sud cade vertiginosamente a piombo nella gola del Tusciano): raccogliamo qualcosa da terra, ci accorgiamo subito che è un piccolo cimelio: un bossolo annerito ma in perfetta conservazione, affiorante dal terreno, sul cui fondello circolare, una data, 1942, ed una "W" (Wermacht: Esercito tedesco).

Anche lassù dopo un millennio tornò il nordico invasore delle nostre terre a scrutare l'orizzonte con strani "apparecchi agli occhi ed alle orecchie" che portavano la voce da enormi distanze... Quel bossolo era il nostro "cartuccio" col quale costruivamo le pistole che sparavano davvero, il grilletto era costituito dalla molletta o "pizzicaròla". Qualche volta saltava tutto e qualcuno rimaneva cieco, ma anche noi avevamo diritto alla nostra piccola guerra.

Le nostre montagne custodiscono itinerari preziosi (le vene del tempo) dove storia e natura si incontrano in un sublime connubio; in esse, come nel cavo di un'immensa conchiglia, è racchiusa la voce del passato che si concede al caro "innamorato", che sa ascoltare.


 

Tra il 1979 ed il 1992 il prof. Marcello Rotili ha curato una serie di ricerche archeologiche nel Castello del Monte di Montella (AV). La campagna di indagini scientifiche si incardinava in un ampio studio da lui condotto in ordine alle grandi migrazioni in epoca alto-medievale, in particolare di Longobardi, Goti e Gepidi.

Le lunghe e articolate indagini evidenziarono che nel VI-VIII secolo il sito di Montella fu interessato da un insediamento accentrato sorto in seguito allo spostamento della popolazione dal fondovalle all’area naturalmente protetta del Monte. Documentato da strutture abitative, dai resti di una chiesa e dalle sepolture scavate in prossimità di quest’ultima. Entro la metà del IX, il villaggio acquisì poi connotati difensivi e militari in relazione all’istituzione del gastaldato.

Nel XIII secolo, dopo l’edificazione del donjon sulla sede fortificata del gastaldo, il sito assunse le forme con le quali è pervenuto, accentuando in parte la connotazione di residenza signorile rispetto ai requisiti difensivi che tuttavia non vennero mai meno.

Nell’area di circa tre ettari, strutturata come parco per gli svaghi e gli ozi signorili, fu sistemata la strada d’accesso al castello e costruita la nuova recinzione che gli scavi hanno mostrato insistere sui resti della struttura fortificata di IX secolo; furono altresì realizzate le rasole, le lunghe ed ampie terrazze sostruite da muri e attraversate da due acquedotti con vasche utili anche ai fini della diramazione delle condotte.

Il castello fu definitivamente abbandonato a seguito della spedizione di Lautrec del 1528.

Dopo il suo abbandono, l’impiego dell’area proseguì con la  costruzione, a fine XVI, del convento e della chiesa di S. Maria del Monte e il parco divenne un’area destinata a scopi produttivi della

nuova istituzione (2).

Durante la lunghissima campagna di studi, durata circa tredici anni, il lavoro di documentazione delle emergenze archeologiche fu per un periodo affidato all’arch. Marco Carpiceci, oggi professore associato presso il Dipartimento di Rilievo Analisi e Disegno dell’Ambiente e dell’Architettura della Facoltà di Ingegneria dell’Università di Roma La Sapienza, con cui ebbi l’occasione di collaborare a questo progetto alla fine degli anni '80. L’incarico affidato riguardava la schematizzazione dell’area del castello sotto il profilo topografico al fine di una corretta georeferenziazione dei diversi saggi archeologici che si svolgevano su di un ampio territorio terrazzato di circa tre ettari. A tale attività si affiancava la documentazione di dettaglio degli strati oggetto di indagine, svolta graficamente e fotograficamente. Per quanto attiene in particolare quest’ultimo aspetto proposi e realizzai un strumento consistente in un traliccio metallico lungo circa 4 metri, munito ad una estremità di un giunto stabilizzato per gravità in grado di mantenere costantemente in posizione orizzontale il piano focale una apposita fotocamera. L’apparecchio, formato 35 mm, era equipaggiato con un’ottica supergrandangolare da 18 mm e dotato di motore di avanzamento film e scatto elettronico comandato a distanza via filo. La documentazione fotografica dei saggi poteva in questo modo avvenire da una posizione zenitale, punto di vista privilegiato per lo studio e l’interpretazione delle tracce residue delle strutture murarie e dei piani di malta utilizzati spesso come superfici di calpestio.

(1) docente di Antichità e Archeologia Medievali, Università Federico II di Napoli.

(2) Cfr. a questo proposito: Immacolata Gatto, Attività produttiva nel castello del monte di Montella (AV): la calcara nella trincea 3/87., (doc. pdf. All’indirizzo http://verderosa.files.wordpress.com/2008/10/pianta-archeologica-castello.pdf)

Montella, Castello del Monte. Area murata del Monte, planimetria generale.

(da: Gatto, ibidem)

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