Magica Irpinia: Montella di Massimiliano Carullo
Esiste un luogo, in Irpinia, ove è possibile respirare l’aura mistica dell’Eterno e avvertire la presenza del Divino. Ove è possibile fare esperienza del superamento dei limiti umani e entrare in contatto con il Trascendente. Ove è possibile percepire la propria mano in quella del Cristo, che sceglie e conduce te, proprio te, nel suo cammino di luce. È il miracolo che si verifica nel monastero di San Francesco a Folloni, un luogo che parla di semplicità francescana e di ideali mistici, un luogo che sembra risuonare dell’antico canto lento dei frati, rischiarato dalla discreta luce ambrata delle lampade ad olio.
Dichiarato monumento nazionale, il convento deve il suo nome al bosco di Folloni, dove nel 1222 il monastero venne fondato, a quanto sembra, dallo stesso San Francesco, di passaggio verso il santuario di San Michele sul Gargano. La leggenda vuole che San Francesco, giunto a Montella, avesse chiesto ospitalità al feudatario presso il Castello del paese. In assenza del signore, il castellano, ignaro della fama del poverello di Assisi, lo scacciò. Francesco, insieme ai suoi confratelli, si rifugiò allora nel bosco di Folloni, all'epoca infestato dai briganti, e passò la notte sotto un leccio. Quella notte la neve cadde abbondante, ma non là dove i frati dormivano. Alla notizia del miracolo, il castellano chiese a San Francesco di lasciare nel luogo due frati affinché realizzassero un convento, sotto il cui altare il leccio del miracolo verrà conservato come reliquia per lungo tempo. Francesco tornò a Folloni l’anno seguente, mentre il convento si stava costruendo. Poiché le acque del Calore erano torbide, il Santo, per dissetare gli operai, fece sgorgare ai piedi di un cerro secco, a nord del convento, una sorgente, designata ancora oggi col nome di Fontana del Miracolo (di cui non restano che due lati delle mura e la pavimentazione). La santità di Francesco quale alter Christus rifulse ancora nell'inverno del 1224: i frati, rimasti bloccati dalla neve nel convento circondato dal bosco infestato da lupi e orsi, chiesero aiuto al Signore. Ed ecco che, senza che alcuna impronta d’uomo si scorgesse sulla neve, dinanzi alla porta del convento, i frati trovarono un sacco di pane fragrante di freschezza e, sul sacco, il contrassegno dei gigli di Francia. Francesco, che era alla corte di Luigi VIII, aveva affidato agli angeli il pane per i suoi frati, chiesto per carità al re. La tela del sacco fu conservata per tre secoli come tovaglia di altare. Un giorno, un pezzo di quella tela fu rubato da un brigante per rattoppare il proprio mantello. La tela prodigiosa, qualche tempo dopo, protesse il brigante dai proiettili che delle guardie gli avevano sparato contro. La protezione miracolosa convertì quell'uomo di delitti e lo condusse sulla via del pentimento e del perdono di Dio. Di quel sacco portentoso si conservano gli ultimi frammenti nella Cappella del Crocifisso.
Un grande benefattore del convento fu Diego Cavaniglia, che, giunto nel Regno di Napoli al seguito si Alfonso V d’Aragona, fu conte di Montella dal 1477 al 1481. Morto giovanissimo a Otranto nel combattimento contro i Turchi, venne sepolto nel monastero, dove la consorte, Margherita Orsini, fece edificare una cappella e un superbo monumento sepolcrale. Il sarcofago è retto da tre cariatidi che simboleggiano le tre virtù cardinali della Prudenza, Giustizia e Temperanza. La quarta virtù, la Fortezza, sarebbe impersonata dalla statua del cavaliere stesso, la cui militanza per la fede sarebbe richiamata dalle ghirlande di alloro che incoronano la Madonna, S. Pietro e s. Antonio nei tre riquadri del sarcofago e che circondano per tre volte lo stemma dei Cavaniglia. Oltre alla preziosa testimonianza di fede, Diego Cavaniglia ci ha lasciato anche l’unico esemplare al mondo di giornea originale (una sorta di casacca indossata sotto l’armatura), che, portata alla luce in seguito ai lavori di scavo successivi al terremoto del 1980 e datata al 1480, è conservata presso il museo dell'Opera di San Francesco a Folloni. Un’ulteriore campagna di scavi, condotta tra il 2005 e il 2010, portò alla luce le strutture dell'antica chiesa e, sotto il livello del pavimento del chiostro, una necropoli medioevale francescana: taluni dei ventidue corpi, rinvenuti con le braccia incrociate sul petto e un cuscino di pietre e databili dal 1190 al 1550, potrebbero appartenere a quei frati che, insieme con San Francesco d'Assisi, si misero in cammino per diffondere la regola francescana nelle terre di Puglia e che il Santo decise di lasciare proprio a Montella per fondarvi un convento.
I conti Cavaniglia abitarono (come i d’Angiò e i d’Aquino, precedenti feudatari) il Castello longobardo, che, risalente al X secolo e, nei secoli, ampliato e rimodernato, visse proprio con i Cavaniglia il suo periodo più splendido. Ne è testimonianza la presenza nel Castello degli accademici pontaniani nonché di pittori e intellettuali provenienti da diverse parti del Regno (addirittura si narra che Jacopo Sannazzaro abbia scritto, ospite dei Cavaniglia, la sua Arcadia). Ne è testimonianza, ancora, una memorabile battuta di caccia che il castello ospitò nel 1445 e a cui prese parte il Re Alfonso il Magnanimo.
L’incontro miracoloso con il Divino si ripete spesso in queste terre: il Santuario del Santissimo Salvatore, sull'omonima montagna, con il suo settecentesco Pozzo dei miracoli, testimonia il miracolo che sarebbe avvenuto nel 1779, quando, come narra la leggenda, a causa di una prolungata siccità che stava affliggendo buona parte dell’Europa, un gruppo di montellesi si recò al Santuario in pellegrinaggio. L’ascesa al santuario del gruppo di montellesi avrebbe determinato un improvviso aumento dell’acqua della cisterna adiacente alla cappella e, nei giorni successivi, una copiosa pioggia che mise fine al lungo periodo di siccità. Un altro evento miracoloso riguarda la campana del santuario: un noto allevatore di Montella, dopo tanti tentativi andati a vuoto, sarebbe riuscito a trasportare la campana sul santuario del Santissimo Salvatore servendosi di un paio di buoi, che, giunti sulla soglia di quella che è l’attuale gradinata che immette sul Santuario, per nulla affaticati dall’impresa conclusasi positivamente, si inginocchiarono in segno di reverenza, tra lo stupore e le lacrime dei presenti. Da quell’episodio sarebbe nata la tradizione, riconosciuta ancora oggi dai pellegrini provenienti da diversi territori, di percorrere le scale in ginocchio e in preghiera, fino al raggiungimento dell’altare del Santissimo Salvatore.
Non lontano dal Santuario è possibile ammirare il Monumento all’Emigrante, che ha per titolo Il cammino della speranza. Esso, a forma di un albero slanciato, parte dalla base formata da massi di pietra calcarea, simbolo di aridità, sui quali si innestano le radici dell’albero, dalle quali si slanciano gli uccelli migratori carichi di speranza. Il fusto dell’albero, tortuoso e serpeggiante, vuole rappresentare il difficile cammino degli emigranti in terre sconosciute. Dal tronco si protendono volti che richiamano la sofferenza iniziale degli emigranti ma, man mano che si sale verso l’alto, il fusto si apre a forma di calici per simboleggiare la speranza di una vita migliore. Le mani che sorreggono la famiglia, rappresentata alla sommità del monumento, vogliono simboleggiare la solidarietà tra gli emigranti, mentre il fanciullo collocato tra i genitori è simbolo della fertilità e della continuità della vita. La sommità del monumento, con la famiglia unita e felice, vuole rappresentare il raggiungimento degli scopi dell’emigrazione e, dunque, una raggiunta serenità.
Ma questi luoghi sono benedetti anche dalla Natura. È, infatti, un paradiso terrestre quello che si svela allo sguardo: ontani, salici, pioppi offrono ombra amica a chi cerca solitudine e pace; maestosi castagni regalano il prezioso frutto che ha reso Montella famosa nel mondo; boschi secolari proteggono il variegato sottobosco, che, tra il verde delle foglie, vede fare capolino timide fragoline e fiori caleidoscopici, che nasconde funghi profumati e preziosi tartufi, che indossa uno scintillante vestito in primavera, mette un abito appariscente in estate, si veste dei colori dell’arcobaleno in autunno, si infila in un candido manicotto in inverno. Mentre il fresco vocio delle sorgenti e l’allegro chiacchiericcio delle cascate creano una magica melodia che riempie il silenzio e giunge all’orecchio di Dio.
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