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Grano, farina, mugnai e mulini di una volta a Montella di Nino Tiretta

Mugnai Montella 01Grano, farina, mugnai e mulini di una volta.    Finalizzata al ricavo e alla produzione della farina, la macinazione del grano e degli altri cereali in origine esigeva un lavoro manuale duro e defaticante nonché strumenti che nel corso dei secoli sono evoluti fino alla “scoperta” del “molitura” vale a dire all’ attivazione e allo sfruttamento di un lavoro meccanico prodotto inizialmente dall’uomo, poi dalla spinta di un animale e, in epoche successive, dalla energia dell’acqua e del vento prima e dall’energia elettrica poi.

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In origine per la macinazione del grano venivano usati i mortai di pietra entro i quali si frantumavano i chicchi dei cereali attraverso pestelli, anch’essi di pietra o legno duro, oppure il grano veniva macinato attraverso rulli che, a mano, si facevano rotolare su una base di pietra.

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Derivante dal latino “mola-molae” quella pietra venne denominata “mola” da cui discende poi il termine “mulino” o “molino”; il termine “mola”, nella sua globalità, sta dunque ad indicare una strumentazione che produce un lavoro meccanico utile sia per la macinazione di cereali e sia per la produzione di farina o di altre materie prime.
Poiché nell’antichità i mulini o le macine per funzionare avevano necessità della forza umana o animale qualcuno riferisce che, “in modo non corretto”, la parola “mulino” possa derivare da “mulo”.
Per estensione il termine “molendinum” (proveniente da “mola”) designò anche la struttura e l’edificio che ospitavano la strumentazione della macinazione del grano e pertanto il conduttore del mulino fu chiamato “mugnaio“.
Al di là di queste sottigliezze etimologiche, c’è da rimarcare il fatto che con il passare del tempo per la molitura si cominciarono a costruire specifiche “strutture” funzionanti con la sola forza dell’uomo e degli animali i quali azionavano le macine, ovvero pietre discoidali affacciate e messe una sopra l’altra di cui, una fissa e l’altra rotante intorno al suo asse centrale.
Quel tipo di macinazione rimase pressoché invariata fino a quando fu introdotto un impianto tecnologico per il cui funzionamento si sfruttava sia l’energia dei corsi d’acqua sia quella del vento, “energie naturali” queste che, in epoche successive, furono sostituite – in un prima fase – con il vapore e – in un’epoca successiva – con l’elettricità per la cui utilizzazione fu poi possibile sviluppare impianti tecnologici più evoluti che consentirono l’impego di macchine decisamente più moderne e funzionali.
E’ fuor dubbio che storicamente il vetusto mulino (sia ad acqua che a vento), nelle sue espressioni più complete, costituisce, a mio avviso, una tra le massime invenzioni tecnologiche non solo dell’antichità, ma anche e soprattutto dell’età medievale e moderna, periodo in cui esso si presentava come una meravigliosa macchina tuttofare soprattutto se considerata nei suoi vari e differenziati impieghi in cui viene a operare.

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Apparentemente il funzionamento di un mulino ad acqua non sembra complesso e la sua straordinaria semplicità è essenzialmente nella forza dell’acqua che, scorrendo o cadendo dall’alto, imprime un movimento rotatorio a una grande ruota di legno munita di ampie pale; quella ruota muove appositi ingranaggi che trasmettono un moto circolare ad una macina di pietra, la quale, a sua volta, ruotando sulla pietra fissa, tritura i cereali.
Resta il fatto che le vicende storiche del mulino azionato dall’energia idraulica nei primi secoli della sua storia sono alquanto frammentarie e poche sono sia le fonti storiche e sia le testimonianze archeologiche ad esso riferite.
Marco Vitruvio Pollione, vissuto nella seconda metà del I secolo a.C. è il teorico dell’architettura più famoso di tutti i tempi ed è lui che parla di mulini ad acqua,
Nel suo “Trattato d’architettura” Vitruvio, dopo aver descritto alcune ruote per il sollevamento dell’acqua, è il primo scrittore romano che (nella prima età augustea e più precisamente intorno agli anni 16-15 a.C.) parla del mulino mosso dall’energia idraulica.
Egli descrive certe ruote costruite sui fiumi le quali, poiché provviste al loro perimetro di pale e colpite dall’acqua, già nell’antica Mesopotamia, le fanno ruotare per semplice spinta della corrente senza ricorrere al peso dell’uomo.
E’ comunque fuor dubbio che l’invenzione del mulino a ruota d’acqua (sia verticale che orizzontale) è avvenuta attraverso molteplici passaggi e successivi modifiche.
E’ noto che la sua diffusione sia avvenuta per gradi, prima nei regni di cultura ellenistica e poi nelle rimanenti terre del mondo romano con preferenza in quelle dotate di grandi fiumi non a carattere torrentizio.
E’ altresì noto che fu comunque durante il Medioevo che l’impiego dei mulini ad acqua diventò comune ed è documentato che ordinariamente i signori feudali riservavano a se stessi il diritto di impiantare mulini traendo da questa sorta di monopolio un reddito, a danno della popolazione, di molto cospicuo.
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Con il trascorrere del tempo la tecnica funzionale dei mulini si evolve e alla fine, rispetto ad altri sistemi, si perfezionarono e si consolidarono due tipi di mulino: quello a ruota verticale e quello a ruota orizzontale.
La fortuna e la diffusione del mulino ad acqua nel corso dei secoli è stata dunque crescente e venne un po’ meno, ma non fu subito incrinata, nella seconda metà del XVIII secolo, quando lo scozzese James Watt costruì nel 1782 la prima motrice rotativa a vapore per mulino da grano.
Da quella scoperta nacque così, dopo alcune incertezze, il “mulino a vapore” che nel corso del XIX secolo e ancor più nel XX secolo, finì gradualmente per soppiantare (unitamente all’impiego del laminatoio) il mulino ad acqua o a vento.
Successivamente, con le molte scoperte sull’elettricità avutesi già nel XIX secolo, avvenne che con la scoperta dei “motori elettrici” – all’inizio del Novecento – l’elettricità sostituì progressivamente le altre e varie forme energetiche (per esempio quella del vapore, da gas illuminante, da carbone, ecc. ecc.) per cui fu l’elettricità ad alimentare (appunto con l’introduzione dei motori elettrici) tram, treni, filobus, metropolitane e la generalità dei macchinari sia industriali che artigianali.
A partire dagli anni 1960 anche le macine dei mulini utilizzarono, adottando nuove tipologie e nuovi macchinari di macinazione, l’elettricità per cui sia il mulino ad acqua che quelli a vento e|o a vapore furono sempre più relegati ad essere una singolare testimonianza storica del passato, monumenti stupefacenti di un tempo che oggi non c’è più.
Argomentando di mulini non è superfluo evidenziare che il loro progressivo incremento di utilizzazione e di diffusione è assolutamente correlato alla cultura e al consumo di cereali e di granaglie di vario genere.
Nella storia del cammino alimentare dell’umanità è noto che, forse ancor prima della scoperta del fuoco, l’uomo, raccogliendo i semi delle graminacee, “scoprì” che questo cibo – rispetto agli altri vegetali – offriva maggiori vantaggi in quanto che quei semi, oltre ad essere più nutrienti, si conservavano a lungo ed erano facilmente trasportabili.
Da ciò discese che i primi sforzi per la coltivazione della terra s’indirizzassero verso i cereali ed oggi, per altre motivazioni similari, oltre la metà della superficie agricola mondiale è coltivata a cereali.
Da alcune ricerche antropologiche sembrerebbe che la più antica forma vegetale piantata dall’uomo sia stata l’orzo, e tracce ritrovate in un villaggio francese attestano questa attività a circa diecimila anni.

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E’ anche noto che – dopo i primi tentativi fatti con l’orzo – le coltivazioni di cereali si estesero in base al clima e al territorio per cui il frumento fu principalmente coltivato nella regione mediterranea, l’avena e la segale nelle aree del nord, il sorgo nel continente africano, il riso in Asia e il mais America.
Coltivato e utilizzato dall’uomo fin dai tempi più antichi, il grano o frumento ha – dunque – accompagnato l’evolversi della nostra civiltà.
Originario, pare, dell’Asia minore, nella zona cosiddetta “Mezzaluna Fertile” posta tra i grandi fiumi Tigri ed Eufrate, il grano è tra le prime piante coltivate dall’uomo dopo il passaggio dallo stato nomade a quello sedentario.
Alcune inconfutabili testimonianze attestano che la coltivazione e la raccolta di questo cereale e la sua susseguente macinazione e produzione di pane sono presenti e si ritrovano sia nell’antico Egitto sia in diverse altre antiche civiltà quali Assiri, Babilonesi e Cinesi.
Adatto ad essere macinato e a diventare farine, il frumento ha, la capacità di dare origine al pane azzimo; inoltre la farina, come è già noto, se mescolata ad acqua e lievitata, dà consistenza ad un impasto da cui se ne derivano pane, paste fresche e dolci da forno che restano alla base della nostra alimentazione, in particolare nelle aree mediterranee.
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Sembra che siano stati gli egiziani a scoprire che lasciando fermentare l’impasto di farina si sviluppa gas capace di far gonfiare il pane; in tal senso in Egitto sono stati ritrovati, in alcune tombe lungo il corso del Nilo, affreschi che ritraggono la coltivazione del grano, la raccolta, la macinazione, la miscelatura e la cottura al forno e in una tomba è stata finanche ritrovata una forma di pane a focaccia piatta di circa 3.500 anni fa.
E’ dunque chiaro che, come s’ è già detto, sia il consumo di cereali e di granaglie di vario genere, sia la generalizzata esigenza di macina del grano, sia il progressivo incremento dei mulini e sia la stessa l’arte della molitura si configurano come elementi e momenti importanti e significativi della civiltà occidentale in quanto che i mulini hanno avuto, nel coso del tempi, incidenze correlate ad interessi d’ordine sociale, politico, economico e tecnologico molteplici e quanto mai varie ed interessanti.

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Anche a Montella, come in tutta la zona mediterranea e dello stesso meridione d’Italia, la coltivazione del grano era assai praticata sin da tempi lontani e costituiva un elemento importate e determinante dell’agricoltura locale.
Ed è così che anche a Montella – agli inizi del secondo millennio – sussistendo la necessità e la pratica della molitura del grano, già funzionavano vari mulini ad acqua, tutti situati, prevalentemente, in prossimità del fiume Calore o anche di corsi d’acqua minori.
Di quegli antichi mulini, ahimè, s’è persa traccia e al giorno d’oggi gli unici ruderi presenti nel territorio paesano si riferiscono esclusivamente a due mulini: “Il mulino del ponte della lavandaia” e “Il mulino ad acqua di Pezzalonga”.
Dei due mulini, il più noto ai montellesi, è senza dubbio alcuno il primo, quello adiacente alla cascata del fiume Calore, quello posto accanto al ponte romanico (denominato per l’appunto della Lavandaia), un ponte ad unica arcata e costruito intorno al I secolo a.C. .
Il Mulino è situato a Nord-Est del centro abitato, in suggestiva posizione sul Fiume Calore, ai piedi del Santuario del SS. Salvatore e la sua immagine – con tutto il contesto naturalistico in cui si inserisce – è ben “documentata” nel suggestivo dipinto (qui riprodotto e conservato nella Galleria delle Belle Arti di Napoli) di Nicola Palizzi, fratello del famoso Filippo.
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Il mulino fu realizzato nel 1565 dal Conte Garzia II, feudatario di Montella, in sostituzione di quello esistente in località Baruso, fatiscente ed esistono documentazioni riferite al ponte medesimo.
Lo storico montellese Francesco Scandone nel terzo volume della sua “Storia di Montella” attesta che i principali problemi costruttivi di questo mulino derivarono principalmente dalle paratie necessarie per disciplinare e canalizzare le acque di adduzione infatti, le piene del fiume rovinavano frequentemente le opere accessorie.
Scandone ricorda anche che nel 1599 fu chiamato l’ingegnere napoletano Giulio Caso a progettare un nuovo mulino e a eseguire un sistema diga-canale capace sia di ammortizzare le piene del fiume e sia ad assicurare una derivazione costante delle acque al fine di alimentare le ruote orizzontali.
Fu così che la paratia, realizzata con massi e lastroni di pietra calcarea, da allora, costituisce una valida testimonianza di ingegneria idraulica.
“…per questo incarico il professionista napoletano ricevette un premio di 50 ducati, una diaria giornaliera di 20 carlini al giorno e spesato di vitto e alloggio per tutto il periodo che rimase a Montella (38 giorni)”.
Questa estate in previsione della stesura di questo articolo ha compiute varie ricerche ed interviste.
Specificatamente dall’architetto Carmine Musano ho avuto, con sua encomiabile cortesia e cordialità, la possibilità di consultare il Progetto del Comune di Montella che, approvato con Delibera n. 27 de 7 febbraio 2007 è titolato “Le pale girano” ed è, come è già noto, finalizzato al recupero del Mulino sul fiume Calore e alla riqualificazione della sua area circostante.
Il progetto contiene interessanti e ricchi elementi tecnici e storici riferiti ai mulini ad acqua e soprattutto descrive dettagliatamente come funzionava in origine il mulino in argomento.
Particolarmente nel “progetto si argomenta del “canale di derivazione” (utile per l’accumulo e il passaggio dell’acqua indispensabile a far girare le macine), dell’impianto e del “funzionamento delle due ruote orizzontali”, delle “macine” (una inferiore, fissa detta “dormiente” e l’altra, superiore detta “movente”),della loro funzione e azione, del modo come avveniva “la molitura”, ne descrive tanti dettagli, ivi compresa la “tramoggia” ossia “il sistema di convogliamento del grano da macinare”.
Oggi quel mulino è ridotto allo stato di rudere ma, come indicato nel Progetto Comunale di cui innanzi, conserva sia le grotte originarie e le due sue ruote orizzontali e sia l’interessante sistema di coni inghiottitoi; vi sono inoltre tracce del canale di adduzione nonché un manufatto in muratura, ben conservato che costituiva – a monte della paratia – la bocca di presa e che recante una pietra incisa con un motto, a me indecifrabile.
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“Il Mulino del ponte della lavannara” è rimasto in funzione fino alla fine degli anni ‘50.
In tal senso ricordo che in quel periodo, avevo allora circa cinque anni – per recarci, insieme a mio zio Matteo (fratello di mia madre Flora) sul santuario del S.S.S. Salvatore utilizzammo il “traino” di Michele Matarazzo e passammo proprio davanti al mulino.
Vi facemmo una breve sosta durante la quale – ricordo distintamente – ebbi modo di assistere alla funzionalità delle macine.
Rimasi colpito dal rumore fragoroso e ritmato dei macchinari nonché dai vari asini che, legati con le briglie ad alcuni anelli del muro esterno, erano lì, mi fu spiegato, per il trasporto dei sacchi di grano prima e di quelli di farina al rientro.
Il mulino era di proprietà comunale tant’è che il mio amico – il barbiere “don Mario” Gambone – mi ricordava che suo padre Raffaele – negli anni “40\45” – era guardia comunale ed era addetto alla “sorveglianza funzionale e gestionale” del mulino.
La gestione veniva assegnata attraverso un’asta pubblica e comunque, come mia ha detto Antonio Gambone, per lunghi periodi il mulino “lo tenne” suo nonno Andrea Gambone che, per la sua imponente corporatura era soprannominato, amichevolmente, “Dreone”.
Nel 1929, morto il vecchio Andrea, nella gestione del mulino gli subentrò il giovane figlio Giuseppe che per l’appunto, mi ha precisato con orgoglio Antonio, lo tenne in funzione fino al 1950, anno in cui suo padre Giuseppe Gambone (anch’egli soprannominato “re Dreone”) attivò, parimenti ad altri mugnai montellesi, un mulino elettrico in zona urbana.
Del secondo ed altro antico mulino ad acqua, quello di “Pezzalonga” ne ha parlato assai dettagliatamente l’amico Tullio Barbone in un suo precedente articolo pubblicato sempre su questa stessa rivista.
Quel mulino era situato nella proprietà degli eredi Bruno (i cosiddetti “mussiniuri”) in una zona posta tra Montella e Bagnoli.
Dalla data incisa sull’arco d’entrata si desume che esso fosse stato costruito nel 1866 ed è accertato che veniva utilizzato prevalentemente dalla popolazione che viveva nella zone rurali circostanti nonché da contadini provenienti, oltre che da Montella, anche da Bagnoli e Nusco.
Il mulino era alimentato da acqua che, captata da un ruscello vicino, veniva convogliata, attraverso un canale in pietra, ad una torre avente la forma di un tronco piramidale.
Mugnai Montella 11La torre – alta circa sette metri ed ancora visibile – funzionava da serbatoio d’acqua e conteneva un’ampia vasca che fungeva anche come una vera e propria riserva d’acqua nei mesi estivi. Quell’acqua – cadendo – alimentava una ruota che, munita di pale, generava (come se già evidenziato in altra parte) il movimento delle “macina dormiente” e “movente” le quali, consentivano, per l’appunto, la macinazione di frumento, di granone, delle castagne di scarto, di vinaccioli e di altri cereali.
Oggi di questo di questo antico mulino restano pochi ruderi avvolti, miseramente da rovi e dall’edera che, ricorda Tullio “……si è abbarbicata ai muri e ha sbriciolato la calce provocandone la rovina”.
Il mulino è stato lungamente gestito dalla famiglia dei “Mussiniori” e precisamente dai fratelli Alfonso e Vincenzo prima e poi dai loro eredi Salvatore e Alessandro Bruno i cui discendenti, in epoca successiva, parimenti ad altri mugnai montellesi, attivarono mulini elettrici direttamente in alcune zone abitative di Montella.
Come già accennato, verso la fine del secondo secolo il sistema di macinazione fu caratterizzato da trasformazioni e perfezionamenti tecnologici rivoluzionari che culminarono, tra gli anni 1870-1880, con la scoperta e con l’adozione, per la “molitura”, della cosiddetta tecnica della “macinazione a cilindri”.
Era questa una tecnica assolutamente innovativa vera e propria che tra l’altro, mostrò (grazie alle iniziali, particolari ed importanti scoperte di Friedrich Wegmann) di presentare, da subito, numerosi vantaggi rispetto a quella “a macine”.

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Questa tecnica, nata a seguito di alcuni tentativi già avvenuti nel Settecento in Inghilterra e in Francia, utilizzava macchinari – ad alimentazione a vapore o, soprattutto, con elettricità – i quali “assicuravano velocità, grande produzione, logoramento scarso, manutenzione poco costosa, facilità di esercizio nonché poco spazio per la macchina, farine più fini e surriscaldamento assai lieve”.
Il laminatoio in sostanza era costituito di due rulli (prima di porcellana e poi quasi sempre di ghisa) a superfici lisce o rigate, che accostati e girando in senso contrario riducevano le granaglie nella granulazione richiesta, dopo che queste erano giunte nell’interspazio voluto tra i due corpi rotanti.
Come ben si vede in questa macchina era scomparsa la millenaria rotazione orizzontale delle macine antiche che offriva una macinazione “bassa”, “rapida” e “a fondo” giacché il lento giro delle macine frantumava tutto, dando un miscuglio di farina, crusca e cruschello che, poi, neppure un perfezionato “buratto” (grosso setaccio) riusciva a dividere per cui la farina presentava sempre delle impurità.
Con i vecchi mulini l’operazione di macina era relativamente facile per i grani teneri, ma riusciva con difficoltà per i grani duri, per cui questi venivano preventivamente sottoposti a bagnatura, con gravi rischi per la successiva conservazione delle farine.
Con “il laminatoio” la rotazione dei rulli era verticale e lo schiacciamento con relativa frantumazione delle granaglie avveniva gradualmente (passando cioè più volte tra due rulli), sicché la macinazione era “alta”, “tonda”, “graduale o progressiva”, permettendo, nei vari passaggi, di togliere gradualmente e senza surriscaldamento la crusca e il cruschello, per dare poi una farina pura e notevolmente più conservabile.
Con l’utilizzo dei nuovi macchinari su descritti e con l’uso dell’energia elettrica fu possibile organizzare il mulino in modo diverso e funzionale e avvenne che, cosi come avvenne in tantissime altre località, anche a Montella, dal 1950 in poi, abbandonando l’uso dei mulini ad acqua, fu possibile far funzionare i mulini elettrici collocandoli in locali, ampi ed inseriti nel perimetro urbano.
Ricordo che in quegli anni lontani della mia infanzia a Montella in via Don Minzoni, all’imbocco di “Serraocca” (l’attuale via Verteglia), proprio di fronte all’ingresso secondario della Villa De Marco, c’era un mulino aperto per l’appunto da Giuseppe Gambone che, come ho già detto innanzi, era, con riferimento a suo padre, “Dreone”, lo stesso mugnaio che “gestiva” il mulino ad acqua del “Ponte della lavannara”.
Questo mulino di via Don Minzoni ebbe varie “peregrinazioni”. Infatti, dopo qualche anno, esso da “Serraocca” fu trasferito a San Giovanni, esattamente nell’attuale via Michelangelo Cianciulli, in un locale appartenete ad Alberino Pascale vale a dire il noleggiatore d’auto nonché “corriere” per spedizioni e viaggi in quel di Napoli.
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Successivamente, come mi ha precisato Antonio Gambone (oggi ottantasettenne figlio di “Peppo re Dreone” da me già citato ed “intervistato”) suo padre trasferì, nell’anno 1954, il mulino da via Michelangelo Cianciulli a San Simeone, esattamente in via Ferdinando Cianciulli, in un locali di proprietà della famiglia Abiosi, posti, essi, nelle adiacenze dell’attuale via del Carbonaro.
Il mulino restò in funzione in quella sede fino a quando il defaticante “Peppo re Dreone” riuscì a gestirlo direttamente e poi, poiché i suoi figli – per l’appunto Antonio e Salvatore – avevano intrapreso attività diverse da quelle dell’essere mugnai, fu venduto nel 1974 e l’intero macchinario fu, dunque e con rammarico, trasferito definitivamente a Castelvetere.
Ricordo sempre che, in quel periodo, un altro mulino elettrico funzionava in Piazza Matteotti, la vecchia “Avanti Corte” o anche “Piazza dei Caduti”; esso apparteneva a Francesco Bruni, discendente dai “Mussiniuri” vale a dire la storica famiglia dei mugnai montellesi.
Ricordo che più che Francesco era sua moglie, Assunta Pascale, quella che in realtà “faceva funzionare” il mulino; era una donna imponente, cordiale e gentile, con un eterno fazzolettone in testa e un capiente camice da lavoro; era molto attiva e spesso, nella sua attività era coadiuvata, dai vari figli Brillantina, Bruna, “Nannuccio (Ferdinando), Aurelio, Carlo e Silvano.
Assunta, anche dopo la morte del marito, continuò la sua attività e, mi risulta che il suo mulino fu smantellato dopo il terremoto, negli anni ’80; dove esso sorgeva oggi non vi resta alcun segno a ricordarne l’esistenza trascorsa.
Un altro ed ultimo mulino di Montella era quello che si trovava in fondo all’attuale Via del Corso, quasi di fronte all’imbocco di Via Santa Lucia; apparteneva a Bruno Michele il quale era un discendente di quella famiglia di mugnai montellesi, quella che gestiva il mulino ad acqua di Pezzalonga e che, con simpatia e cordialità, era, come già più volte ricordato, soprannominata “Mussiniuri”.
Michele, coadiuvato dalla moglie Dolcellina Marinari continuò la tradizione di famiglia e gestì il mulino fino all’anno 1972; successivamente la gestione fu assunta da figlio Alberto e da Maria Dello Buono, sua moglie i quali, dopo il terremoto del 1980, spostarono il mulino da via del Corso e lo ricostruirono in Via Del Giardino, al civico n. 66 e lo gestirono fino al 2005.
Da quell’anno l’attività artigianale di arte molitoria, tramandata per ben tre generazioni, è condotta da Aldo Bruno (il figlio di Alberto) e da sua moglie Milena i quali sono al centro della loro attività, producono farine speciali, di ogni tipo, macinate a pietra con mulino a cilindri, eseguono la macinazione di grano duro e tenero e la realizzino anche per conto terzi.
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Argomentando di mulini e di mugnai mi viene spontaneo ripensare al tempo lontano sia della mia infanzia e sia a quello della mia giovinezza, “quando, per scrivere, non c’erano sms o e-mail, ma si dovevano adoperare penna, pennini ed inchiostro; quando si poteva andare dal tabacchino, comprare una sigaretta – una sola – e fumarsela dove meglio pareva giacché non c’erano divieti e i non fumatori erano una gran brutta razza”.
Mi riferisco al periodo in cui, è stato scritto, ….”la Playstation non esisteva, si giocava tutto il giorno per strada, ci si divertiva e i bambini non cambiavano guardaroba a ogni stagione, andavano in giro prima con i pantaloncini corti, anche d’inverno e poi, divenendo più grandicelli, con i pantaloni alla zuava….”.
Insomma il tempo in cui c’erano la maglia di lana, i treni a vapore, i cantastorie di piazza, il caffè d’orzo, i vespasiani, le cartoline, i deflettori, i calendarietti dei barbieri, la carta carbone, le granite, le letterine di Natale, l’idrolitina, la pompetta del Flit, il telefono di bachelite, le cabine telefoniche ……..
Erano tempi di diffusa povertà, in cui ci si arrangiava e si sopravviveva con quel che si riusciva a produrre direttamente; in cui – nelle campagne di Montella – si coltivava, con duro lavoro e fatica, grano, granturco, patate, fagioli, ceci e anche lenticchie.
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In prevalenza il grano era coltivato essenzialmente nella pianura di Folloni, ai Trucini, alle Pezze e al Vignale nonché in zone alte, in quei terreni dove, dopo il taglio delle piante di castagno, vi erano piantati i “viscilgli” da innestare o in cui vi erano solo giovani castagni; era anche coltivato in spazi prima ricoperti di “gghianéstre” le quali, bruciate, con la loro cenere, rendevano il terreno meglio fertilizzato.
Secondo il terreno di cultura si piantavano diversi tipi di grano dei quali i principali erano il “resciola” (originario da Lecce e privo di glutine), il frumento cosiddetto “iermàno” (una specie di segala) e il tipo “caroseddra” (quello con spiga corta).
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Il grano, seminato ad ottobre, veniva a primavera “sarrecato” (sarchiato) e “monnato” (liberato dalle erbacce, estirpate con le mani); poi, in estate, a luglio, di procedeva alla sua “metènnata” (mietitura) tagliandolo, a mano, con la falce, ad assemblarlo prima in “iermiti” (piccoli fasci di steli) e poi in “gregne” (gradi fasci di “iermiti”) le quali, a loro volta, costituivano la “casazza” (mucchio di covoni sistemati a forma di casotto, con due spioventi).
In una seconda fase il grano veniva trasportato sulle tante “àire” o “àriie” allora esistenti nel territorio.
Di esse, una – detta “l’àira di Battista” – si trovava lungo il viale di San Francesco mentre un’altra era adiacente al passaggio a livello e al cimitero ed altre due ancora si trovavano sotto Cagnano, ai piedi del rione “Serra” e delle quali, una era di proprietà della famiglia Vernicchi.
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Su questo spazio aperto le piante di grano subivano prima la battitura per mezzo dei “mùuiddri” alla quale susseguiva la separazione dei chicchi di grano dalla paglia e dalla pula attraverso la “uendolatura” e la “cernitura” con i “turnicchi”.
In casa il grano era conservato nelle “cannacàmbera” e, periodicamente e secondo necessità, veniva prelevato (attraverso lo sportellino posto – a saracinesca – nella parte bassa di quel silo) per essere portato al mulino onde ricavarne la farina necessaria per la panificazione e per le altre esigenze alimentari.
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Nel secolo scorso e in quelli precedenti una provvista di grano, per ciascuna famiglia montellese, era una risorsa di sopravvivenza importante, in quanto che il grano, come già detto in altra parte, macinato diventava farina la quale, mescolata ad acqua e lievitata, dava consistenza ad un impasto da cui se ne derivavano pane, paste fresche e dolci da forno che restavano e restano alla base della nostra alimentazione, in particolare nelle aree mediterranee.
In quel periodo l’alimentazione di alcune famiglie era assolutamente insufficiente e il menù era piuttosto scarso e poco nutriente; capitava dunque che, in qualche casa, la sera, per il solo pasto giornaliero, tutti i componenti della famiglia si sedevano al desco e attingevano, tutti insieme, con la propria posata, ad un unico e grande piatto posto al centro del tavolo!
Si usavano prodotti coltivati direttamente e spesso si preparavano cibi a base di sola erba selvatica ed acqua e, in alcune situazione, lo stesso pane costituiva una pietanza di vero lusso.
In Italia, in quei tempi le famiglie povere si nutrivano di un unico alimento, al Nord con polenta di mais ed al Sud con il solo pane di frumento accompagnato, questo, da ortaggi quali olive, fave e cavolfiori.
In definitiva quasi tutte le famiglie si alimentavano con zuppe di fagioli e cavoli o anche con pasta e fagioli o ceci ed erano costrette ad escludere quasi totalmente la carne, la quale era, infatti, un cibo costoso, riservato alle grandi occasioni.
A Montella e più in generale In Italia e in tutta Europa, come già detto, contadini ed operai avevano – soprattutto nell’Ottocento e sino alla metà del Novecento – una “cucina povera”, poverissima.
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L’alimentazione base – ribadisco – constava di pane di grano, di pane di segale, di polenta, latte, di patate cucinate in varie maniere e di minestre condite, quand’era possibile, con pochissimo olio o con altrettanto poco lardo e strutto di maiale.
Quest’animale era veramente prezioso nella economia domestica: tant’è che quasi ogni famiglia comprava un maialetto in primavera per ingrassarlo e ucciderlo poi in dicembre o in gennaio e conservarne le carni essiccate o sotto sale, per tutto il corso dell’anno.
Elementi importanti dell’economia familiare erano pure il formaggio, ovviamente di origine locale a cui accoppiare, non sempre, come bevanda un vinello, assolutamente “paesano” ed autarchico, di sei, sette o otto gradi.
A questo punto, mi accorgo di aver molto divagato ed è opportuno che concluda.
In definitiva l’intendo del mio scritto era quello di togliere dall’oblio sia l’arte molitoria di Montella sia l’antica consuetudine della coltivazione del grano; in tal senso è stato necessario “abbondare” in riferimenti e “contenuti” soprattutto al fine di ricordare le molteplici, indispensabili ed interessati correlazioni che, in modo vario, sono strettamente imprescindibili per argomentare, con dignità, sull’attività dei mugnai e su quella dei loro antichi mulini.
A proposito di mulini e mugnai si sa che già alla fine del secolo scorso – come innanzi detto – dei tre mulini elettrici funzionanti a Montella uno solo sopravvisse, esattamente solo quello che originariamente era appartenuto a Michele “dei Mussiniuri” e a sua moglie Dolcellina Marinari.
Mi riferisco, a quello “delocalizzato”, dopo l’anno 1980, in Via Del Giardino e che, come già detto prima, è condotto, dopo tre generazioni, da Aldo Bruno e da sua moglie Milena i quali, con amore ed intraprendenza ne hanno convertito l’uso tant’è che quel mulino, produce, oggigiorno, farine speciali, di ogni tipo, macinate a pietra, con un mulino a cilindri ed eseguono la macinazione di grano duro e tenero e la realizzino anche per conto terzi.

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Questa estate sono stato in Via del Giardino è ho parlato a lungo sia con Bruno che con Milena; soprattutto Milena mi spiegato che in definitiva il loro mulino, pur avvalendosi di tecnologie moderne, adotta, su richiesta dei clienti, anche una molitura molto simile a quella dei mulini con mola in pietra.
Mi ha mostrato le varie fasi della molitura che, iniziando con il peso del grano da macinare, comprendono, in successione, la “svezzatura”, la selezione dei chicchi, l’eliminazione delle impurità, la bagnatura ed infine la macina vera è propria nonché la susseguente raccolta della farina in sacchi.
La resa, mi ha chiarito Bruno, dipende dalla qualità del grano che, prodotto in quantità irris

oria a livello locale, proviene in prevalenza dalla Puglia, specialmente dalla provincia di Foggia.
In realtà gli sono richieste tipologie diverse di farina la cui consistenza, qualità e sapore dipende, altre che dal tipo di frumento, anche se, durante la macina, viene o meno tolto il germe.
I due ultimi e giovani “coniugi-mugnai montellesi” mi hanno confessato che rilanciare l’attività del mulino ha richiesto, soprattutto all’inizio, impegno nell’affrontare e superare difficoltà molteplici, che hanno comunque superato soprattutto per virtù della loro passione ed amore a mantenere una tradizione di famiglia ultra centenaria.
A mio parere l’arte molitoria è stata senza alcun dubbio un’attività artigianale assai significativa e rappresenta e resta per tantissime persone – soprattutto se anziane – un simbolo, un caro ricordo della civiltà montellese degli anni lontani.
Sono dunque convinto che, per la quasi totalità della comunità montellese, il ricordo dei vecchi mulini è un ricordo assai condiviso e ha una valenza particolare; l’antico mestiere dei mugnai resta, anche per questa sua valenza, un’attività artigianale che merita d’ essere tolta dall’oblio e che meriti d’ essere trattata e ricordata ne è riprova il medesimo progetto di ripristino del vecchio “Mulino del Ponte della lavannara”, un progetto a cui accennavo all’inizio e al quale “auguro” una felice e sicura realizzazione.
Mugnai Montella 22

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Il presente articolo è stato pubblicato sul periodico Il Monte" - Anno XVI - n. 3 (settembre-dicembre 2019) - Sezione " Montella tra passato e presente"

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