Carbone e carbonai di una volta a Montella
Carbone e carbonai di una volta a Montella . Il carbone a legna esiste da quando esiste il fuoco tant'è che lontanissime incisioni rupestre ne testimoniano l’uso antico così come tracce di carbone si trovano in reperti antropologici risalenti all'età del rame, vale adire a un'epoca compresa tra il 3.300 e il 3.100 a.C. .
La sua produzione ordinariamente avviene attraverso un procedimento che sfrutta una combustione imperfetta del legno, in condizioni di scarsa ossigenazione.
Più dettagliatamente il carbone a legna viene generato attraverso la tecnica della “carbonaia” che, in tempi lontani, consentiva di trasformare la legna utilizzando, preferibilmente, quella di faggio nonché quella di abete, larice, frassino, castagno, cerro e di pino.
La sua produzione fu praticata - per numerosi secoli - in gran parte del territorio montagnoso italiano, in quello alpinico, subappenninico ed appenninico per cui, nella generalità, i boschi italiani furono luoghi di lavoro per molti “carbonai”.
Il mestiere del carbonaio era molto diffuso – soprattutto nella prima metà del secolo scorso - tant'è che esso, tra i lavori della montagna, era quello che ne testimoniava meglio la durezza e la complessità.
Quello del carbonaio era infatti un mestiere antico, alquanto difficile da praticare, fatto di sapienza e di molta fatica, impegnativo; un mestiere in cui erano fondamentali sia l’esperienza e sia i legami con la montagna.
Per fare il carbonaio occorreva avere pratica e competenza e soprattutto era richiesto amore per la montagna, avere con lei un rapporto corretto, cioè possedere la consapevolezza che essa è vita e dunque esercitare, con naturalezza, un confronto corretto tra uomo e territorio tale da salvaguardarne ogni possibile equilibrio.
Era un mestiere complesso, in cui l’abilità manuale giocava un ruolo essenziale, un’attività che richiedeva zelo ed implicava abilità e procedure, decisamente complesse, che l’uomo tecnologico del duemila non riesce a immaginare. Per praticarlo occorrevano pochi strumenti che il carbonaio utilizzava con perizia e che, spesso, produceva con il legno che trovava nel bosco, ad eccezione della zappa e della pala.
Era un mestiere che non si apprendeva dai manuali, si apprendeva direttamente sul campo, in una palestra naturale, attraverso un lavoro che esigeva un lungo, paziente e defaticante tirocinio; un’attività appresa da giovanissimi e tramandata nel tempo dai propri genitori, praticata per numerosi secoli fino ai primi del '900.
I boschi italiani furono luogo di lavoro per molti di questi "artisti del fuoco" e Il carbone da loro prodotto (prima dell’arrivo del gas e dell’elettricità in tutte le case) era, molto richiesto soprattutto per il riscaldamento e per cucinare, per cui veniva trasportato verso le città, anche per altri usi, i più vari e disparati.
Come in altre realtà locali d'Italia, anche a Montella la produzione del carbone vegetale è stata, accanto a quella boschiva, una attività economica importante per parecchie generazioni nei secoli passati, fino agli anni '50 e '60 del secolo scorso.
Questa attività era per lo più di “appannaggio” di alcune famiglie che l’hanno a lungo esercitata, in esclusiva, soprattutto per tradizione e per competenza.
In previsione della stesura di questo articolo, come al solito, mi sono confrontato con alcuni mie amici, essenzialmente quasi miei coetanei ed insieme abbiamo, senz’altro con qualche imprecisione ed omissione, ricordato i “caraoniéri” presenti una volta a Montella.
Prevalentemente la maggior parte dei “caraoniéri” montellesi appartenevano alle famiglie Recupido, Sabatino e Gambone; erano queste le tre famiglie che per anni e anni sono stati i più esperti nella produzione del carbone, nei boschi delle nostre montagne .
Alla famiglia Recupido apparteneva Alessandro, il papà del mio amico e coetaneo “Totonno”, il quale, la scorsa estate, mi ha a dettagliatamente descritto, con passione e competenza, la fatica e il mestiere praticato, dai suoi progenitori.
“Totonno” mi ha detto che suo nonno Antonio Recupido era un abilissimo carbonaio in attività già alla fine dell’ ‘800.
Egli fu il capostipite di vari “caraoniéri” montellesi; abitava a San Silvestro, di fronte al palazzo Boccuti; tenne le sue “caraonere” a Verteglia, ai “Candraloni” e alla Celica.
La sua attività fu portata avanti dal figlio Alessandro (vale a dire il papà del mio amico) e in parallelo, lavorando in proprio, anche dai suoi fratelli Amato (che abitava in Via Piedipastini), Domenico (che abitava ai Ferrari), Salvatore (che abitava al Casaliello) e Vincenzo (il quale abitava sulla prima rampa della Libera).
Alessandro Recupido lavorò fino agli anni ’50 e l’ultimo “catuòzzo” l’allestì ai Candraloni.
Un altro mitico “caraoniére” montellese correlato alla famiglia Sabatino fu Rocco Sabatino il quale con la sua attività, all’epoca fece fortuna e divenne benestante tanto da acquistare, tra l’altro, un vasto terreno, quello attualmente circoscritto dalla via del Corso, via dietro Corte, Viale Europa e via Principe di Piemonte.
Alla sua persona era, tra l’altro, riferita la voce (rice ca….) secondo cui la svolta della sua fortuna economica fosse da attribuire al ritrovamento di un tesoro di monete d’oro, nascosto, nel cavo di un albero, da alcuni briganti.
Io l’ho conosciuto quando era ormai anziano perché era il papà di zia Peppa, la moglie di mio zio Matteo e ricordo di avergli chiesto conferma di quel “ritrovamento” e ricordo anche il suo “tiepido” diniego, ironico e alquanto sornioso.
Resta comunque il fatto che una volta zia Peppa, casualmente, mi mostrò alcuni “marenghi d’oro !
Nell’attuale Piazza Matteotti abitava Sabatino Salvatore, cioè il papà di Domenico, Virginio, Italo e di “Iuccia”.
Alla famiglia Sabatino apparteneva Carmine, che in vece abitava ai Ferrai e nella sua attività era aiutato dai figli Lorenzo, Salvatore, Amedeo e dalle varie sue figlie. Un suo cugino, Rocco Sabatino (omonimo del Rocco già citato) era anch’esso “caraoniére” e abitava in via San Silvestro.
A Fontana, in via Gambone, abitava Felice Gambone, detto “Boccaccio” anch’egli aiutato dal fratello Alfonso (che abitava in via Gamboni) e dai figli Salvatore (che abitava in via Fontana), Gerardo e Felice il quale abitava in via San Silvestro, sotto al “catafalco”.
Nello stesso rione abitava poi Salvatore Maio, detto anche “Turillo re Faone”; invece in via Gamboni abitava Albino Moscariello che, figlio” di Rosario, svolse l’attività di “caraoniére” oltre che a Montella anche a Capaccio, in provincia di Salerno
A Piazzavano abitava il caraoniére” Delli Gatti Giuseppe papà di Rinaldo, Virgilio e Giovanni.
La prima fase del lavoro dei carbonai consisteva nella preparazione della legna.
I carbonai tagliavano gli alberi, generalmente nel periodo di luna calante, in una parte di bosco loro assegnato, rispettando alcune disposizioni di legge che prevedevano un diradamento delle piante e non un esbosco.
Mio padre – Gualtiero Tiretta - era maresciallo forestale e, a proposito dei carbonai, mi diceva che per legge, dalla fine dell’800, la legna di faggio per fare carbone doveva provenire dai tagli di diradamento eseguiti nelle giovani faggete. Mi ricordava le cosiddette “martellate”.
Mio padre ed alcune sue vecchie foto relative alla "martellata"
Questa operazione, mi spiegava, consisteva nella “segnatura (fatta appunto con un particolare martello-sigillo) e nella “marcatura” delle piante che, precludendo un disboscamento selvaggio, potevano essere abbattute nel demanio statale.
La “martellata veniva fatta con la collaborazione degli operatori boschivi interessati all'acquisto, all'abbattimento degli alberi e alla loro successiva utilizzazione e lavorazione. Richiedeva tempo e, svolgendosi per settimane e settimane, si concludeva immancabilmente con una bella “mangiata” e “bevuta”.
All’epoca, oltre ad Antonio Ziviello, ai fratelli Gramaglia e De Simone, la più attiva, principale e più funzionale “segheria” montellese era quella di Carmine Marinari vale a dire il padre di mia moglie Silvana e dunque mio suocero.
A livello industriale la sua azienda ebbe origine negli anni ‘50/’51 e, con la sua attività ha dato, per anni ed anni, lavoro e sostentamento a una larghissima schiera di operai ed è stata, fuor dubbio, fino agli anni 60-70 forse l’azienda boschiva più attiva di tutta la regione in quanto che forniva legname di noce, di castagno e di faggio evaporato, a largo raggio e, con spedizioni ferroviarie, finanche ai mobilifici brianzoli.
Mio suocero Carmine Marinari ed alcune foto della “sua segheria” Fratelli Marinari , situata a Montella, nei pressi dello scalo ferroviario.
Dopo la diramatura del legname, questo veniva selezionato, tagliato, con le roncole, in pezzi (di circa un metro di lunghezza) che, trasformati in legna, venivano accatastati; dopo un periodo di 10-15 giorni di essiccazione, la legna, con l’uso di muli, veniva trasportata nella “piazza da carbone”, vale a dire uno spiazzo, in cui venivano allestiti i cosiddetti “catuòzzi“, vale a dire le “carbonaie”.
Per il loro allestimento si utilizzava, nel bosco, uno spiazzo pianeggiante, pulito da sassi e radici; al centro si piantava un palo alto circa m 2,50 costruendovi attorno una incastellatura vuota, con un condotto centrale, attorno al quale venivano da prima appoggiati i pezzi di legna più grossi (che abbisognano di maggior tempo di cottura) e poi via via quelli più piccoli; in definitiva la “carbonaia - catuòzzo” era costituita da diversi strati i quali facevano assumere alla catasta un aspetto cupoliforme.
Successivamente il cumulo di legna veniva rivestito con fronde di faggio e quindi ricoperto con uno strato di terra di circa 10 cm di spessore per impedire sia l’afflusso dell’aria e sia di assorbire i vapori che si sprigionavano durante la carbonizzazione.
Il mio amico Totonno mi ha spiegato che la carbonaia veniva accesa introducendo dal condotto centrale (in gergo detto “fornello”) dei pezzi di legna in combustione. Mi ha anche chiarito che la bocca del “fornello” veniva chiusa solo dopo che il fuoco si era diffuso dal fornello all'interno della catasta.
Con tale chiusura aveva, inizio la fase della "cottura" la cui durata era in relazione al quantitativo di legna impiegato, per cui, tanto per fare un esempio, per circa 60 q.li di legna necessitavano circa 7 giorni di combustione e da quei 60 q.li di legna si ricavavano circa 10 quintali di carbone.
Durante tale periodo, quel “cumolo di legna e terra” andava costantemente controllato giorno e notte per cui i carbonai erano obbligati a vivere, lontano dalle proprie famiglie, in “baracche” (fatte di legno, con frasche e cannicci), risposando su scomodi giacigli e accontentarsi di cibi semplici, fatti per portare al sacco e da conservare per svariati giorni prima di un successivo approvvigionamento.
Nei primi due giorni la carbonizzazione veniva fatta alla cieca, cioè senza aprire fori nella copertura di terra. Successivamente, procedendo dall'alto verso il basso, venivano aperti appositi sfiatatoi per consentire al fumo di uscire e per estendere la carbonizzazione a tutta la catasta. Quando il fumo assumeva una colorazione turchina significava che il carbone era “fatto”; i buchi venivano tappati e se ne facevano altri più in basso fino a contatto del terreno. Quando anche da questi usciva fumo turchino la carbonizzazione era finita.
In definitiva era la combustione che trasformava il legno in carbone e pertanto essa andava “governata” con costante controllo, per ore e ore, per giorni e notti per cui i “carbonai”, (svolgendo un lavoro duro, difficile, pericoloso, complesso) erano costretti, senza nessuna pausa, a rimanere a lungo nei boschi onde “vegliare” e dare assistenza continua al fuoco similmente ……alle sacerdotesse romane consacrate alla dea Vesta !
Dopo una decina di giorni la carbonaia assumeva un aspetto diverso: il terriccio di copertura diventava nero e le dimensioni si riducevano notevolmente; anche i fumi che uscivano dai fori assumevano un colore diverso. In sostanza era in base al colore del fumo che il carbonaio poteva vedere l'andamento della combustione: il carbone, come già detto, era pronto solo quando il fumo era turchino e trasparente.
In presenza di tali condizioni la fase di “cottura” era conclusa ed iniziava la fase della “scarbonizzazione” che richiedeva 1-2 giorni di lavoro. Per prima cosa si doveva far raffreddare il carbone con numerose palate di terra e, successivamente, si procedeva, con opportune precauzioni, all'estrazione del carbone spegnendo (con l'acqua o ricoprendoli di terra) eventuali focolai e braci rimaste accese.
Una volta raffreddato, il carbone veniva raccolto e, dai boschi, trasportato dai mulattieri e dai carrettieri in paese per essere stoccato in spaziosi capannoni (caranoàri) i cui muri e volte diventavano tanto nere da non poterci più distinguere niente al suo interno. Ricordo che anche chi vi lavorava, dalla mattina alla sera, era sempre coperto da una fuliggine nera che sembrava una maschera grottesca da cui si distingueva solo il bianco degli occhi e il rosso delle labbra del povero carbonaio.
Lì il carbone veniva selezionato e raccolto in robusti sacchi di iuta o in capaci cestoni di legno allo scopo di smistarlo e venderlo sia per uso domestico che industriale.
La qualità del carbone ottenuto variava a seconda della bravura ed esperienza del carbonaio, ma anche dal legname usato. Il carbone di ottima qualità doveva “cantare bene”, cioè fare un bel rumore bruciando.
Ordinariamente il carbone prodotto, in quei capannoni veniva, per le necessità di allora, “ripartito”, per cui la pezzatura più grossa era destinata ad essere, prevalentemente, utilizzata per cucinare mentre la più piccola, la “caraonéddra” (in italiano carbonella) era destinata al riscaldamento domestico utilizzandola in appositi contenitori (la “vraséra”) in cui, ripostane un certo quantitativo a “montagnella”, se ne provocava l’accensione.
In cucina il carbone alimentava la “fornacéddra” che – come chiarisce Virgilio Gambone, era “una sorta di caminetto (“focagna”), in muratura e ferri” che (alimentata per lo più da frasche e carboni), serviva, una volta, come piano di cottura su cui cuocere cibi e riscaldare acqua.
Oltre che per utilità domestica, il carbone prodotto era utile come combustibile per i mezzi di locomozione ed era anche il combustibile preferito per la lavorazione tradizionale del ferro, del vetro e dei metalli preziosi. Il carbone di legna infatti bruciava a temperature elevate, raggiungendo i 2700 °C nelle giuste condizioni e dunque era idoneo per quelle attività lavorative.
Per secoli la produzione del carbone vegetale è stata un’attività economica importante e (come già detto all'inizio) praticata, oltre che nella nostra Irpinia, anche in parecchie località italiane, soprattutto nelle montagne del trentino, del pistoiese, del modenese, nell'Abruzzo e sui monti della Sila fino agli anni '50 e '60 del secolo scorso tant'è che al mestiere del carbonaio, in provincia di Trento, nel comune di Bordone fu eretto finanche un monumento dedicato proprio ai carbonai !
Per secoli, accanto al legno, il carbone è stato il combustibile più richiesto, più importante e di larga disponibilità; tale primato è stato mantenuto a lungo, fino al sopraggiungere del gas prima e dell’elettricità poi, per cui (con l’avvento di tali “nuovi combustibili”) grandi cambiamenti sono sopraggiunti, specialmente nel corso del XX secolo, tant'è che l’uso del carbone è andato progressivamente ridimensionandosi al punto che oggi esso, (prodotto per lo più in Cina, Argentina e Paraguai) è essenzialmente utilizzato………. per allegre e socializzanti “grigliate”, al barbecue.
Con il regredire dell’uso del carbone anche l’attività dei “caraonièri” si è andata sistematicamente ridimensionando per cui, a quel che mi risulta, quell'antico mestiere a Montella, è interamente scomparso.
Oggi in Italia la produzione in argomento è scarsissimamente praticata tanto che, anche a Montella, i “discendenti” di quelle antiche “famiglie di carbonai” hanno dismesso l’attività dei loro progenitori, molti sono emigrati e tanti altri ancora hanno preferito svolgere diverse attività professionali.
Nella generalità è dunque evidente che, ahimè, con la diffusione delle “nuove combustioni” industriali, la professione dei “caraonièri”, come quella dei “sarti”, degli “scarpari”, dei “ferraciucci”, dei “trainieri”, della “lavannare” è diventata anch'essa un “mestiere di una volta”, un mestiere che, sebbene legato a una “sapiente” e dignitosa tradizione artigianale appartiene, ormai, al passato, tra qualche anno sarà una delle “professioni dimenticate”, vale a dire una “professione del tempo trascorso” che, come tutte le altre, è simbolo della civiltà montellese di quegli anni lontani, una civiltà, quella, caratterizzata da duro lavoro, da sofferenze, da sacrifici e da privazioni al giorno d’oggi inimmaginabili e, per lo più, dimenticati.
Questo articolo è già stato pubblicato sul periodico "Il Monte"- Sezione "Irpinia Magica" - Anno XV - n. 2 maggio-agosto 2018
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