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31 dicembre 1980: memorie dal terremoto. di Gianluca Capra

Vegna Trentuno dicembre 1980. Finalmente mattina. Ho dormito poco quella notte dall'eccitazione del momento: la mia prima wegna! Appuntamento alle ore otto di mattina ai giardinetti al Corso in piazza Matteotti. Tanta vita di noi bambini di questa parte di Montella si è raccolta in quel pugno di verde quasi incastrato tra asfalto e macerie. Quella mattina tutto era diverso. Quello che da sempre una fetta della nostra cultura popolare aveva apparecchiato davanti ai nostri occhi e aveva acceso e scaldato la nostra immaginazione, la wegna appunto, finalmente entrava a far parte del nostro vissuto collettivo di bambini. Finalmente anche noi stavamo per partecipare, con la nostra piccola wegna, alla memoria collettiva delle tradizioni che cementano una comunità. Persino l’occhio vigile e austero del soldato immobile a guardia dei nostri caduti quel giorno sembrava meno duro. Ricordo che sono giunto per primo al luogo dell’appuntamento e per ingannare l’attesa ho iniziato a leggere i nomi dei caduti in guerra. Alla spicciolata ci

siamo ritrovati con la nostra carrozza e siamo andati a caricare l’ultimo “ceppone” con la speranza che non l’avessero rubato. Recuperammo il "ceppone" e poi tutti insieme a preparare la nostra wegna. Poi venne sera. I rumori del giorno si attutivano come per magia in quell’ora per me da sempre magica. I militari presenti nel paese e accampati a “ lo mercato coperto” spegnevano le loro camionette e il carro armato modello “Leopard” finalmente icona di vita e non di morte. Quei ragazzi in divisa venuti da lontano e dai dialetti strani in quell'ora sembravano angeli. Montella, l’irpinia tutta sembrava essere divenuta porzione di Mesopotamia in quella Babele di dialetti e provenienze diverse. Non avevamo bisogno, in quei giorni, di una torre per sfidare il cielo e sentirci uniti. A noi bastava quella solidarietà per chiamarci popolo e sentirci parte comune di uno stesso destino. Come dimenticare gli uomini “formica” (come li definì il compianto Giuseppe Delli Gatti in un suo articolo) che dismessi i panni da carpentiere o muratore e scrollandosi da dosso la razione di polvere quotidiana ritornavano a casa. Casa. Mai come allora tale parola ebbe accezione più ampia. L’uscio di ogni sera era una serranda di garage, una porta di plastica, il freddo di un container o la tela di una tenda. Dopo, molto dopo, divenne anche il profumo di legno dei prefabbricati che ancora oggi reggono l’urto del tempo a immemore memoria di quello schiaffo sonoro chiamato ricostruzione. In mezzo a tutto questo c’eravamo noi e la nostra wegna. Noi che eravamo radici di futuro. Noi che nell'incoscienza dell’infanzia non avevamo ben chiaro i contorni di quella tragedia. Noi che tra le macerie avevamo costruito un nostro piccolo rifugio improvvisato. La nostra “isola che non c’è” era un angolo di giardino rivelatosi alla strada dopo che la furia distruttrice del terremoto aveva travolto case e persone. Ho sempre pensato che se gli uomini preferiscono la nota rilassante, la musica lenta per stringersi nella stretta di un abbraccio; ebbene per noi quel 23 novembre 1980 è stato un rock and roll che divise, eppure, allo stesso tempo ci unì nell'intento di non mollare, di non lasciare spazio allo sconforto. Finalmente accendemmo la nostra wegna in un silenzio pregno di emozioni. Se chiudo occhi mi ritornano alla mente i tanti flashback di quel momento felice e con esso una porzione importante della mia infanzia e della Montella di allora. Pescando nella sacca dei miei ricordi mi sembra di poter stringere la mano dei bambini che eravamo allora. Un ricordo su tutti. Un attimo perfetto, immobile in cui ci sedemmo in disparte mentre il fuoco bruciava con lena i resti di una porta della più bella wegna che avessimo mai potuto immaginare. Qualcuno ruppe il silenzio parlando di parenti lontani da Montella e dispersi in quell'immenso continente chiamato America. Noi volevamo restare lì in quella traversa di via Corso Umberto I inconsapevoli del fatto che, in qualche modo, la nostra vita sarebbe continuata a bruciare in quel falò di sacrifici chiamato meridione. Sognavamo un futuro migliore mentre la notte filtrava l’aria attraverso i rami e le foglie di un melo. Sognavamo ed eravamo felici così. Bastavamo a Noi stessi e Noi stessi tutti insieme nella nostra Montella, alla luce di quel fuoco e lo scoppiettio del legno secco, eravamo già abbastanza per essere felici. Aspettammo mattina in un’insonnia collettiva che ci legava nella soddisfazione di aver aspettato l’anno nuovo insieme con la nostra wegna…poi ognuno rimase sveglio a modo suo.

Gianluca Capra

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