“Deve essere avvenuto durante i primi anni che ero in Italia, a Vietri sul Mare, probabilmente nel 1934. Non avevo ancora la mia fornace, ma lavoravo nella fabbrica di ceramica di Pinto. Un giorno mi mancò un colore. Andai a farmene prestare un poco nella fabbrica Avallone che era la più vicina. Passai per alcuni vani pieni di scaffali con recipienti cotti e non ancora cotti, vi era
confusione e abbandono. Sembrava che non vi fosse nessuno. Finalmente arrivai in un'ultima cameretta, semibuia, sembrava un ripostiglio. Ma vi era un uomo. In mezzo a tutta questa tristezza era seduto davanti alla 'tornietta' di ferro e dipingeva un vaso. Chiesi il colore. Egli si girò mostrandomi un volto giovane e fiero di un bruno pallido, segnato da sofferenze. Era un viso del tutto meridionale, con grandi occhi scuri pieni di tristezza, ma anche di un fuoco nascosto. Mi sentii subito attirata. Il mio interesse si rafforzò vedendo il suo lavoro sul tornio. Era un vaso di forma comune. Guardando però la decorazione capii subito che questo non era il solito pittore vietrese… questo era un pittore pieno di talento e di forza inventiva. Egli mostrò uno scaffale vicino: 'il colore è lì, per favore se lo prenda'.
Vedendomi cercare con gli occhi il posto indicato, aggiunse 'non mi posso alzare'. Allora vidi in quel semibuio che aveva una gamba sola, nell'angolo accanto a lui vidi le due stampelle. Gli dissi la mia ammirazione per la decorazione del vaso e il suo viso chiuso si ravvivò".
Così Irene Kowaliska ricordava Guido Gambone, con il quale, nei mesi seguenti, instaurò una sorta di sodalizio intellettuale: era un'affinità elettiva tra due mondi, due culture.
Durante quegli incontri Irene poté apprezzare la forza che animava Guido: cercare sempre una forma, un decoro, un qualcosa di nuovo che, alla fine, fosse l'inconfondibile segno dell'artista.
Nel 1928, alla fabbrica di don Ciccio Avallone giunse Dario Poppi, presentato come "il professore dell'università della ceramica di Faenza". Quindi don Ciccio presentò i presenti: "Questo è il professore Guido, questo Michele Di Martino e questo Maestro Aniello. Guagliò porta na' seggia p'o' professore, là appresso a Guido'". Da allora, tra Poppi e Gambone si instaurò una sorta di complicità: il giovane faentino non aveva la più pallida idea di come i ceramisti vietresi lavoravano la ceramica e fu subito affascinato, pur rendendosi conto che per lui era opera difficile.
Ricordava Poppi: "Guido mi aiutava molto. Facevo del mio meglio, ma tra la mia roba e la sua c'era un abisso che sapevo incolmabile, perché dalla mano di Guido scaturivano naturalmente, direi fluivano i motivi che aveva dentro di se".
Aveva appena 19 anni, Gambone, ma era già una personalità, ben definita e indipendente, insofferente alle limitazioni, agli schemi prefabbricati, a tutto ciò che in genere legava i decoratori vietresi ad uno stile tracciato da Dolker, Stuedeman, Kowaliska. Per lui la ceramica era spazio, luminosità mediterranee, superfici bianche dove poter imprimere un segno, fatto di ricerca, di umori, di amore.
Ricordava Andrea D'Arienzo, amico per lunghi anni e con il quale tentò l'avventura de "La Faenzerella" subito dopo la guerra: "la domenica mattina, di nascosto, perché nessuno potesse carpirne i segreti, sperimentava nuovi smalti"; suo fu quell'affascinante turchese ottenuto dal verde ramina, sue erano quelle invetriature che davano vita materica all'oggetto. In questa fabbrica Guido si fece imprenditore delle proprie fantasie, rendendo le sue opere uniche e irripetibili.
Gambone era nato a Montella in provincia di Avellino il 27 giugno 1909. Dopo poco la famiglia si trasferì a Salerno e, studente ginnasiale, lasciò la scuola rifugiandosi a Vietri da don Ciccio Avallone col quale comincia a lavorare. Si fece subito spazio, tant'è che nel 1928 due suoi piatti furono pubblicati dalla rivista "Domus" di Giò Ponti, che lo dirà "precorritore di tante scelte artistiche degli anni '60".
Passò, come direttore, alla ICS di Melamerson, il quale, negli anni '30, lo portò alla Cantagalli di Firenze, per un rilancio di quella azienda.
Nella città toscana frequentò i circoli culturali e in specie l'esclusivo bar "Le Giubbe Rosse"; dal contatto con gli artisti e letterati ne esce arricchito e con maggiore ansia di ricerca: un'esperienza che gli servirà al suo ritorno a Vietri.
Terminata l'impresa de "La Faenzerella", riparte per Firenze, con D'Arienzo e Procida e apre una sua fabbrica a Palazzo dei Diavoli.
E sono altre sperimentazioni, con il grès, che segnerà profondamente il suo linguaggio artistico, e il monotipo, la cui sperimentazione lo accompagnerà sino agli ultimi anni della sua vita, insieme a quel mondo della pittura a cui dedicava il segreto tempo per non morire.
Guido Gambone si spense a Firenze il 20 settembre 1969. Corpose biografie riportano un lungo elenco delle mostre cui partecipò e i premi ricevuti.
Basti dire che per ben cinque volte, di cui tre successive, è primo al Premio Faenza. Tuttavia i suoi meriti non sono stati mai riconosciuti per intero.
Vietri, che pur gli deve molto, non gli ha dato la giusta collocazione storica e artistica. Ricordandolo il figlio Bruno, anch'egli grande, inquieto artista internazionale, per carattere tanto simile al padre, dalla sua casa di Firenze scrive: "Non è molto facile parlare di Guido Gambone, pur essendo mio padre. Non era facile né docile, però è stato un grande artista, unico. Non ho tante memorie di figlio, ma il suo insegnamento è stato più che importante per me, per quello che volevo ed ho fatto. Per questo l'amore che ho avuto per mio padre è stato grande e non è stato un caso che mi sia ritrovato sugli stessi binari che mi aveva tracciato. Grazie papà".
Tratto dalla "Città di Salerno"
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