Il Natale e una storia di Miseria di Graziano Casalini - Una vecchia storia di Natale, era l'anno 1950, io avevo otto anni, vivevo con i genitori e mia sorella più piccola, che aveva solo cinque anni, in una antica casa in affitto nella bella campagna, sulla riva destra del fiume Arno, in un piccolo borgo chiamato Osteria, tagliato in due dalla via provinciale Lucchese o Francesca, che collegava il paese di Empoli a quello di Fucecchio, in Toscana, i due centri più vicini facilmente raggiungibili con i mezzi allora disponibili, quasi esclusivamente biciclette, motorini "mosquito", qualche rarissima auto "topolino o balilla" alcune motociclette, poi i barrocci trainati da un cavallo usati per ogni tipo di trasporto merci e i mezzi agricoli, carri trainati dalle vacche ad uso esclusivo dei contadini per il trasporto da e per le coloniche di tutto quello che erano i raccolti dei poderi e i vari attrezzi per lavorare la terra. Alcune carrozze decappottabili e piccoli calessi, in dotazione alle famiglie di ricchi proprietari terrieri si vedevano transitare in modo spettacolare, per noi piccoli bambini, sulla via provinciale, suscitando quella che oggi si definirebbe invidia.
La grande maggioranza dei compaesani viveva con ciò riusciva a produrre nella coltivazione dei terreni col sistema allora molto diffuso della mezzadria. Dopo la seconda guerra mondiale, la miseria attanagliava più o meno tutte le famiglie paesane, soprattutto quelle non impegnate in agricoltura, i lavoratori delle fabbriche erano quelli che dovendo comprare di tutto, soprattutto il cibo, ma anche il rimanente necessario per vivere. Le fabbriche non si erano ancora riprese del tutto dall'evento bellico, e gli operai dovevano per alcuni periodi rimanere disoccupati. In alcune famiglie anche le donne, oltre che alla cura della casa cercavano di guadagnare qualcosa facendo le trecciaiole o le rivestitrici di fiaschi. Comunque, insieme alla povertà c'era tanta tantissima dignità, e non passava giorno che anche il più miserabile del paese, si facesse vedere ben vestito alle varie feste religiose, messe e funzioni varie celebrate dal nostro Parroco nella bella Chiesa di S.Maria Assunta, oppure alla Casa del Popolo " il diavolo e l'acqua santa" dove oltre alle riunioni di partito, vi erano tutte le sere appassionate discussioni sulle varie partite di calcio di cui si ascoltavano le radiocronache la domenica pomeriggio.
Un giorno alla settimana, si riunivano i tanti cacciatori a raccontare ognuno le proprie avventure venatorie, c'era poi il solito gruppetto di giocatori incalliti che per poche lire passavano ore e ore a giocare a carte e a biliardo, quasi tutti fumavano le sigarette di allora, senza filtro oppure fatte a mano con la scatoletta del tabacco e le cartine, riempiendo il locale di fumo che rendeva l'aria quasi irrespirabile. Gli unici due principali ritrovi dove distrarsi e dimenticare le fatiche delle lunghe giornate di lavoro, erano frequentati da tutti i paesani. La domenica in chiesa, alle tre o quattro messe del mattino, partecipavano indistintamente oltre alle donne, anche moltissimi uomini. Per dare una idea della povertà, nei due negozi di alimentari, uno privato, l'altro gestito dalla Cooperativa di Consumo, nessuno pagava la spesa giornalmennte, si usava scrivere gli importi su un doppio libretto e pagare o con degli acconti ogni tanto, o a saldo quando capitavano i periodi migliori per quanto rigurdava i raccolti dei contadini, o un lavoro continuativo per gli operai. Le grandi feste, specialmente il Natale, il Capodanno, l'Epifania e la Pasqua, erano quanto di più bello ci poteva essere per noi bambini. I nostri genitori, nonostante la miseria, cercavano in quei giorni di non farci mancare niente, anche se per loro era molto ma molto difficile. Alcune cose: oggetti, giocattoli, dolciumi, si vedevano molto di rado, però per Natale nonostante le ristrettezze economiche in cui si trovavano la maggioranza delle famiglie, non mancava qualcosa che ci potesse far divertire e rallegrare.
Si preparava una specie di albero di Natale, un ramo di pino o di qualche altra pianta sempre verde, piantato nel terriccio di un vaso, con sotto una cassetta di legno vuota foderata con dei ritagli di stoffa, cassetta che sarebbe servita la notte di Natale al Babbo, quello vero, per depositarci dentro, le poche cose che avremmo voluto avere anche durante gli altri giorni dell'anno. Un piccolo giocattolo di lamiera, una pistola a fulminanti, un fucilino col sughero, una moto con carica a molla, o una bambolina, completa di accessori per cucire, piccoli recipienti stoviglie e finti fornellini per cucinare, o piccoli utensili da parrucchiera, per le femminucce e poi la frutta, qualche arancia, qualche mandarino o dei fichi secchi. I dolci semplici tipici natalizi toscani, i cosiddetti cavallucci, poche caramelle, cioccolatini, torroncini si trovano appesi qua e la sull'albero.
La mattina di Natale, il suono a doppio delle campane, cominciava a creare l'atmosfera natalizia, ci si svegliava prima del solito per correre a vedere cosa ci aveva lasciato Babbo Natale nella notte. Eravamo contentissimi anche se quello che si trovava era poco rispetto a quello che avremmo voluto. Insieme a miei primi alberi di Natale, io facevo anche un piccolo presepe, costruendo la capanna della nascita, la stella cometa, le casette, le montagne, il cielo stellato, la campagna con tanto di stradine inghiaiate, il fiume, la cascata, il ponte, il mulino, il laghetto con un pezzetto di vetro o di specchio, tante piccole piante, il prato fatto esclusivamente da muschio fresco raccolto nei boschi vicini, il tutto sul piano di un piccolo tavolo. Per la preparazione dei vari soggetti, capanna, case, ponti, rocce, usavo vecchie scatolette di cartone, stecche di legno ricavate dalle cassette della frutta, tronchetti ricavati dalla potatura delle viti e degli olivi.
Per colorare gli acquarelli. L'uniche cose che compravo, con qualche spicciolo risparmiato durante tutto l'anno: alcune statuine, delle pecorelle, la sacra famiglia col bue e l'asinello, i re magi, gli angeli volanti da legare con lenza da pesca sopre alla capanna, tutto comunque da riutilizzare, al successivo Natale. Il priore Don Ugo, in un angolo della chiesa preparava un presepe con pochi personaggi molto grandi fatti da lui stesso in terracotta, io non ero abbastanza abile e non avevo la manualità necessaria a modellare, per questo il primo anno che feci il presepe dovetti acquistre tutte le statuine e i personaggi occorrenti. Non c'erano ancora le ghirlande di luci, e allora io provvedevo a illuminare la capanna con alcune lampadine, quelle usate per i faretti delle biciclette, collegandole con fili e interruttori ad alcune batterie. La messa principale celebrata per Natale, era quella cantata delle ore undici a cui partecipavano un po' tutti, dal più povero del paese al più ricco proprietario milanese di una grande fattoria, che per quel giorno si mescolava in chiesa ai sui tanti poveri contadini. Le donne naturalmente, ad eccezione delle più giovani impegnate nel coro, avevano già sentito una delle prime altre messe mattutine e a quell'ora erano impegnate intorno ai fornelli a ai tavoli per la preparazione del pranzo. Mia madre, avendo partecipato da ragazza alla preparazione di pranzi e cene nella casa del proprietario del podere che la sua famiglia lavorava, era molto brava a cucinare e a apparecchiare in modo perfetto anche un grande tavolo per molti commensali. Questa sua abilità, per Natale, ma anche in altre occasioni particolari, la dimostrava quando in casa disponeva tutto, come se noi familiari si fosse i clienti di una grande ristorante.
Il pranzo natalizio, lo organizzava così: apparecchiava il tavolo con la migliore tovaglia del suo corredo, quella con i ricami colorati, i migliori piatti, sempre doppi, bicchieri e posate usati solo pochissime volte. Per Natale, non poteva mancare sotto i piatti del babbo, una letterina, scritta da noi bambini, con le solite promesse e l'emozione di doverla leggere, quando eravamo tutti seduti a tavola in attesa di iniziare a mangiare. Il pranzo di Natale, capitava una volta all'anno, e nonostante la miseria dei tempi, doveva essere, in alcune cose particolari unico e prelibato. Si iniziava con un antipasto di crostini alla toscana fatto con pane abbrustolito e una salsina di fegatini di pollo, coniglio, acciughe e capperi, di seguito da una grande zuppiera venivano serviti, dei tortellini fatti in casa con farina uova fresche, prosciutto, ricotta e spinaci in brodo di pollo o cappone, con abbondante formaggio grana grattugiato. Poi era la volta delle carni, prima quelle lesse, con peperoni sottaceto e altri contorni di verdure cotte, dopo venivano le carni in umido, quasi sempre coniglio con patate, infine qualche frattaglia fritta, come cervello bovino, animelle e ancora coniglio o pollo teneri, questa volta con contorno di insalata verde oppure cavolfiore fritto. A questo punto, dopo aver mangiato un po' di tutto questo ben di Dio, era la volta della frutta, per Natale non poteva mancare l'uva, non quella da tavola, ma quella bianca tipo il trebbiano toscano, conservata fino ad allora appesa ai travicelli nella stanza più fresca della casa, anche un po' di frutta secca, noci, fichi secchi, e datteri insieme alle arance e ai mandarini completavano quella che poteva essere l'ultima portata. Invece non era proprio l'ultima, mancava per finire in bellezza il dolce, ancora non erano arrivati dal nord Italia i panettoni, ma noi avevamo i nostri tipici toscani: il ponforte, i cavallucci (piccoli panetti con nocciole, noci, mandorle canditi e cannella) e i buonissimi ricciarelli, ormai conosciuti ovunque, qualche torroncino. Durante tutto il pranzo a noi piccoli non era consentito bere vino, o qualche altro liquorino che alla fine appariva sul tavolo, ma un goccio di spumante quando c'era, ce lo facevano assaggiare.
L'ambiente era riscaldato da un grande camino, che in particolare per quel giorno, rimaneva acceso in continuazione, anche la cucina economica a legna contribuiva a mantenere un gradevole tepore. Non si usava ancora fare i vari cenoni come si fanno oggi, normalmente la cena dell'ultimo dell'anno era tradizionalmente fatta o con del baccalà cucinato in vari modi, o con cime di rapa condite con semi di finocchietto selvatico, di contorno a delle salsicce e a della "rosticciana" costolette di maiale arrostite. Niente di più, solo qualche dolcetto, e quando c'era, un brindisi con un po' di spumante. A capodanno, si ripetevano, ma con meno abbondanza le pietanze natalizie. La notte prima del giorno dell' Epifania, i ragazzi usavano fare una specie di gioco, che consisteva nel preparare tanti bigliettini con scritti i nomi di donne giovani e vecchie nubili o zitelle e di altrettanti uomini da sposare di tutte le età, tutti nomi di compaesani. Il numero dei bigliettini delle donne doveva essere superiore di uno, rispetto a quello degli uomini, per di più alcuni nomi , non erano di persone reali ma di oggetti per esempio: la scopa, la catena del camino, femminili, oppure il mattarello, lo spazzolone del forno, maschili. I bigliettini con nomi di donna e femminili opportunamente ripiegati venivano riposti in un cestino, anche quelli con nomi di uomo e maschili venivano piegati e depositati in un altro cestino. La sera della vigilia dell'Epifania, dopo cena, un ragazzo a voce alta bandiva quelle che si chiamavano le befane, cioè prelevava un bigliettino da un cesto e uno dall'altro e urlava da una finestra, in modo che i vicini sentissero bene, l'abbinamento, in questi termini: " A Giovanni Rossi, gli è toccata per sua befana Anna Bianchi " e così via, fino a che a qualche giovanotto, per befana non capitava la scopa, o il mattarello a una ragazza. Alla fine quando i bigliettini si esaurivano, rimaneva il bigliettino in più quello delle donne, e il nome che vi era scritto era quello della ragazza che da subito e per l'anno in corso veniva nominata " LA BEFANA". Un modo di divertirsi inventato per quel giorno da giovani che non disponevano di tante opportunità di svaghi e divertimenti. Finite le vacanze, al ritorno a scuola ognuno di noi usava far vedere ai compagni di classe il libro ricoperto con l'incarto del panforte che avevamo mangiato durante le passate feste natalizie. Erano tempi duri, però i nostri genitori, nonostante la miseria, avrebbero fatto qualsiasi sacrificio pur di non far mancare niente in quelle che erano considerate da tutti e soprattuttlo da noi bambini, le feste più belle dell'anno.
Oggi il Natale oltre ad essere, una delle più importanti feste della nostra religione, è anche stato fatto diventare uno strumento simbolo di opulenza e di esagerato ed esasperato consumismo, a livello commerciale, con preparativi che hanno inizio due mesi prima del fatidico 25 dicembre, per la corsa ai regali e a tutto quanto possa essere eccezionalmente grandioso per cercare di rendere quella festa e quel giorno unici e indimenticabili. E come si usa dire oggi (si stava meglio, quando si stava peggio). Questa storia la dedico a molti giovani di ora, che non sono mai contenti di nulla, mentre a noi allora bastavano pochissime cose per renderci veramente felici e contenti. Di questo passo non si può sapere dove andremo a finire, e che cosa i giovani di oggi diventati nonni potranno raccontare di tanto bello ai loro nipoti del ricco Natale della loro lontanissima infanzia.
I miei migliori auguri di un Buon Natale e di un Felice 2024 ai visitatori che avranno avuto tempo e voglia di leggere questa mia vecchia storia natalizia, e a tutto lo staff Redazionale di montella.eu.