La lavatrice moderna fu inventata negli Stati Uniti nel 1906, assemblando un mastello di legno con una pompa da giardino.
Nell'aspetto e con la tecnologia simile a quella che conosciamo oggi, la lavatrice arrivò in Italia per la prima volta, nel 1946, alla fiera di Milano.
Nei primi tempi fu scambiata per una macchina per montare la panna a causa della grande quantità di schiuma che produceva e in Italia ebbe una lenta divulgazione.
Inizialmente la sua diffusione fu ostacolata sia dalle scarse disponibilità economiche delle famiglie di allora e sia dalla diffidenza delle donne verso qualunque dispositivo che sostituisse le loro abilità manuali.
Questo importante elettrodomestico cominciò a diffondersi alla fine degli anni ’50, molto lentamente, sostituendo così l’antichissimo mestiere delle lavandaie.
Tra gli elettrodomestici moderni la lavatrice è, a mio parere, quello che ha maggiormente cambiato il modo di vita quotidiana di una donna ed è considerato, non a torto, un fattore rilevante nella storia dell’emancipazione femminile.
Oggi basta il clic di un bottone per mettere in moto l’intero ciclo del lavaggio del bucato e in tal modo questo elettrodomestico affranca, con estrema semplicità, le donne dall'incombenza di “fare il bucato”.
Anche a Montella, prima della seconda metà degli anni ’60 l’unica opportunità per lavare e rendere puliti i panni era quella di fare il bucato direttamente in casa o, mancando l’acqua corrente nelle abitazioni, di andare a farlo al fiume portando la roba da lavare in capienti ceste e recando anche mastelli, spazzole e saponi.
In quel periodo le fontane pubbliche erano sprovviste di vasche per fare il bucato e le uniche due fontane adibite a lavatoi pubblici e munite di “strecolaturo” si trovavano una in via Piediserra, nelle adiacenze delle scale di via Ciociola e all'incrocio di via Piedipastini e l’altra al Largo dell’Ospizio, di fronte all'attuale parco giochi, prospiciente la sede dei Vigili del Fuoco.
Erano lavatoi molto “affollati” per cui, come mi ha ricordato un mio “anziano” amico di Montella, erano tante le “lavannare” che, per ovvie e pratiche motivazioni, spesse volte vi facevano il bucato alle prime luci dell’alba o anche durate la nottata.
Al fiume, con il grande vantaggio del non assembramento, per lavare i panni solitamente ci si sistemava in piccoli spazi con piani in pietra, lambiti dall’acqua, dove essenzialmente si svolgeva il risciacquo del bucato stando chine verso la corrente.
Soprattutto per le lavandaie di professione, il lavaggio dei panni al fiume era, perché svolto con molta frequenza, un lavoro duro, caratterizzato dal disagio di tenere le mani in frequente contatto con l’acqua e soprattutto contraddistinto dalla sofferenza peggiore del dover stare costantemente inginocchiate, protese in avanti, verso l’acqua del fiume, per insaponare, sciacquare, sbattere e strizzare i panni. Tale postura portò quelle povere donne a soffrire di quel classico processo infiammatorio clinicamente noto, appunto, come il “ginocchio della lavandaia”.
Storicamente risulta che solo dal ‘500 in Italia, a vantaggio prioritario delle “lavandaie”, apparvero i primi lavatoi pubblici i quali si diffusero in modo capillare soltanto verso la seconda metà dell’Ottocento in forma diffusa nel centro-nord e con scarsa frequenza nel Sud d’Italia.
Di contro, a differenza di alcuni paesi Irpini che, in tempi storici remoti, ebbero la disponibilità di lavatoi pubblici, a Montella i lava-
toi pubblici furono costruiti solamente negli anni ’60 e, a quel che ricordo, erano tre e furono poco utilizzati, tant’è che essi furono convertiti, in epoca successiva, in vari ed altri usi.
Attualmente il primo lavatoio, quello sito in Via della Piana, è di proprietà di privati; quello costruito a Sorbo è diventato - nell'ambito del progetto "Casali da vivere!" - parcheggio mentre il terzo - quello collocato in via M. Cianciulli - è attualmente utilizzato come deposito/autorimessa comunale.
Per altro in quest’ultimo “ex lavatoio”, tra ferraglie e rifiuti vari, dormiva, ahimè abbandonata, la lapide che i nostri avi dedicarono a Scipione Capone, una lapide rimossa dalla facciata della Casa comunale negli '90 e, malgrado i vari solleciti promossi anche dalle pagine di questa rivista, mai più sistemata. Il bucato, soprattutto se la famiglia era numerosa, richiedeva due, tre giorni di lavoro: dopo aver scaldato l’acqua in “secchiuni” e “caorare” (grossi paioli-caldaie), si sistemavano mastelli, “”strecolaturi” e ceste, all’aperto, anche d’inverno, in una zona interna o prospiciente l’abitazione, possibilmente nei presi di una fontana o di un pozzo. Tant’è che in quel periodo il bucato, pure se fatto sempre “a mano” (con bacinelle, scanno e “strecolaturi”), era svolto in ambienti riparati, con l’uso di strumenti più idonei (vasche con scarico) e soprattutto con disponibilità di acqua calda in abbondanza, insomma tante “comodità” vissute e apprezzate, prima dell’arrivo delle prime lavatrici, come segni di miglioramento, minor fatica, progresso e di conquista.
I lavatoi pubblici erano costruzioni coperte che, dotate di capienti e ampie vasche, permisero alle lavandaie e alle donne tutte di lavare i panni in piedi, mantenendo una posizione più o meno eretta e dunque, meno defatigante.
Le lavandaie di mestiere erano per lo più donne sole; madri nubili, zitelle, vedove di guerra o del lavoro o anche appartenenti a famiglie in cui il guadagno lavorativo degli “uomini di casa” era di molto scarso per cui, per la sopravvivenza della famiglia, occorreva l’integrazione di una ulteriore risorsa economica.
Quelle donne trasformavano, dunque, per necessità, la loro attività in un vero e proprio “mestiere” e lo svolgevano direttamente o anche presso le famiglie benestanti o presso famiglie in cui la donna di casa era ammalata e non poteva sottoporsi a lavori faticosi.
Nei tempi lontani, al tempo della mia lontana infanzia, ricordo che a Montella, in ogni abitazione fare il bucato a mano era un rituale tradizionale che coinvolgeva le donne di casa, principalmente le più giovani, sia nubili che ammogliate; era un’attività di molto impegnativa tant’è che un vecchio detto montellese diceva: “E’ meglio fa no figlio anziché na ‘vornata re pane” o, peggio ancora, fa na lavata re panni”
Per fare il bucato in casa la disponibilità dell’acqua era un elemento condizionante e non va dimenticato che l’introduzione dell’acqua corrente nelle abitazioni, si è concretizzata con molta gradualità a partire dagli anni ’50-‘60, una “comodità” questa che, senza alcun dubbio ha assicurato alle donne un grosso sollievo dalla loro oggettiva e palpabile fatica.
La frequenza della “lavata” dipendeva dallo stato sociale, dalle capacità economiche nonché dalla cultura igienico-sanitaria della famiglia.
Generalmente i panni erano suddivisi in “bucato bianco” (lenzuola, federe, tovaglie, asciugamani di lino o di canapa, strofinacci) e in “bucato di colore” (generalmente camicie colorate, pantaloni ed altro vestiario) e venivano lavati due tre volte al mese, mentre la parte “grossa” (coperte, imbottite, ecc.) veniva lavata in primavera e in autunno con un rituale che si ripeteva ogni anno.
Fatto con maggiore frequenza il “bucato bianco” richiedeva molta fatica e vi lavoravano tutte le donne di casa per un’intera giornata che doveva essere soleggiata. Le donne buttavano l’anima in questo lavoro massacrante ordinariamente aggravato dalle difficoltà, come sì è già detto, derivanti spesso dalla mancanza, in quei tempi, di acqua corrente in casa.
Poiché si viveva in famiglie allargate, si arrivava facilmente a diverse persone e il cumulo della biancheria riempiva anche decine di ceste e pertanto il lavoro aumentava per tali correlazioni numeriche.
Il procedimento per lavare il “bucato bianco” seguiva un rituale ben preciso, fatto di tre fasi ordinatamente scandite e conseguenziali l’una all’atra.
Stando a quel che ho letto, il processo di lavaggio era abbastanza simile in tutta la penisola italiana, da Nord a Sud e, dunque, esso si articolava in tre fasi di cui – anche nella tradizione montellese - la prima era chiamata “prima passata”, la seconda (fatta con l’uso di acqua bollente e cenere) era detta “colata” mentre, la susseguente e conclusiva terza fase era detta “risciacquo in acqua corrente”.
La prima fase iniziava nel portare a casa una buona riserva di acqua la quale, al momento del lavaggio per riscaldarla, veniva versata in grosse caldaie sistemate su robusti “treppeti”.
L’acqua calda veniva travasata in larghi “secchioni” (tinozze di doghe di legno usate essenzialmente per fare il bucato) in cui i panni, sporchissimi, subivano, sullo “strecolapanni” (detto anche “strecolaturo”, cioè un piano di legno con scanalature), appunto, la “prima passata”, vale a dire un primo trattamento con acqua, spazzola, sapone e molto olio di gomito.
Il “secchione” era molto capace e aveva un buco posto alla base da quale, al termine del lavaggio, si faceva fuoriuscire il liquido adoperato e da cui deriva il termine “bucato”.
I panni venivano strofinati a lungo su quell'asse, una prima volta, uno per uno, insaponati col sapone quasi a secco che aveva un potere sbiancante particolare, e che quasi sempre era stato fatto in casa.
Se lo sporco persisteva e c’era da sbiancarli ancora, i panni venivano ulteriormente insaponati e strofinati, ben bene, utilizzando, via via acqua aggiunta e sempre più calda.
Nella successiva seconda fase, quella della “colata”, i panni, già accuratamente lavati, venivano, con ordine, posti con cura - panno sopra panno - in un’altra tinozza di legno più grande, vale a dire in un recipiente a forma conica (grossomodo corrispondente ad una grossa “mezza botte), con una larga bocca e solitamente sprovvisto di buco posto alla base.
La sistemazione avveniva con criterio e razionalità; si procedeva a disporre le lenzuola grandi torno torno al recipiente, poi venivano sistemate quelle da lettino, quindi gli asciugamani e poi, via via al centro, le altre cose come mutande, strofinacci, tovaglioli, qualche tovaglia da tavola.
Alla fine della loro sistemazione, i panni, quasi alla sommità della tinozza, venivano coperti da un “ceneraio”, rappresentato, generalmente, da un sacco di iuta o più semplicemente da un vecchio lenzuolo (che aveva la funzione di proteggere il bucato dalla cenere) su cui appunto veniva depositato uno spesso strato di cenere che - ricavata dalla legna bruciata nel camino o nella stufa economica – contiene, come è noto, potassio.
In effetti proprio la cenere era il detersivo di quei tempi; essa, infatti - mischiata ad acqua - costituiva la cosiddetta “cenerata” o “liscivia” che in Toscana chiamavano ”ranno” e in altre regioni d’Italia denominavano anche “lissia”, vale a dire una miscela, come già detto, composta di carbonato sodico e potassico.
In altri termini era una soluzione, un miscuglio composto appunto di acqua bollita e cenere che faceva diventare bianco, morbido e profumato l’intero bucato.
E’ documentato che l’utilizzo della cenere era praticato già ai tempi dei romani e tale procedura si è protratta per tutto il Medioevo e il Rinascimento.
Dalle mie “ricerche” ho anche scoperto che nei paesi del Nord Europa alluso della cenere fu aggiunto l’utilizzazione di materiale grasso, animale e vegetale, tanto da ottenere, in tal modo, un rudimentale sapone.
Ho inoltre appreso che, in Toscana, talvolta per rendere più efficace l’azione sgrassante del “ranno” venivano aggiunti gusci d’uova tritati e che, nel primo risciacquo dei tessuti bianchi, si aggiungeva l’indaco, soluzione acquosa di materia colorante azzurra, ottenuta dalla macerazione di “piante indigofere” (arbusti della famiglia delle Leguminose da cui – con la fermentazione delle foglie - si ottiene l'indaco, un colorante di origine vegetale).
Inoltre nei risciacqui susseguenti per dare profumo al bucato si utilizzavano spesso alcune foglie di lavanda e venivano anche aggiunti spigo (una specie di lavanda selvatica) e steli di alloro.
Più tardi oltre al “ranno”, per la pulizia dei panni, la funzione sgrassante del lavaggio fu affidata all’uso della soda, nome commerciale del carbonato sodico, ottenuto dal cloruro di sodio anidro.
In definitiva questo misto di acqua e cenere era per l’appunto la lisciva o ranno; conteneva potassio e fosforo, filtrava attraverso i tessuti e svolgeva la stessa funzione svolta dagli additivi usati dai moderni detersivi per lavatrici !
Oltre alla “lisciva” o “liscivia” per lavare e imbiancare si usava anche una soluzione a media concentrazione di idrati e carbonati alcalini nonché la varecchina, detta “candeggina” o “acquetta”, soluzione di ipoclorito sodico, usata principalmente per smacchiare.
Solo in tempi più recenti si affermò, perché prodotto a livello industriale, l’uso del sapone in pezzi o “liquidato”. Il più famoso sapone commercializzato è sicuramente il sapone di Marsiglia, denominato così dalla città francese in cui si trovava la maggiore produzione.
Alla composizione tipo di oli e grassi vegetali in proporzioni variabili, venivano aggiunte spesso altre sostanze che ne cambiavano l’aspetto e la destinazione d’uso: gli ossidi ferrosi per ottenere il marmorato rosso adatto a lavare capi pesanti e molto sporchi; il marmorato verde o blu, ottenuto aggiungendo ossidi di rame e di piombo, reclamizzato dalle case produttrici con la dicitura “Lava anche con l’acqua di mare”; il sapone liquidato, più adatto a capi delicati, era ottenuto sciogliendo in acqua scaglie di sapone solido grattugiato.
Dopo queste “divagazioni storiche”, ritorniamo alla descrizione del ciclo di lavaggio del “bucato bianco”, ribadendo che esso, dopo la cosparsa la cenere, veniva coperto con un telo, su cui veniva versata acqua bollente fino a riempire la tinozza fino all’orlo.
E’ ovvio ricordare che l’acqua veniva preparata e riscaldata a parte, in vari paioli e solo quando era bollente la si versava sulla cenere, al centro, dove c’era la “fontanella”, i panni piccoli, fino a riempire il mastello.
Conclusa l’operazione di travaso, un grosso coperchio chiudeva il mastello e lì dentro la biancheria riposava, “custodita” da quell’acqua, in ammollo, per tutta la notte, calda e ben protetta.
La fase fin qui descritta era una fase molto importante, perché garantiva sia il lavaggio radicale del bucato sia la sua sterilizzazione e soprattutto si assicurava l’eliminazione dei parassiti (acari, cimici, pulci) un tempo molto presenti.
Era attraverso l’operazione di “incenerimento” che i panni, così sistemati, pian piano riacquistavano il colore naturale e al mattino, alle prime luci dell’alba, erano pronti per la terza ed ultima fase, vale a dire quella per il “risciacquo” in acqua abbondante e corrente.
Di fatto quest’ultima fase iniziava l’indomani, di buon’ora, allorquando, i panni venivano estratti dalla tinozza, uno ad uno, venivano strofinati, compressi, attorcigliati, torti fino a farne uscire tutta l’acqua saponata
Fatta questa operazione si procedeva a recuperare il composto di cenere ed acqua bollente già utilizzata nella seconda fase (vale a dire la lisciva); quel composto veniva ripreso per essere di nuovo bollito e pertanto veniva versato in un’altra tinozza, attraverso un ciclo di “riempimenti e svuotamenti” che richiedeva tempo e lavoro.
Insomma nulla era buttato, tutto veniva recuperato e l’inquinamento era una parola ancora da inventare.
Specificatamente ritornando alla terza e conclusiva fase del lavaggio dei panni, essa iniziava nella primissima mattinata, come già detto, di buon ora, allorquando i panni (estratti dalla tinozza e liberati dalla cenere ) venivano ben torti e riposti all’interno di cesti per essere (nelle situazione di non disponibilità di acqua corrente in casa) portati - a spalla o con il “truocchio” sulla testa ad un lavatoio pubblico, se c’era, a qualche ruscello, al fiume o a qualsiasi altra località dove scorresse acqua pulita.
In tempi passati, a Montella la località ordinariamente prescelta per il lavaggio dei panni era grosso modo in contrada Trucini-San Vito, in quella parte territoriale ove oggigiorno si intersecano varie strade, tra cui, da ultimo, anche la variante proveniente dalla “zona industriale” di Folloni.
In quel contesto, il fiume (proveniente dalle gole del Varo della Spina e del Varo della Cupa), precipitava, subito dopo “Chiuppito”, dalla “pelata”, passava (con le sue acque limpide e gorgheggianti) sotto il vecchio ponte romanico e, prima di “stendersi” verso la zona pianeggiante di Folloni, attraversava e lambiva una fascia di territorio unica, in cui confluiva quasi tutta la rete fluviale montellese; una vasta superfice fatta di petraie che, per via del suo lungo greto (spazioso, aperto e di facile accesso) costituiva il luogo ideale per il lavaggio dei panni, anche perché, con il bel tempo, era molto soleggiato.
Contrariamente ad oggi, il nostro fiume Calore - in quell’epoca - era “vivo”, “parlava” con il suo scroscio spumeggiante, costante, gorgogliante, ricco d’acqua, sempre, anche con la calura estiva.
Oggi, ritornandovi, quel, luogo, è l’immagine di un triste spaesamento perché il paesaggio è irriconoscibile per le scarse acque, modificato dalle sopraggiunte strade, “violentato” dal nuovo ponte, “stuprato” dal disboscamento nonché stravolto dalla discutibile collocazione dei “chiacchierati” depuratori !
Nel ricordo della mia infanzia quel tratto del fiume mi appare, ancor oggi, un’autentica oasi paesaggistica, magica, ecologicamente incontaminata, naturale, in cui la sonorità dei canti e delle risate delle “lavannare”, soprattutto delle più giovani, aggiungevano, con la loro presenza, un fascino inimmaginabile.
In quella parte del fiume “le signore del bucato” si assegnavano, non senza qualche bisticcio, i posti in ordine di arrivo e si mettevano all’opera sciacquando, sciorinando e sbattendo i loro panni.
Con schiena di acciaio e braccia di pietra, le lavandaie, con movimenti ritmici, (a schiena curva, braccia forti e polsi vigorosi) sgrassavano i panni con il sapone, li strofinavano, eliminavano qualsiasi residuo di cenere, li sbattevano ripetutamente eseguendo diversi risciacqui in acqua fresca che esigevano lena, forza e tanta resistenza.
Il problema era trovare una pietra ampia, semisommersa, che consentisse l’insaponatura della biancheria e lo “strizzamento” dopo il risciacquo, occorreva anche una collocazione ove l’acqua corrente non fosse né violenta né stagnante. Nessuna donna si allontanava dal gruppo per timore di qualche “adescatore”, del “lupo malandrino”. Se faceva caldo si toglievano la casacca quasi sempre scura e rimanevano col corsetto, un po’ scollato che mostrava la pelle bianco-latte. Nessuna perdeva di vista il proprio bucato che veniva lisciato con le mani, piegato, ridisteso, cambiato di verso e di posto. Il lavaggio fatto ai lavatoi o al fiume era, come appare evidente, abbastanza gravoso e c’è da dire che la pesantezza del lavoro era in parte alleviata dal fatto che il lavatoio e il fiume erano uno dei pochi luoghi di aggregazione femminile nei quali le donne potevano andare senza essere accompagnate.
Concluso il lavaggio, prima di metterlo ad asciugare, il bucato andava strizzato ben bene, i capi erano tenuti fra due donne, li si faceva girare in parti opposte e solo dopo questa operazione il bucato veniva disteso nei prati per l’asciugatura,
in particolare sui cespugli o anche sui ”pesconi” del fiume per evitare che animali potessero calpestarli.
Cespugli, “pesconi” e il sole facevano miracoli: anche le macchie più ostinate sparivano come per incanto e il bucato appariva con un candore che ricordava quello della neve.
Certo delle volte le lenzuola mostravano i loro anni con belle pezze ricucite che non erano una vergogna. Steso il bucato al sole, subentrava il momento del relax. Un benefico e meritato riposo arrivava quando tutte, in circolo, consumavano la colazione portata da casa; bevevano un bicchiere e si ritempravano raccontando qualche pettegolezzo recente.
Nel tardo pomeriggio, quando ormai i panni erano asciutti, si era pronti per il ritorno a casa. I panni venivano dunque raccolti e disposti, in bell’ordine, nelle ceste, prima i più pesanti, poi i leggeri; un asciugamano, piegato, rimboccava il carico facendo da sponda.
Il sole tramontava e le donne rientravano nelle case da cui erano partite la mattina, stanche ma soddisfatte perché il bucato, da loro trattato, profumava di aria e di pulito, era di un bianco abbagliante, era stirato perfettamente, solo con le mani, tanto da poter essere conservato nelle casse o negli armadi per l’uso domestico.
L’andare al fiume era molto provvidenziale anche per la collaborazione di altre donne, amiche o anch’esse lavandaie senza le quali era impossibile torcere la biancheria.
Come già detto, per strizzare l’acqua dalle lenzuola (di lino o cotone grossolano) ci volevano due persone che prendessero quei capi da una parte e dall’altra del lato corto, non c’erano altre alternative.
Di fatto, in quell’ ”universo tutto femminile”, ci si scambiavano consigli e pettegolezzi, ricette, si partecipava alle gioie e alle disgrazie delle altre e si condividevano le proprie; si cantavano canzoni nostalgiche e,
canti folcloristici ironici e amorosi, stornelli satirici e a dispetto, si tramandavano storie e racconti di vita, si rideva e, talvolta, si litigava, anche in modo violento.
Erano occasioni in cui, liberamente, si rifletteva sulla propria disgraziata condizione e su quella altrettanto precaria di molte altre donne.
In un libro si storia sindacale ho trovato evidenziato che le prime rivendicazioni dei diritti femminili nacquero, si diffusero ed affermarono proprio in quei luoghi di aggregazione; in quel medesimo testo l’autore affermava che “proprio per quelle ragioni gli antichi lavatoi, anche sulla base delle direttive emanate dall’Unione Europea, dovevano essere conosciuti, tutelati ed apprezzati come siti storici” !
Ripensando alla mia infanzia ricordo che, come in tante altre famiglie montellesi, anche a casa mia si faceva il sapone e ordinariamente lo facevamo quando si ammazzava il maiale, poiché, in tale circostanza, c’era disponibilità del suo grasso e di altre sostanze di scarto, non commestibili.
In una grossa caldaia si mettevano tre parti di grasso (per lo più lardo e sugna) e una di soda caustica. Si mescolava il tutto fino a quando non diventava liquido, lo si faceva bollire per un bel po’ e alla fine lo si faceva raffreddare. Una volta rappreso si rovesciava la caldaia e ne usciva un grosso blocco di sapone che doveva essere tagliato in pezzi piccoli e maneggevoli.
Era un sapone di colore grigio-verde, con particolare potere sbiancante, secco, duro, non molto schiumoso. Si chiamava Canitella, era una nostra lontanissima parente; abitava in via Gamboni; era una zitella per sua volontà giacché, in giovanissima età, aveva perduto il fidanzato, “Grazio”, morto tragicamente sul lavoro, in una cava.
Quando ero piccolo, in casa mia - tra nonni, genitori, figli e zii – eravamo circa una dozzina di persone.
Fortunatamente disponevamo dell’acqua corrente e pertanto, quando si faceva il bucato - soprattutto con il coordinamento di “zia Peppa” (zia Giuseppina) - la “prima passata” e la “colata” dei panni (quella del primo lavaggio e del “ceneraio”) veniva eseguito, direttamente in casa nostra; la terza fase era fatta in casa solo d’inverno con molto spreco d’acqua e d’estate, di contro, veniva fatta al fiume.
Avevamo una “lavandaia a domicilio” la quale, per lunghissimi anni, è stata sempre la stessa.
Io la ricordo sempre vestita di nero, con la gonna lunga arricciata in vita, la camicia, il fazzolettone legato a pizzo sulla testa, il grembiule per ripararsi gli abiti.
Educata e tranquilla, godeva della massima fiducia in casa nostra.
Nonostante la sua ferita amorosa, Canitella era dolce, affabile. Mi voleva bene e mi piaceva; ancor oggi la ricordo con affetto e soprattutto ricordo le non rare occasioni in cui, d’estate, bambino di quattro-cinque anni, attaccato alla sua gonna, mi recavo con lei sul fiume Calore allorquando, Canitella, con altre sue “colleghe” vi si recava per l’esecutività della terza fase del lavaggio dei panni della mia famiglia.
Era forte, lavorava bene; i panni, in mano a lei, subivano sbattute e torture impensabili.
Era allegra e durante il suo lavoro cantava sempre canzoni paesane.
Come è immaginabile erano quelle giornate per me fantastiche, vissute in libertà, trascorse lungo le petraie del riva del fiume, nel giocare – sguazzando e a piedi nudi - con la gelida acqua, lanciandovi sassi o facendovi scorrere pezzi di legno che, nella mia immaginazione, erano barche e vascelli corsari !
Quando si ammalò (era ormai anziana) fu sostituita da “Macolata”, una donna mastodontica, forte e grossa, allegra di carattere, più chiacchierona.
Era molto simpatica e usava un linguaggio diretto e spontaneo, anche un po’ disinibito e anch'essa cantava sempre canzoni, allegre, sia paesane che quelle del festival di San Remo.
“Macolata” fu la “nostra” lavandaia a domicilio fino alla fine degli anni ’60, cioè fino quando in casa mia, come in molte altre case italiane, fu acquistata (susseguentemente al fornello a gas) anche una lavatrice automatica alla quale, per la cronaca, seguirono prima un frigorifero e più tardi ancora un televisore.
In quegli anni dunque, con il cosiddetto “bum economico”, l’attività delle lavandaie, sia quelle di professione e sia quelle a domicilio, sistematicamente, come tante altre attività artigianali, vennero ad estinguersi e fu proprio l’avvento della lavatrice elettrica che determinò la scomparsa di quell'antico mestiere, che apportò la lenta estinzione di quelle “maestre del bucato” e , dunque, la conclusione di un’epoca di fatiche, di lavaggi con la liscivia, di “colature”, di “risciacqui” lungo i corsi d’acqua, di panni lindi e profumati.
La lavatrice (da molti considerata un fattore rilevante nella storia dell’emancipazione femminile), obiettivamente fu una conquista di portata storica giacché, a ben riflettere, liberò il cosiddetto “angelo del focolare” dalla schiavitù del bucato, le “diede respiro” e più tempo per sé, ma soprattutto la affrancò da una fatica umiliante, immane che lasciava le ossa rotte e lo spirito affranto.
In tempi lontani la figura della lavandaia è stata, per altro, oggetto e soggetto di pittori, scultori, poeti e scrittori.
Tra i poeti va ricordato Giovanni Pascoli, il quale dedicò proprio alla lavandaia una notissima poesia, “Lavandare”, una composizione in cui il poeta romagnolo canta “lo sciabordare delle lavandaie con tonfi spessi e lunghe cantilene”, mentre molti dipinti, anche di pittori impressionisti famosi, quali Renoir, Gaugin, hanno rappresentato la lavandaia nella loro non facile attività.
In giro per l’Italia, come anche in tutta Europa, si rinvengono oggi, dedicati alla lavandaia, musei, monumenti e statue che hanno il pregio di ricordare alle generazioni future il sacrificio e la fatica di queste donne, e della donna in generale.
Anche a Montella la figura della lavandaia, come tante altre, è stata assai “familiare” e per molto tempo è stata parte importante del quotidiano comune della gente ma, ahimè, nel giro di pochi anni, fu anch’essa inghiottita nell’obblio sia dal mutar del tempo che dalla medesima “modernità”.
La sua figura – nella nostra tradizione paesana – resta, comunque, ancor oggi, legata ad una antica, romantica e tragica storia d’amore; quella che narra della seduzione e dell’abbandono subito, appunto, da una bella e popolana lavandaia montellese che, angosciata e disperata per il suo “disonore”, si lasciò andare da quel ponte che ancor oggi è denominato “Ponte della lavannara”.
E’ quello un antico ponte, romanico; un ponte che conduce alla Montagna” del S.S.S. Salvatore; quello adiacente ai ruderi del decaduto mulino ad acqua, un ponte , dunque, noto e correlato a una testimonianza della vita sociale del passato, di un mondo lontano, lontanissimo, da tutelare, conservare e valorizzare perché legato alle nostre radici le quali, per l’argomento fin qui trattato, passano anche attraverso le “lavannare”, le “colate” e i “panni sporchi” di una volta, quelli , appunto, ………… lavati a mano !
] Montella - Il ponte della lavannara
(Disegno di Nino Tiretta eseguito nel 1980 e riprodotto nel libro “Montella , il fascino del passato” pubblicato, nel 1991, a cura di Carlo Ciociola, Luigino Volpe e Salvatore Bonavitacola)
N.B. : Questo articolo è già stato pubblicato sul periodico "Il Monte" - Sezione "Irpina Magica" - Anno XV - n. 1 gennaio - aprile 2018