Montella,città di Casali - Chi, oggi, osservasse da una posizione altimetrica il panorama della città di Montella ammirerebbe un vasto ed alquanto compatto agglomerato abitativo, disteso in un ampio fondovalle modellato in diffuse aree collinari, in una zona pedemontana, circondata dai colli Castello, San Martino, Toriello e SS. Salvatore, sovrastati e come protetti dalla maestosa imponenza delle montagne Sassosano e Cervialto. Ma nessuna traccia, seppur labilissima, potrebbe scorgere della secentesca topografia della civitas Montellae, sistematicamente e gradualmente modificata già dai primi decenni dell'Ottocento e, a partire dal Novecento, a seguito della crescita demografica, completamente obliterata, fino alla caotica cancellazione dei centri storici dopo l'irrazionale ed irrispettosa esplosione edilizia del dopo-sisma del novembre 1980.
Tuttavia, una pianta di Montella, risalente al secolo XVII, conservata nell'archivio della nobiliare famiglia locale degli Abiosi, ci consente con straordinaria verosimiglianza di poter ridisegnare ed immaginare la topografia di quel tempo.
Si rileva subito che l'università di Montella, dissimile in questo da quasi tutti i paesi del Principato Ultra, non aveva le caratteristiche urbanistiche del borgo, sviluppatosi a partire dal Medioevo: non circondata da mura, né organizzata intorno alla residenza del feudatario o alla cattedrale.
Si presentava dislocata in diversi nuclei sparsi, detti casali, che erano, probabilmente, insediamenti derivanti dai modelli abitativi delle popolazioni irpine e dei contadini romani: i vici.
Originariamente i casali erano minuscoli agglomerati generalmente a base agricola ed economica autosufficiente. Formati da un esiguo numero di case, ciascuna posta in mezzo a terreni coltivabili (territorio di pertinentia), cominciarono a formarsi quando le condizioni storiche poterono assicurare una relativa tranquillità esistenziale nelle campagne, permettendo alla popolazione di lasciare le antiche dimore a ridosso del Monte, scelte come luoghi di arroccamento e di difesa nelle vicinanze del Castello, e cercare a valle nuovi terreni da mettere a coltura, spinta dalle impellenze dell'espansione demografica verificatasi tra l'IX e il X secolo. Furono, inizialmente, degli aggregati rustici. Con la istituzione e la nascita dell'università a partire dal secolo XII si avviarono sempre più verso un accrescimento numerico ed una pressoché uniforme conformazione geometrica, che appariva ormai tipica e consolidata già dal XIV secolo in età angioina: una topografia caratterizzata da un policentrismo urbanistico e dall'assenza di mura, con agglomerati abitativi costituiti da fabbricati che si accentravano in maniera abbastanza fitta attorno ad una chiesa o contornanti piccole corti, cui si poteva accedere da un unico ingresso ad arco, che ne preservava la tipologia "chiusa" e la "inattaccabilità" dall'esterno.
Le case rispecchiavano la tipologia cosiddetta "italica", prevalente nella civiltà contadina: una struttura edilizia unifamiliare su due piani, con pianta per lo più rettangolare e con tetto a pioventi poco inclinati.
Nel corso del Seicento, in prosieguo di uno sviluppo edilizio già in atto nella metà del Cinquecento, si andavano mutando l'habitat e la forma urbis.
Accanto alle semplici e modeste abitazioni dei ceti popolari e contadini si ergevano le dimore signorili, le case palazziate delle famiglie aristocratiche e della borghesia possidente, ubicate in siti strategici dei casali, le quali, unitamente alle nume rose strutture edilizie ecclesiastiche, ridisegnavano lo spazio fisico del paese, assumendo al contempo la simbolica presen za di un potere sociale ed economico che finiva con l'instaurare un rapporto di patronage sulle classi meno abbienti e, in definitiva, un rapporto di «subordinazione di frange di popolazione verso singole famiglie patrizie», impegnate a consolidare il proprio potere locale attraverso la «partecipazione all'amministrazione civica, il controllo delle cariche pubbliche, della finanza locale e di tutte le principali forme di protezione economica e commerciale». Erano già esistenti i palazzi signorili di famiglie nobili o benestanti e socialmente influenti, come Abiosi, Capone, Boccuti, Lepore, Delli Bovi, Cianciulli, Palatucci, Pascale, Volpe, Vernicchi; più tardi sorgeranno quelli dei Trevisani, Bruni, Carfagni, Gambone, Marano, Motta, Coscia.
In questo processo di aristocratizzazione dello spazio il ruolo preminente era rappresentato dal palazzo baronale, ormai insediato - dopo l'abbandono del Castello del Monte già diruto - nel centro urbano, nella zona bassa del paese, in uno spiazzo denominato originariamente Piazzile di Corte, il quale con la sua imponenza, la sua inaccessibilità, la sua magnificenza veniva visto non più come luogo di riparo, di accoglienza e di difesa (come il Castello medievale) bensì come segno di un dominio, come muta presenza di un potere coercitivo.
In un documento del 1613 ne viene descritta e decantata la sua grandiosità: “l'abitazione di detto barone è situata in un piano, consistente in un cortile grande murato con 2 gradiate, una di essa a mano destra, per la quale si sale sopra un corridore coperto, che gira attorno tutto lo palazzo predetto, sino all'altra gradinata; e da detto corridore s'entra in una sala bella e gran de, in piano della quale vi sono tre camere grandi et tre mediocri, et una torretta, tutte intempiate, dove stanno coperte di scandole; et sotto di esse vi sono cocina, cantina per conservare vino, stalle, magazzeni per conservare et altre comodità. A mano sinistra l'altra grada, per la quale s'implana al corridore medesimo, dove si trova un altro partamento antiquo, con una sala, quale si cerca accomodare, et più camere, divise in camerette, coverte similmente a scandole. In testa di detto palazzo è lo giardino murato fruttato di diversi frutti, per comodo di detto palazzo. Accosto di detto palazzo e giardino vi è un altro giardino grande, con molti piedi di di verse pera bellissime, tra le quali vi sono le pere boncristiano, ed altri frutti bellissimi•”
Alquanto imponenti apparivano anche le case palazziate dell'aristocrazia terriera e nobiliare, le quali, pur conservando una essenzialità e severità di linee, tentavano di emulare lo "spagnolesco" gusto barocco delle sfarzose dimore della capitale partenopea, dove essa aveva talvolta altra residenza familiare. Costruite su due livelli, annoveravano decine di stanze. Dopo l'ingresso, con portale sormontato dallo stemma gentilizio in pietra scolpita, si dischiudeva il cortile, solitamente coperto, di forma quadrata, pavimentato con ciottoli di fiume o basoli resistenti al traffico di animali e carrozze, che immetteva nel giardino interno ricco di fiori e frutti. Al piano terra si aprivano sulle ali gli ambienti di servizio: cantine, rimesse, stalle, fienili per i foraggi, cisterne, magazzini, cucine con focolari, lavatoio e "formali" per il rifornimento dell'acqua e ripostigli ricavati nella spessa muratura di tufo. Al centro dell'atrio uno scalone in pietra portava al piano superiore adibito a residenza.
Gli appartamenti (i quarti o quartini) erano costituiti da un salone centrale comunicante con la cucina e la dispensa e con accesso alle camere da letto. Le stanze, con pavimento in riggiole in cotto, lucidate con cera e grassi per ravvivare l'argilla, avevano soffitti a volta o piatti. Le camere, quasi sempre, erano infilate l'una nell'altra. C'erano lo studio-biblioteca con alte librerie in legno e grande scrivania, dove facevano bella mostra fermacarte, calamai e penne d'oca finemente lavorati; c'era talvolta la cappella di famiglia con altare in stucco. Diffusi erano divani e poltrone di legno imbottiti, e tavolini rettangolari (boffette) sormontati da grandi specchi o da quadri raffiguranti antenati del casato o scene mitologiche.
Dal cortile si poteva accedere attraverso un cancello al grande giardino recintato, solcato da viali ed ornato di piante, fontane, tavoli e sedili in pietra sotto ombrosi chioschi: il palazzo, cioè, inteso come piccolo mondo chiuso ed autosufficiente, vivace e laborioso, nel quale si affaccendavano servette addette a rassettare, stirare, cucinare; garzoni per spaccar legna, tra sportare derrate di lunga conservazione e cesti colmi di masserizie provenienti dalle terre di proprietà o recapitare private missive; giovani addetti ai cavalli e alla manutenzione di carri e carrozze.
Le case del popolino, dei contadini e dei poveri artigiani nella loro sobria e semplice struttura rispecchiavano l'umile e faticoso tenore di civiltà dei suoi abitanti.
Edificate pietra su pietra con malta di arena di fiume (in altre province limitrofe veniva ancora usato il loto), al pianterreno (sottano) avevano il locale rustico (catuoio), stalla, fienile, porcile o bottega; al primo piano (soprano) l'abitazione, cui si accedeva per mezzo di una scala esterna solitamente fornita, al termine superiore, di una loggetta o balcone sporgente, privi di ringhiera di protezione.
La vita quotidiana della famiglia si svolgeva in una o tutt'al più due stanze: cucina e dormitorio. In cucina minimi ed essenziali l'arredo e le suppellettili. Al centro una tavola piallata di pioppo fungeva da desco e banco di lavoro. Il focolare, con o senza canna fumaria, addossato ad un muro era contornato da qualche scranno o da cilindri di legno come sedili (zizzi) e da una cassapanca contenente legna da ardere. Veniva utilizzato come posto di cottura. Poche persone avevano una cucina realizzata in pietra, con al massimo due fuochi, sotto i quali veniva ricavato un piccolo spazio per la legna o il carbone. Appesa qualche fuligginosa scansia dove venivano riposte indispensabili derrate, come farina, olio, sugna, farina, aceto, vino, sacchetti di legumi. In qualche angolo erano alloggiati un braciere di stagno e una sorta di cesta di legno dolce a larghe maglie capovolta per asciugare i panni (asciuttapanni). Pochissime le stoviglie, che solitamente venivano portate in dote dalla sposa: una caldaia grande (caorara), una piccola, un tegame (sertania), una cocchiara, un bollilatte d'argilla (pignata), alcuni bicchieri di legno o terracotta (il vetro era un lusso), qualche tovaglia.
In un'altra stanza un sesquipedale letto occupava quasi tutta la superficie della camera.
La lettiera era costituita da quattro o cinque tavole di pioppo poggiate su due cavalletti di ferro, sulle quali era posizionato il materasso composto da un saccone di stoffa ripieno di foglie di granturco. Il materasso con imbottitura di lana era privilegio di classi benestanti; era un bene portato in dote e lasciato in eredità.
Nel letto trovavano posto i genitori ed i figli più piccoli. Nelle famiglie numerose gli adulti, quando non avevano la disponibilità di un secondo letto, erano costretti a dormire nella stalla, dividendo lo spazio con qualche animale domestico.
A lato del letto, in un'apposita nicchia scavata nella muratura, erano poggiate una bugia con stearica per la notte e l'immancabile coroncina del rosario; a capo, in alto, un quadro raffigurante la Madonna con Bambino; sotto l'indispensabile cantaro per i bisogni corporali (orinale), a lato una cassa di legno contenente la biancheria.
Nelle case non esistevano bagni. I bisogni fisiologici si espletavano all'aperto, dietro cespugli od anfratti nelle vicinanze dell'abitazione o nel cantaro, che di notte veniva normalmente svuotato in strada dalle finestre, così ammorbando ancor più l'aria e le teste di malaccorti passanti. Solo nelle dimore signorili o in case con terreni di proprietà esistevano pozzi ciechi scavati negli orti, che venivano periodicamente nettati da persone addette a questo «inverecondo» lavoro.
Per lo smaltimento delle acque nere e dei liquami urbani non esistevano cloache o fognature. Venivano regolarmente gettati in strada e si incanalavano in corsi acquosi «puzzolenti, perniciosi per le esalazioni che emanavano», che invadendo le vie (non tutte selciate bensì «petrose, penninose e brecciose») le tra sformavano, specie nelle giornate piovose, in canaloni fangosi a cielo aperto, formando laghetti, transitabili solo a dorso di asino o di mulo, con carrozze o lettighe o servendosi, dietro compenso di qualche grana o tornese, dei cosiddetti passalava, persone nullafacenti che trasportavano a braccia chi voleva attraversare la strada. Nonostante le severe disposizioni emanate dall'università per il deposito delle immondizie in appositi spazi palizzati, spesso i rifiuti venivano lasciati per giorni in strada al sole e alla pioggia, per cui, solidificatisi o divenuti melma, si stratificavano. Il sindaco finiva col dare ad appaltatori privati la raccolta del letame, che veniva venduto come concime o come materiale edilizio.
Nella zona centrale del paese si apriva la Piazza Maggiore, nel casale detto Li Favali, luogo di rapporti comunitari, di ritrovo e di socializzazione. Nel largo «con arbore di teglia ed olmo, con botteghe ed artigiani» era situata la chiesa madre Collegiata di Santa Maria del Piano, affiancata dalla tozza torre campanaria di due piani di recente costruzione, dotata di due campane, una delle quali serviva da orologio. Le campane scandivano i tempi della vita religiosa e del lavoro, annuncia vano le feste e i funerali; ritmavano le ore del mattutino, del pomeriggio, della controra e del vespro.
Dirimpettai sorgevano i locali del carcere e quelli del pubblico Parlamento, nel cui ingresso era situata la campanella per convocare i cittadini nelle occorrenze delle assemblee del popolo.
A sud, adiacente al ponte detto della Lavandara, sul fiume Calore, sorgeva il mulino comunale fatto costruire dal conte Garzia Cavaniglia fin dal 1564•
Straordinaria la presenza nell'università delle chiese: 17 edifìci di culto, un numero che non trovava riscontro in alcun paese di Principato Ultra.
Chiese nel sec. XVII:
1. Santa Maria del Piano (Collegiata)
2. S. Benedetto
3. S. Giovanni
4. S. Nicola
5. S. Michele Arcangelo
6. Santa Lucia
7. S. Silvestro
8. Santa Maria la Libera
9. S.S. Annunziata
10. Santa Maria del Carmine
11. S. Antonio Abate
12. S. Leonardo avanti Corte
13. Santa Maria Visita Poveri
14. Santa Maria del Monte (detta della Neve)
15. S. Francesco a Folloni
16. S. Vito
17. S. Pietro
Di esse soltanto sette erano parrocchie, alle quali era stata at tribuita dal vescovo della diocesi di appartenenza (Nusco) la cura pastorale degli abitanti dell'università, secondo una ripartizione territoriale dei casali, effettuata sulla distanza di questi dall'ubicazione delle chiese e sulla quantità dei fuochi.
Alla Collegiata erano ascritti i casali Favali, Rialboro, Piazzavante, San Mauro e Serra Rocca.
A San Michele Arcangelo, i casali di Sorbo e Sorbitello.
A Sant'Antonio Abate quelli di Serrapadulana e San Simeone. A Santa Lucia, i casali di Piedi-lo-Pastino, Santa Lucia e Gamboni. A San Silvestro quelli di Pendino e Fontana.
A San Giovanni, i casali di Ferrari e San Giovanni.
A San Pietro e San Nicola facevano riferimento religioso i casali di Garzano, Serra, Cisterna, Spinella, Pensone e Laurini
Come le case palazziate anche le chiese contribuivano alla trasformazione della forma urbis, determinando non soltanto una caratterizzazione architettonica degli spazi urbanistici, ma anche una interferenza significativa nel tessuto politicosociale. La pletorica diffusione dei luoghi di culto sull'intero panorama abitativo, oltre ad essere segno di profonda sacralizzazione del territorio, diveniva altresì simbolica e semantica presenza di un'interferenza capillare nella vita sociale, nello stile di vita della popolazione, nonché nella realtà politica ed economica dell'università.
Nell'Inventario dei censi di S. Francesco, redatto nel 1532 dal
notaio Paolo Gargano, il territorio dell'università di Montella risultava topograficamente suddiviso in sette grossi agglomerati, detti piazze seu cetole, che inglobando ciascuna un certo numero di casali contermini si facevano portavoce di comuni esigenze e petizioni presso il feudatario e l'amministrazione, mediante un proprio rappresentante prescelto, denominato «capopiazza».
Piazze Casali annessi
Li Favali Rialbolo - Piazza - Serrabocca - S. Bene detto - Piazzavano - S. Mauro.
Santa Lucia li Marandoli - Piedipastini – li Gamboni - Piazzale di Corte
Fontana S. Silvestro - Incrocata - li Milani - lo Pendino
San Giovanni San Giovanni de Fundana - li Ferrari.
Sorbo Sorbo - Sorbitello
San Simeone Serrapadulana - S. Eustachio
Garzano La Serra - La Torre - La Cisterna - La Spenella - La Cittadella.
Ma agli albori del secolo XVII alcuni casali apparivano nominalmente obliterati, probabilmente perché abbandonati dai propri abitanti o perché, di minime estensioni e popolazioni, fusi ed integrati in altri più grandi, economicamente e socialmente più ricettivi e vantaggiosi.
Nel 1613 ne venivano censiti soltanto 22, i cui toponimi grazie ad una secolare cristallizzazione nominale sono ancor oggi conservati:
1. li Favali (la pubblica piazza)
2. Realboro (o Rialbero)
3. Piazzavante (o Piazzavano)
4. San Mauro
5. Serra Rocca (o Serrabocca)
6. Sorbo
7. Sorbitello
8. Serrapadulana
9. San Simeone
10. Piedi-lo-Pastino (o Piedipastino)
11. Santa Lucia
12. li Gammoni
13. Pendino
14. Fontana (o Fundana)
15. Ferrari
16. San Giovanni
17. Garzano
18. Serra
19. Cisterna
20. Spinella
21. Pensone
22. Laurini.
Decifrare la genesi e la storia toponomastica dei casali, individuando la spiegazione ed il significato dei nomi di luogo, comporta i consueti problemi interpretativi propri della toponomastica storica, soprattutto di quella di un passato lontano, che non ci ha lasciato precise e motivate registrazioni archivistiche.
Il ricorso a mediazioni etimologiche, geografiche, storiche e antropologiche, appartenenti ad un metodo scientifico di studio, non sempre approda alla certezza esegetica del toponimo, costringendo talvolta lo storico a servirsi di una interpretazione paraetimologica o a formulare ipotesi e persino plausibili congetture.
Dei toponimi dei casali della Montella secentesca non presentano dubbi illustrativi, perché di patente significato, quelli derivanti da nomi di santi, come gli agiotoponimi San Mauro, San Simeone, Santa Lucia, San Giovanni, cui erano dedicate chiese o templi.
Altri sono di semplice e comprensibile lettura, perché collegati a caratteristiche geografiche e morfologiche locali o a specificità del luogo o degli abitanti, come:
- Pendino: luogo scosceso;
- Sorbo e Sorbite/lo: fitotoponimi della zona (detti anche Sorbo grande e Sorbo piccolo);
- Piedi lo pastino: luogo dove terminavano i terreni coltivati a frutta o vigneti (dal lat.pes -dis - parte terminale e pastinum - terreno divelto);
- Cisterna: per la presenza di pozzi d'acqua da attingere;
- Ferrari: casale abitato prevalentemente da lavoratori del ferro;
- Gamboni: antroponimo dal cognome prevalente del posto;
- Laurini: in memoria della tribù dei Laurinates che vi stanziò.
- Li Favali: era il casale della Pubblica Piazza, già denominata "Piazza de li Fabali", da fabalis, le fave che in quel territorio venivano coltivate. Al tempo dei longobardi detta anche li Scarani, da scare, compagnie di contadini e di braccianti addetti alla lavorazione della terra ed alla pastorizia. Meno convincente la derivazione dal verbo latino fabulari·, con riferimento a luogo del Parlamento o di assemblea.
Il toponimo Serra, dal latino serra nel significato di "altura con sommità frastagliata", se ben si addice alla morfologia del casale omonimo, meno persuasivo appare nei due toponimi "composti" di Serrapadulana e Serrarocca, entrambi casali dalla conformazione "piana" e non altimetrica. Ma anticamente era detto serra un «luogo stretto o serrato, ovvero riparo di muro per impedire lo scorrer delle acque o restringerne il corso»1: in tal significato il termine deriva dal lat. serrare (chiudere). E rocca, dal lat. rocca(m), significava semplicemente "roccia", "rupe", non sempre riferita ad una torre o ad un fortilizio, come opinato dallo Scandone. Sicché Serrarocca stava per strada murata, stretta e petrosa, lungo la quale si incanalavano corsi d'acqua limacciosa e putrida che sboccavano nella zona retrostante la grande corte feudale (Dietrocorte).
La stessa variante della parte suffissale rocca-bocca (Serrabocca), già in uso nel '600, dal lat. bucca, nel senso di imboccatura - orifizio - foce di acque, ci dà conto delle caratteristiche di un tracciato viario che si presentava come una angusta cupa maleodorante.
Serrapadulana, dal lat. serra e palus-ude (con la metatesi assai frequente palude.- padule) era anch'essa una strada serrata, dal terreno paludoso, solcato da rivoli acquitrinosi che andavano a sversarsi nel vallone del torrente Santa Maria.
Fontana e Fundana erano entrambi toponimi del medesimo casale. Fino alla fine del '700 furono egualmente utilizzati sia nella oralità che nella scrittura; ma a prevalere nell'uso ed infine a cristallizzarsi (fino ad oggi) è stato Fontana, il cui etimo è di indubbio significato: "zona ricca di sorgenti d'acqua". E però il toponimo Fundana, dell'altro più vetusto, ha goduto di maggiore attendibilità storica, soprattutto da parte degli storici Ciociola e Scandone. Scriveva l'illustre canonico della Collegiata:
“Fontana, credesi che fosse chiamata così dai molti pozzi; ma io la credo detta da Terra fundata o Fundana, in quanto che doveva essere fondo, o fondi dati a Suffendo, e quindi corredati, e fonuti di quanto è necessario alla coltura: come Case, Aratri, ferramenti ed utensili villerecci, Bovi, e Coloni detti Adscripti glebae, Massari, Censuali, Tertiatores, per cui vi si trova congiunto l'altro piccolo casale detto li Ferrari.”
Per il Ciociola, quindi, Fundana è un geonimo derivante dal lat. fundus, fondo, podere, campo a coltura.
Per lo Scandone, invece, Fundana è un etnico attribuito, al tempo di Silla, alla tribù indigena dei Deculani che, assoggettata, aveva acquisito la cittadinanza romana, adottandone le leggi, così divenendo populus fundus e Municipium1 fundanum e per ciò denominata Fundana, nome poi corrotto in "Fontana" in età medievale•
Ipotesi ambedue storicamente e filologicamente plausibili, ma molto diverse. Una terza ipotesi, anch'essa verosimile ed in parte collegata alla tesi ciocioliana, potrebbe far derivare il toponimo Fundana dal lat. volgare fundu, aggettivo significante "profondo", "basso", "meridionale", riferito a luogo situato in zona valliva rispetto ad una altura degradante in piano.
Si può pensare all'abbandono di "Montella-piccola", (ubicata sul colle attaccato al SS. Salvatore) da parte delle antiche popolazioni irpine, discese attraverso la stretta via di Le Trocine, guadando il fiume Calore nel punto in cui si sarebbe poi costruito il ponte della Lavandara, nella zona sud della città fortificata, insediandosi in terreni (fondi) ubertosi, ricchi di acque (di qui "Fontana").
Sui toponimi Pensone, Spinella, Garzano, Piazzavano e Rialbero, Francesco Scandone formulò delle decrittazioni che, se pur supportate da dottrina storico-glottologica, non possono essere assunte che come mere congetture.
Derivare Pensone (o Penzone) dal lat. pensio, una tassa in danaro pagata dagli abitanti del casale ai dominatori longobardi, pare idea alquanto peregrina per la sua assoluta rarità nella toponomastica di quel tempo. Maggiormente attendibile ci sembra la derivazione dal verbo latino pendere, nel senso di "pendente", scosceso, che rispecchia fedelmente la configurazione fisica del luogo, un colle discendente verso il lato sud orientale( l'attuale Vesteja).
Anche desumere Spinella dalla voce umbra «spinia» significante «colonna», per la dubbia esistenza sul posto di una qualche stele (di cui non esiste traccia documentaria) risulta alquanto aleatorio. Più convincente l'origine dal fitonimo spinum, arbusto spinoso: quindi roveto, luogo caratterizzato da sterpi, toponimo diffusissimo in tutta l'area peninsulare.
Per Garzano lo storico montellese immaginò trattarsi di una cittadella fortificata, costruita sull'esempio di un «castrum Carissanum» sito nei pressi dell'antica Compsa (Conza), di cui è notizia in Plinio. Il nome Carissanum, a sua volta derivante dal termine greco carenon significante "cima di un monte, cittadella", si sarebbe evoluto attraverso mutazioni d'uso nel toponimo Garzano (Carissanum > Carssano > Carzano > Garzano). In realtà, in nessun documento noto di età medievale e moderna risulta menzionato un castrum in quella parte del territorio di Mantella, per altro già strategicamente munita di due fortilizi con funzioni di avvistamento, costituiti dalla Torre a nord-ovest e dalla Bastéa a sud-est. Inoltre lo stesso toponimo era già esistente in altre zone geografiche della penisola: Garzano, in Terra di Lavoro (oggi prov. di Caserta), Garzano nel territorio di Civezzano (prov. di Trento), Garzeno in area lombarda (prov. di Como). L'etimo, con certezza, è da far risalire al fitonimo lat. medievale garza, da cardeu(m), variante di carduus, "cardo". E però Garzano doveva essere stato un luogo fitto di piante «a foglie e fusti più o meno spinosi», di alberi di castagno con "ricci" (cardi), una zona boscosa ed intricata.
Incerta pare essere anche la decifrazione etimologica di Piazzavano, dal termine latino fanum, tempio, quindi luogo sacro per la presenza di una qualche chiesetta o cappella devozionale. Ma tutti i non pochi toponimi originati da quel termine non hanno mutato la f fricativa di fanum nella corrispondente sonora v. Più verosimile che l'etimo sia il lat. vanu(m), nel senso di "vuoto", di "luogo aperto": quindi Piazzavano da intendere come vasto piazzale che si apriva nella zona orientale rispetto alla Piazza Maggiore, ove era la Collegiata, entrambi lambiti e collegati dal torrente Santa Maria. Un'ipotesi che sembra anche avvalorata dalla variante toponomastica del casale, denominato anche Piazzavante.
Anche per Rialbero va riveduta la derivazione da rivus albulus. "rivo dalle bianche acque". Il torrente Santa Maria, detto Vallone, prima di riversarsi nel fiume Calore presso il Colle del Mulino, nel suo lungo ed anfrattuoso percorso, avente scaturigini dal Terminio, raccoglieva tutte le acque che dai monti e dai colli cingenti il paese si gettavano a valle. Nei piovosi mesi invernali e primaverili si trasformava in una fiumana impetuosa e travolgente, dal colore marrone e grigiastro, capace di trasportare ceppi, rami e persino interi alberi di faggio e castagno. La piena era tale da impedire ogni possibilità di guado a persone ed animali: pastori e porcari erano costretti, con le proprie greggi, a bivaccare per giorni e notti sulle sponde, fino a quando la massa d'acqua fosse decresciuta e prosciugata, lasciando un letto torrentizio lutulento e detritico. Era un rivo tutt'altro che albulus Il toponimo Rialbero deriva sicuramente da rivus e albulus, variante volgare di arbor, e significa rivo che scorre costeggiato da alberi o da vegetazione arborea. Nella parlata popolare e nelle scritture dell'epoca il casale veniva detto Riarbero, in cui evidente è il riferimento al latino arbor.
Ciociola, di 50 anni più vecchio dello Scandone, nella sua storia usò quest'ultimo toponimo.
Probabilmente sul finire del secolo - mancano documentazioni storiche precise - interessi comuni, di tipo agricolo, economico e sociale, legati alla contiguità residenziale, orientarono gli abitanti dei casali ad aggregarsi in ripartizioni territoriali comprensive di più nuclei abitativi, suddivise entro confini non perfettamente delineati, ma chiaramente individuabili dalla popolazione.
Nacquero così i Rioni, sorta di quartieri ante litteram, sull'esempio della Roma del VI sec. a.C., suddivisa in quattro regiones (il termine rione etimologicamente è volgarizzazione del latino regione (m), ed in analogia all'uso di molte città italiane durante il medioevo di suddividere il territorio urbano in quattro settori. I rioni montellesi furono anch'essi quattro e presero i toponimi dei casali più popolosi: Sorbo, Garzano, Piazza e Fontana. Sorti anche per necessità di semplificazione organizzativa ed amministrativa in una università di notevole densità demografica, i rioni risultavano da una riduzione delle sette « piazze seu cetole. » cinquecentesche, di cui conservarono il ruolo di rappresentanza a livello istituzionale tramite la figura del caporione, quasi sempre impersonato da esponenti del ceto medio-alto.
- Sorbo comprendeva i casali Sorbitello, Serrapadulana, San Simeone;
- Garzano i casali Serra, Cisterna, Spinella, Pensane, Laurini;
- Piazza_a quelli di Favali, Rialbero, Piazzavante, San Mauro, Serrarocca, San Giovanni;
- Fontana i casali Piedi-lo Pastino, Santa Lucia, Gammoni, Pendino, Ferrari.
Ognuno di questi rioni (ancor oggi presenti nella toponomastica soltanto "orale" del popolo montellese) subì nel tempo lievi modificazioni fisiche, ma sviluppò una marcata autonomia territoriale, campanilisticamente custodita e difesa, che non di rado sfociò in forme di non sempre sana e pacifica rivalità, le quali evidenziavano i tratti caratteriologici e l'indole dei suoi dimoranti• Ancora in pieno Ottocento, in un canto popolare raccolto da Giulio Capone, un anonimo verseggiatore ne sottolineava "faziosamente" alcune caratteristiche distintive:
Mantella è composta a quatto pizzi! Pizzo pe' pizzo l'aggio cammenata.
'Mponta Suorivo so' li sgarrupizzi,
A Sansomione, li scommenecati;
Mmjezzo a la Chiazza stanno re bellizzi,
Abbascio Fontana so li 'nammorati;
A Santo Ianni so' li juracristi,
'Mpieri a li Pastini so li renneàti•
Montella,città di Casali tratta dal libro di Mario Garofalo Storia socoale di Montella IL SEICENTO