Di Mario Garofalo su Martedì, 22 Febbraio 2022
Categoria: Vario

Ferdinando Cianciulli di Mario Garofalo

Ricordare la figura di Ferdinando Cianciulli, ad un secolo dalla sua scomparsa, è un poco “ritornare alle origini”, riscoprire del socialismo italiano l’anima passionale, messianica; ma anche contribuire ad un’opera doverosa di rivalutazione dell’azione, molte volte eroica, di tanti “pionieri”, non abbastanza conosciuti o a torto relegati nel dimenticatoio (è unanimemente riconosciuto quanto ancora lacunosa sia la storiografia del movimento operaio e socialista nel campo delle ricerche locali: un filone storiografico assai importante “dato lo scarso grado di centralizzazione dei poteri negli organi di direzione nazionale e l’alto grado di autonomia delle organizzazioni locali”), i quali, autentici “intellettuali all’opposizione”, operando in luoghi e ambienti particolarmente ostili, per primi additarono le piaghe e le ingiustizie del Meridione d’Italia e che pagarono spesso con la vita il loro coraggio.

Ferdinando Cianciulli ebbe i natali a Montella, importante centro della provincia avellinese nell’Alta Irpinia nel 1881. Avviato dal padre sulla strada onorifica della carriera ecclesiastica, ben presto avvertì la incompatibilità del suo temperamento attivistico con la contemplatività della vita religiosa, di cui non mancò di stigmatizzare il bigottismo e l’atteggiamento farisaico quali subdoli mezzi di sfruttamento del popolo indifeso e superstizioso. Sebbene proveniente da famiglia agiata, non portò a termine il corso normale degli studi; la sua formazione culturale fu di appassionato autodidatta: di qui il carattere disorganico, approssimativo, a volte persino incongruente dei suoi lavori pure ricchi di spunti, difermenti, di accennati bagliori intellettuali. Ancora in giovanissima età la sua indole schietta ed estroversa, l’osservazione continua della dolorosa realtà sociale, in cui viveva a contatto con contadini ed operai proni ad ataviche rassegnazioni, lo spinsero a staccarsi dalla classe medio-borghese di appartenenza e a dare un senso nuovo alla propria vita nella lotta per l’avvento del Socialismo nell’Irpinia “negletta e miserabile”. Ventitreenne fondò un giornale, che a proprie spese e con rudimentali mezzi tipografici egli stesso stampava inizialmente a Montella, il cui programma volle racchiudere tutto nella testata, “Il grido degli umili”, divenuto poi semplicemente “Il Grido”, organo infine della Federazione Socialista Irpina di cui il Cianciulli sarebbe diventato il primo Segretario. Dal 1904 fino a pochi giorni dalla scomparsa tragica (fatta eccezione della parentesi della I guerra mondiale cui il Cianciulli partecipò dapprima come militare di truppa e poi con il grado di caporale) quel suo pezzo di carta – come ebbe egli stesso a scrivere – bandiera del libero pensiero portò dovunque l’eco dei bisogni del popolo lavoratore e paziente, e dove non giunse mai il gemito degli oppressi, il lamento dei perseguitati giunse repentino ed entusiastico il suo Grido, dando l’assalto a tutto ciò che vi era di putrido e ingiusto. Ma soprattutto quel giornale ebbe di mira il chiamare a raccolta i diseredati e gli oppressi della aspra Irpinia, di infondere in essi una coscienza di classe, di organizzarli nel partito dei poveri per prepararli alla rivoluzione sociale.

In un ambiente retrivo e misoneista, duramente opposto ad ogni sforzo, ove non essere analfabeta era privilegio di pochi, ove l’intellettuale quasi sempre di estrazione borghese, assolveva ad una funzione di dominio e di paternalismo culturale, esercitando anche in questa maniera il suo potere sulle classi subalterne, la testimonianza di Ferdinando Cianciulli, “traditore della classe”, postasi in termini di contrapposizione frontale e di rottura, fu avvertita come una continua provocazione, un attentato all’imperante “comodo” quietismo delle campagne e dei paesi della provincia, una sfida alle potenti dimore dei ricchi. Per questo al coraggioso direttore de “Il Grido” non furono risparmiate calunnie, denunzie, processi, boicottaggi, aggressioni, fino al barbaro assassinio: egli era un pericolo onnipresente, era l’uomo che bisognava tacitare. Così, in un clima di torbide passioni, di ancestrali odi di parte, di oscuri rancori personali maturò l’idea del delitto. Nella tarda sera del 22 febbraio dell’anno 1922, protetto dalle tenebre, ascoso dietro un muro che costeggiava la strada, un ignoto assassino sparò su Ferdinando Cianciulli, che ferito al capo si spense, dopo una notte di rantoli agonici e di intermittenti sprazzi di lucidità, la mattina del giorno seguente. Aveva soltanto quarant’anni. Spariva con lui l’antesignano del socialismo irpino, il più fiero, il più battagliero. La sua morte, avvenuta in clima di fascismo avanzante significò per la classe lavoratrice irpina, che egli era riuscito a stringere sotto la bandiera del Partito Socialista Italiano dandole una coscienza sociale, sindacale e politica con un’opera quotidiana, quasi frenetica di convincimento e di propaganda, lo smarrimento la paura il vuoto politico. Molti dei compagni, in quel momento cruciale della nostra storia, che erano stati al suo fianco nelle battaglie contro le camorre e le baronie dell’avellinese, continuarono la lotta nell’antifascismo e nella Resistenza; tanti altri impauriti e fragili preferirono isolarsi ed essere calpestati; altri, e furono i meno numerosi, si gettarono nel marasma fascista.

Le caratteristiche della sua opera, da un punto di vista contenutistico ma anche nella sua “letterarietà” (sul piano, cioè, della resa di linguaggio e di stile), se da una parte sono espressione dei limiti provincialistici del socialismo meridionale, essenzialmente di tipo protestatario (di qui il suo carattere di improvvisazione, di avventura, di dilettantismo), dall’altra ci danno conto dell’enorme ritardo con cui fenomeni ideologici e cultura- li prendevano piede nel Mezzogiorno rispetto alle regioni centrali e settentrionali della penisola. Per questo il pensiero e l’opera di Ferdinando Cianciulli sono per molta parte di stampo ottocentesco. Indubbiamente ebbe conoscenza dei testi classici del marxismo, ma superficiale; da essi tuttavia trasse ed assimilò, direi rivisse in uno spirito di ardente apostolato, i principi e le idee fondamentali. Fece il suo tirocinio culturale, invece, sui testi più impegnati del positivismo letterario e filosofico; ma anche subì la suggestione del pensiero anarchico e radicale, con la sua enfasi ideologica, con la sua verbosa carica passionale.
Per lui come per quasi tutti i socialisti di fine secolo la cultura positivista e le correnti di pensiero anarchico e radicale, saldamente radicate nel Mezzogiorno, furono i veicoli di apprendimento della dottrina marxista. Questo ci spiega certi suoi fraintendimenti del marxismo ortodosso, certe ingenue confusioni ideologiche. Vero è che al fondo della sua formazione politica e culturale è una genesi di tipo romantico, per cui egli stesso sentì la propria esistenza come azione, come lotta titanica, che nel suo aspetto intimistico conosceva momenti di cupa amarezza in cui riscopriva la sua misera umanità impotente a mutare i destini. La sua educazione positivista, innestata su un temperamento romantico, gli ispirava la fede nella sicura vittoria finale del Socialismo: la Scienza e il Progresso ne preparavano l’ingresso nella storia. Era una fede sentita in modo entusiastico, profetico, ed era cosa ben diversa dal fatalismo massimalista: (“ … sarà il gran giorno dell’uguaglianza umana: la rivoluzione sociale spazzerà via come il soffio potente di una tempesta tutti i privilegi e tutte le ingiustizie del presente, tutte le barriere e tutti i confini tra popolo e popolo”); una fede prorompente da sentimenti e risentimenti profondi che, anche quando si paludava di riferimenti dotti ed eruditi, riusciva in qualche modo a toccare e a scuotere.


Con lo stesso fervore, in scritti di vario genere (fu saggista, poeta, autore di teatro), egli additava i mali del suo tempo concentrando il discorso critico su alcuni temi fondamentali: il “risorgimento tradito”; la polemica contro la corruzione dell’Italietta giolittiana, ruinante verso l’immane catastrofe; l’antimilitarismo, inteso come orrore della guerra, apportatrice di flagelli su di un popolo inerme, già oppresso sotto il peso del servaggio feudale, degli stenti diuturni, umiliato abbrutito reso goffo nella sua povertà e nella sua ignoranza; l’internazionalismo, che coincide più spesso con l’idea generica di una Umanità affratellata in nome della uguaglianza e della giustizia; la tremenda satira contro i preti, falsi ministri di un dio che la storia incarnò in un uomo giusto (“il primo rivoluzionario, il primo socialista”), essere involti nel fango della depravazione (“iene”), sfruttatori dei poveri, ottenebratori delle menti: ma è il suo anticlericalismo acceso e a volte blasfemo non solo l’espressione di ateismo del protervo materiali- sta, bensì l’arma d’urto contro un nemico che sbarrava la via, nell’Irpinia “tenebrosa e feudale”, all’avanzamento civile e sociale dei deboli, della grande massa popolare.


Sono questi i temi che si ritrovano come fili rossi lungo tutta l’opera del Cianciulli; temi nella cui impostazione non è forse difficile scorgere dei limiti, ma che pure, riscattati nell’ardore di chi senza posa li professò, riuscirono a gettare le basi del movimento operaio e socialista irpino, a unire folle sbandate di lavoratori sotto il simbolo di un partito politico che faceva delle loro umane rivendicazioni il motivo della sua presenza nella storia. E certo è questo il grande merito storico del suo apostolato, mai dimenticato se al nome e all’esempio di Ferdinando Cianciulli sempre si è ispirato il proletariato irpino nella lenta riorganizzazione delle sue disperse ma sane energie politiche, mirando, sia pure faticosamente, alla conquista dell’‘unità’ delle proprie forze operaie e contadine.

Quell’ ‘unità’ che fu per il Cianciulli il grande mito-guida della sua azione rivoluzionaria e che lo portò (lui come tanti compagni della “base”) a non comprendere, o comunque a sottovalutare l’importanza che la drammatica scissione di Livorno avrebbe avuto sul destino del socialismo nazionale: “… la piccola e momentanea divisione – commentava il Cianciulli all’indomani del congresso di Livorno – non ci preoccupa affatto … Per vie diverse giungeremo al giorno solenne ed ineluttabile della riscossa, e quel giorno indubbiamente ci troveremo tutti uniti nell’azione e nella volontà di intenti … Il socialismo trionferà malgrado tut- to; noi tendiamo allo stesso scopo, formiamo uno stesso esercito, con una sola disciplina, una sola fede, una sola volontà”.
Oggi, come non mai, dopo un periodo in cui la storia del socialismo italiano ha registrato le sue più profonde lacerazioni, le aberranti distorsioni ideologiche, talvolta i falsi miraggi inseguiti da errati tatticismi, la Sua modesta opera di militante e di scrittore al servizio dell’Idea può essere per noi un luogo di raccoglimento e di riflessione: un incontro con la nostra coscienza.

LE FOTO PUBBLICATE SONO SONO DEL LIBRO DI MARIO GAROFALO

" ALLE ORIGINE DEL SOCIALISMO IN IRPINIA" FERDINANDO CIANCIULLI

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