Come si viveva una volta…… di Nino Tiretta - (Classi sociali e vita contadina nel secolo scorso a Montella)
Come si viveva nella comunità montellese tra gli anni ’40 e gli anni ‘50 del secolo scorso, all’età dei miei nonni ossia nel periodo della mia infanzia ?
Di sicuro, in quell’epoca lontana, stando a quel che ricordo, ci si accontentava di poco e la dignità della persona, anche quella della più umile, era un valore essenziale, riconosciuto, in forma quasi generalizzata, da tutti in un rapporto di assoluta reciprocità. Al secondo posto della scala sociale del tempo vi era, gerarchicamente “collocato” il cosiddetto “ceto medio-alto”, vale a dire un’altra parte della popolazione montellese costituita, in prevalenza, da liberi professionisti cioè da medici, notai, avvocati, farmacisti nonché da insegnanti, dipendenti della Pubblica Amministrazione e dai molteplici sacerdoti i quali, perché titolari delle vaie chiese e parrocchie, godevano anch’essi di molto rispetto, autorevolezza e sufficiente benessere.
Si cresceva all’insegna della semplicità, del sacrificio e dell’onestà.
Il lavoro, qualunque fosse, era affrontato con serietà e spirito di sacrificio, ben consapevoli, tutti, di quanto fosse importante per la propria famiglia e, soprattutto, per l’avvenire dei propri figli.
Erano quelli tempi in cui, a Montella, la vita quotidiana, come in altre comunità contadine della penisola italiana, era caratterizzata da “duro lavoro”, da sofferenze, da sacrifici e da privazioni al giorno d’oggi inimmaginabili e, per lo più, dimenticati.
Era un’epoca in cui l’agricoltura e l’allevamento erano al centro dell’occupazione della maggior parte delle famiglie e il lavoro era la loro unica fonte di sostentamento.
Tenendo conto dei parametri economici e culturali, a quel che io ricordo, nella gerarchia della scala sociale di allora, il posto prioritario era di appannaggio delle famiglie abbienti le quali, senza preoccupazioni di sussistenza, possedevano danari in abbondanza nonché vaste proprietà terriere, vigne, castagneti, pascoli e boschi.
Più di uno di quei “signorotti” vantava titoli nobiliari e veniva, insieme ai vari componenti di famiglia, trattato con deferenza, rispetto e condiscendenza; la povera gente, infatti, si rapportava con essi, appellandoli con il loro titolo nobiliare o anche semplicemente con un “don”, ossequioso, a capo chino e sempre scoperto.
Vivevano in “palazzotti” per lo più disseminati nelle zone più panoramiche dei vari casali del paese.
Le loro residenze erano imponenti, articolate con numerose stanze impreziosite, sovente, da stucchi, decorazioni ed affreschi.
Avevano, sul fronte strada, ampi, robusti e superbi portoni e al loro interno disponevano di stalle, cantine, giardini e parchi.
Al ceto “medio-basso” apparteneva poi, tutta quella parte della popolazione che, non essendo impegnata in lavori agricoli, traeva sostentamento e prestigio delle varie attività commerciali ed artigianali, al tempo molteplici e molto praticate.
All’epoca a Montella c’erano infatti diversi “poteari”, “caffettieri”, barbieri, sarti, panettieri orologiai, fabbri, falegnami, muratori, “ferraciucci”, “trainieri” insomma persone che praticavano mestieri ed attività già note e che è superfluo qui elencare. Solo pochi vivevano nelle campagne e, dunque, la maggioranza dei contadini viveva in paese, nei vari casali per cui all’alba, prima che sorgesse il sole, quella gente si recava in campagna a lavorare la terra, vi restava per tutta la giornata e solo a sera ritornava a casa. La cucina era il fulcro della casa: in questo spazio si cucinavano e si consumavano i pasti, mentre il resto della giornata si trascorreva all’aperto. La madia (màrtora) era - munita di “ fazzatora " - un mobile sempre presente in cucina; era come una cassapanca e conteneva, in scomparti diversi, la farina bianca e quella gialla; inoltre, molto spesso, in essa si tenevano legumi e frutta secca. Poiché il solo caminetto precludeva la contemporanea possibilità di cuocere o di tenere in caldo le varie vivande, in cucina si usavano anche le cosiddette “fornacèddre” le quali invece permettevano di cuocere cibi e riscaldare acqua contestualmente. Nelle fredde serate invernali si usava mettere nel letto “lo mònaco” ossia un provvidenziale scaldaletto, fatto con intelaiature di legno arcuate, unite con due assicelle e lamiere che tenevano sollevate le lenzuola mentre lo scaldino ripieno di brace scaldava il letto. Per lo più erano le donne che, abbastanza spesso, andavano in montagna, principalmente nei boschi, nelle “faggete” o nei castagneti a “fare fascine”, vale a dire a raccogliere legna minuta utile per far partire il fuoco dei caminetti. Ciò nonostante la cucina aveva un lavandino non profondo e molto largo sul quale veniva posta una “conga”, di rame e dalla capacità di circa 20 litri la quale serviva per andare a riempire l’acqua alla fontana; veniva trasportata dalle donne, in testa, con l’uso del già menzionato “truocchio”, vale a dire un fazzolettone arrotolato che si interponeva appunto sul capo. Altri generi alimentari di necessità venivano invece acquistati presso le cosiddette” poteiè recasadduòglio” vale a dire negozi, per l’appunto, per alimentari i quali, alquanto numerosi, vendevano un po’ di tutto: per esempio lo zucchero e il riso erano tenuti dal venditore nei sacchi di tela, mentre la pasta in uno scatolone e poi riversata in appositi cassetti per la vendita. Avveniva dunque che per “fare le buttiglie” - nel giorno stabilito, di buon mattino - l’intera famiglia si mobilitava e procedeva a sbollentare e macinare i pomodori che erano stati raccolti, selezionati e lavati il giorno precedente; se ne ricavava un sugo rosso e denso che finiva, insieme a qualche fogliolina di basilico, in bottiglie di varie misure; le bottiglie - tappate con tappi di sughero - venivano poi riposte, separate da stracci, in un grande pentolone e quindi fatte bollire per qualche ora.
Anche se presenti nei vari “casali” del paese, la maggioranza di essi abitativamente era concentrata lungo le principali strade di Montella, particolarmente in piazza Bartoli, nelle sue adiacenze e lungo tutta l’attuale via del Corso.
Le loro abitazioni erano ben fatte, di valore, generalmente a due piani, con belle finestre ed anche balconate.
Avevano numerose stanze, usufruivano di acqua corrente e di elettricità; disponevano di forni per fare il pane e, nella parte retrostante, erano anche corredati di orti e cortili nei quali, spesso, era possibile allevare i più comuni animali domestici.
Seguivano nella scala sociale montellese i contadini e i braccianti, vale a dire una fascia di popolazione la cui occupazione principale era rivolta all’agricoltura e all’allevamento, occupazioni che, per la maggior parte delle famiglie, era l’unica fonte di sostentamento.
La vita dei contadini montellesi di allora era, dunque, tutta dedicata al lavoro, in casa e nei campi e per questo ad essi non era concesso neanche il tempo per frequentare studi regolari o di farne affatto, insomma per loro prevalevano povertà, ignoranza, analfabetismo, indigenza, fame e stenti indicibili.
Solo poche famiglie possedevano terreni, anche consistenti e che coltivavano, con molti stenti, direttamente e liberamente.
Di fatto la stragrande maggioranza degli “zappa terra” non vantava proprietà alcuna e dunque coltivava, in mezzadria, i terreni e i possedimenti dei “signorotti” montellesi esercitandone le annesse attività agricole al fine di dividerne gli utili e i prodotti.
Svolgevano un lavoro duro, spesso senza sicurezza, obbligati a seguire gli ordini del padrone del terreno, con cui dividevano il guadagno quando veniva il tempo del raccolto.
Lavoravano senza l’ausilio di macchinari e servendosi, spesso, di un asino per trasportare il materiale della campagna (erba, fieno, frasche e legna) e per questo lavoro i contadini si sentivano più legati alla terra.
L’asino era dunque il mezzo di trasporto più diffuso ma là dove il terreno era scosceso e precludeva l’uso di quell’animale, gran parte degli uomini trasportava le merci sulle spalle mentre le donne le trasportavano sulla testa, aiutandosi con un pezzo di stoffa attorcigliato detto “truocchio”
Le famiglie dei contadini erano alquanto numerose, per cui i gruppi familiari potevano arrivare anche a 10-15 componenti tra figli, genitori e nonni che vivevano tutti sotto lo stesso tetto.
Le loro abitazioni erano con poche comodità: una cucina, poche stanze, la stalla, una legnaia, la cantina all’interrato e un “gratale” al piano superiore il quale era in parte utilizzato come deposito in cui venivano stipate vivande ed attrezzi.
In molte abitazioni non c’erano vetri alle finestre ma solo le persiane, che venivano chiuse la notte.
Nella generalità, in quei tempi lontani, le case dei contadini – distribuite nei vari “casali” del paese - erano strutturate in modo da avere una sezione destinata all’abitazione e una sezione utilizzata per accogliere masserizie varie ed animali domestici.
La stalla era prospiciente alla strada e a volte si affacciava su un terreno corrispondente ad una parte perimetrale della stessa abitazione, in cui trovavano allocazione il “catuoio” (per i maiali), il “masonale” (per le galline) e la “conigliera” (per i conigli).
Ordinariamente la casa era anche provvista di una cantina nella quale il vino era conservato in botti di castagno e versato all’occorrenza nell’ “arzulo” vale a dire una brocca\caraffa di argilla a due manici.
Non tutti i contadini disponevano di una cantina nell’interrato, in questo caso si adibiva una stanza della casa, quella rivolta a Nord e tenuta al buio.
Presso le dimore dei più abbienti, invece, la cantina sussisteva in prossimità del palazzo o della villa; era fatta di varie stanze sotterranee ed inglobava anche la «ghiacciaia», dove, nella stanza più profonda, veniva raccolto il ghiaccio mentre nelle altre erano riposti gli alimenti più deperibili.
La sezione abitativa era, rispetto al piano stradale, posta in un’area superiore; era raggiungibile tramite una ripida scala e per lo più era costituita da una cucina munita di “focagna”, come già detto, da un “gratale” e da una o altre stanze in cui dormivano i vari componenti della famiglia.
Nella generalità, a quei tempi, i mobili nelle case erano essenziali e funzionali; erano fabbricati da esperti falegnami che per unire gli elementi usavano chiodi, colle naturali e incastri particolari detti "a coda di rondine"; per incurvare alcuni pezzi si usava l'acqua o il vapore.
L’arredo della cucina era molto semplice e per lo più costituito da un tavolo, qualche sedia impagliata, una credenza e una madia.
Il tavolo era collocato al centro della stanza, serviva come appoggio per mille lavori della casa ed era coronato da sedie di legno con sedile di paglia intrecciata.
La credenza, addossata ad una parete, veniva usata per conservare e proteggere il cibo da cani e gatti, animali questi che spesso stavano in casa.
Col tempo alla credenza vennero aggiunte mensole e vetrine nonché armadi a muro i quali, facili da ricavare nelle spesse pareti, erano molto usati diventando, il più delle volte, comode dispense.
Con la farina bianca la donna di casa preparava la pasta mentre la farina gialla con acqua e sale erano gli ingredienti per ottenere la polenta.
Simile ad un caminetto, la “focagna” era sempre in funzione, sia nei mesi caldi che in quelli freddi e serviva per riscaldare l’acqua e per cuocere i cibi.
Praticamente, a lato del caminetto, veniva costruita una specie di “cucina in muratura e ferri”, rivestita di mattonelle i cui fornelli erano costituiti da cerchi di ghisa concentrici, come quelli delle stufe a legna: i cerchi ricoprivano una griglia nella quale veniva messo il carbone acceso.
Sotto questo fornello a carbone vi era anche un piccolo vano nel quale veniva raccolta la cenere che veniva usata come fertilizzante nell’orto, nel lavaggio della biancheria nonché per altre e varie incombenze domestiche.
Le pentole in uso in quell’epoca erano costruite in rame e avevano l'interno rivestito di stagno.
Durante la seconda guerra mondiale, poiché il rame occorreva per le munizioni dei soldati, accadde che il Governo requisì tonnellate e tonnellate di pentole le quali, per l’uso domestico furono rincalzate da quelle di alluminio.
Questi nuovi utensili, rispetto a quelli in rame, erano più leggeri e si riscaldavano presto, facendo quindi risparmiare anche un po' di legna e carbone.
Attigue alla cucina erano le camere da letto il cui pavimento fatto con tavelle di cotto o anche di tavelle di legno.
Nella stanza da letto si trovavano i letti, la cassapanca, il comò, l’armadio, qualche sedia e il treppiede con la bacinella e la brocca per l’acqua.
I letti all’inizio erano costituiti da cavalletti su cui poggiavano delle tavole e da un materasso ripieno di paglia o di brattee di mais, dette “spòglie”.
Le brande a rete metallica, i materassi e i cuscini imbottiti di cascame di canapa, lino o lana comparvero successivamente, esattamente verso gli anni “60.
Le camere di solito, oltre al letto, avevano, come s’è già detto, una “cassapanca” dove venivano custodite le lenzuola, le coperte e altra biancheria.
C’era poi il comò dove veniva riposta la biancheria intima di tutti i membri della famiglia e nascoste, in fazzoletti, le poche “gioie” della donna.
L’armadio, con lo specchio centrale, serviva per contenere i vestiti della festa, la “mantella” per l’inverno e le scatole delle scarpe.
L’arredo, ripeto, era completato da un treppiede con un catino (detto “vacile”), una brocca e un secchio smaltati di bianco.
Tale corredo serviva per lavarsi le mani, per lavarsi il viso alla mattina ed era sempre pronto in camera in caso di visita del medico a qualche ammalato della famiglia.
Il “bagno” in casa non esisteva, delle volte c’era un piccolo gabbiotto di legno in cortile e durante le ore notturne si usava, all’occorrenza, il «vaso da notte» (il cosiddetto “rinale”) tenuto sotto al letto il quale, ordinariamente veniva svuotato nel retrostante orto.
Come s’è già detto, in cucina c’era un solo caminetto e la “focagna”, per cui per riscaldare le altre stanze si usava la “vrasèra” (il braciere), vale a dire un grande piatto metallico con i manici, posto su un supporto di legno circolare, in cui si mettevano carboni ardenti presi dal camino e ai quali poi se ne aggiungevano altri presi da sacchi che vendevano, insieme alla “monìglia”, “li caoranieri” (i carbonai).
Fu comunque solo verso gli anni ’60 che, anche a Montella, il sistema di riscaldamento migliorò allorquando si iniziò ad usare le cosiddette “cucine economiche a legna”, le quali venivano usate sia per cuocere che per riscaldare l’ambiente casalingo.
I panni spesso venivano asciugati su una cupola costruita con sottili assi di legno, detta “asciutta panni”, che veniva posta sul braciere.
Ovviamente sia per la “focagna” che per la stufa necessitava la legna che veniva recuperata direttamente allorquando, potando i rami degli alberi, se ne facevano frasche con i rami più fini e legna con i tronchi più grossi.
L’occasione migliore per la provvista di legna ricorreva solitamente a febbraio, veniva fatta sia direttamente nel bosco, in accordo con i proprietari, in cambio della pulizia di un pezzo di terreno sia allorquando, in estate, si faceva la pulizia dei castagneti.
In entrambe le due occasioni la raccolta della legna poteva durare anche una settimana: si partiva in gruppo, anche più famiglie insieme e, per il trasporto del legname, si utilizzavano gli asini.
Secondo la tradizione solo con la “luna calante” si poteva potare e tagliare la legna, nonché vendemmiare, travasare il vino, invece per seminare, trapiantare e innestare era possibile farlo unicamente con la “luna crescente”.
La legna veniva usata con molta parsimonia, tant’è che ogni famiglia poi cercava di farsela bastare per tutto l’inverno.
In casa mancava l’acqua per il cui approvvigionamento si ricorreva a pozzi e cisterne nonché ricorrendo alle fontane pubbliche.
Le poche fontane erano collegate alla rete idrica proveniente dalla condotta comunale della “Scorzella” la quale (attingendo ad una diga in legno posta ove attualmente c’è il noto "Ponte del Fascio”) serviva le strade principali e solo poche fontane.
Ricordo che all’epoca, abitando nelle adiacenze di piazza Bartoli, in casa mia, c’era già l’acqua potabile, dunque non tutte le famiglie montellesi avevano la stessa possibilità di allaccio alla rete pubblica giacché la medesima dipendeva dalla distanza della casa rispetto alle tubature comunali.
Vicino al lavandino, spesso c’era anche un “cecene” o un bottiglione di vetro i quali, invece, venivano riempiti un po’ prima del pranzo direttamente alla fontana, perché l’acqua da bere fosse così più fresca. In generale il compito di questo approvvigionamento spettava ai bambini della famiglia.
Generalmente per il “rifornimento” dell’acqua, oltre al “sicchio” e alla “conga”, si usavano anche “mesciole” e “ceceni” dalla capacità di 4-5 litri e l’acqua contenuta in questi recipienti era, come s’è già detto, usata, in casa, esclusivamente per dissetarsi.
Il “cecene” era una specie di orciolo; dunque un vaso di creta, a collo stretto, con manici ed era usato, come s’è detto, essenzialmente per contenere e versare acqua o altri liquidi, anche vino.
Per l’approvvigionamento occorreva recarsi più volte alla fontana, per cui la “iuta a la fontana” assicurava la presenza di più donne (amiche o vicine di casa) che si aiutavano a vicenda nel “caricare la conca” e contestualmente alimentava chiacchiere, curiosità e pettegolezzi e facilitava anche nuove conoscenze.
Per quantitativi d’acqua maggiore si usavano invece le “varrecchie” vale a dire piccole botti dalla capacità di 20-30 litri; questi recipienti, più pesanti e resistenti, venivano usati per trasportare l’acqua in campagna o in montagna ed era trasportata per lo più sul dorso degli asini.
Il lavaggio dei “panni” e degli altri pochi capi di abbigliamento era svolto tutto a mano, nelle tinozze, in cortile o vicino alle fontane pubbliche o anche andando direttamente al fiume Calore, (nelle adiacenze del “ponte della lavannàra”, al di sotto del vecchio mulino) la cui acqua veniva utilizzata per lavare la biancheria di famiglia.
La rete elettrica all’epoca era già disponibile, ma solo in alcune zone del paese o nei pressi di strade di collegamento: nelle case più isolate infatti, essendo troppo costoso l’allacciamento, si usava ancora la lampada a petrolio.
Erano tempi nei quali, nelle case non c’erano frigoriferi e congelatori per cui i diversi cibi, per essere conservati, venivano messi a seccare al sole mentre altri venivano messi sotto-sale ed altri ancora messi sott’olio o sotto “zogna” (sugna), in vasetti di vetro o in vasetti di terracotta.
L’alimentazione era molto scarsa; per lo più si mangiavano molte verdure, patate e legumi.
La pasta, per lo più fatta in casa, veniva consumata principalmente di domenica e nei giorni di festa.
Anche il pane scarseggiava e a volte si mangiava unicamente quello fatto con farina di segala, granturco e di castagne.
Il pane si faceva una volta al mese e lo si conservava nella madia o anche su ripiani di canne intrecciate.
La carne era poco consumata, veniva comprata nelle varie “chiànghe” (macellerie) del paese o, in alternativa, quando era possibile, si mangiava la carne proveniente dagli animali che si potevano allevare direttamente, infatti quasi tutte le famiglie possedevano galline, oche, conigli, capre, pecore e maiali e molte volte in casa veniva fatto anche il formaggio
Il consumo di pesce era raro, vista la lontananza dal mare, ma era d’uso, comunque, sia il baccalà salato e sia le sarde salate.
Al momento dell’acquisto i prodotti venivano avvolti nella carta o versati direttamente su un fazzolettone di stoffa appartenente all’acquirente.
Per le famiglie l’acquisto dei beni alla bottega avveniva quasi sempre senza l’uso della moneta, a “crerenza”, vale a dire “segnando” su un libretto (“la libretta”) il corrispettivo del costo della spesa che i clienti pagavano ad intervalli, quando potevano, a volte addirittura al termine della raccolta stagionale dei campi e delle castagne.
A volte l’acquisto avveniva anche attraverso il baratto, in particolare scambiando le uova con quanto necessario.
Per il trasporto della spesa si usavano i “fazzolettoni” o anche le borse di tela, come oggi si è tornati a fare, con la differenza che un tempo la borsa stessa era fatta in casa con la macchina da cucire a pedale, oppure si usavano anche panieri e sporte intrecciate di vimini.
La pasta veniva venduta sfusa ma di solito però le massaie la facevano, insieme al pane, da sé in casa ed era condita in prevalenza con la salsa di pomodoro preparata, anch’essa direttamente in casa.
In quell’epoca quasi tutti in casa allevavano uno o più maiali, da cui le famiglie traevano sostentamento.
Il maiale era allogiato nel “catuòio” e generalmente veniva alimentato con una brodaglia composta dagli avanzi dei piatti lavati con l’aggiunta di crusca e “patanielli”; tale mistura era versata in un trogolo detto “vàvito” o anche “uàuito”; al maiale veniva dato comunque un po’ di tutto, ma in modo particolare ghiande e castagne “cecate”.
L’uccisione del maiale era un vero e proprio evento.
Le famiglie si aiutavano a vicenda e, in questo modo, si consolidavano i rapporti sociali, si diventava veramente amici.
Nei mesi più freddi, dopo aver deciso “il giorno del sacrificio”, si chiamavano gli amici e i parenti più stretti i quali assai volentieri prestavano il loro aiuto.
Ed ecco che, di buon mattino, il maiale veniva fatto uscire dal porcile e condotto anche a spintoni verso il luogo prestabilito, mentre le donne mettevano a bollire un pentolone d’acqua.
L’animale veniva quindi legato e steso sopra un grande tavolo, dopodiché con un coltello apposito veniva sgozzato.
Subito una donna si preparava a raccoglierne il sangue, con il quale, attraverso l’aggiunta di altri ingredienti si preparava “lo sangònaccio”.
Si passava quindi, aiutandosi con l’acqua calda, a togliere i peli dalla pelle del maiale, il quale, dopo essere stato appeso per le zampe all’ “ammièri ” (un attrezzo ricurvo, di legno, a forma di boomerang) veniva diviso a metà dopo aver tolto la testa e le interiora.
Del maiale non si buttava niente.
Innanzitutto con il taglio della coscia posteriore si ricavavano i prosciutti che, pepati e aromatizzati, venivano messi sotto sale in una vasca di pietra munita di un buco necessario per la fuoriuscita del liquido di scarto. Infine con le zampe, le cotiche, gli ossi, il muso, le orecchie ed altre parti non nobili del maiale veniva preparata la “ielatina” (la gelatina), un piatto ottenuto facendo bollire vari ingredienti, lasciati, aggiungendo aceto nel proprio brodo condensato e poi, con l’aggiunta di foglie di alloro e peperoncino forte, fatto rapprendere per raffreddamento. Lavoravano, come s’è già detto, la terra non di loro proprietà, erano affittuari o coloni, pagavano l’affitto con metà del raccolto, a volte toccavano tre parti al proprietario, una al contadino.
Dalla testa veniva ricavato “lo roccolàro” o “vroccolàro”, cioè il guanciale, mentre le interiora si lavavano e si usavano per i vari tipi di insaccato: “soppresàte”, ”sauìcchi” di carne, ”sasìcchi re fegato” e di “permone”, “re nòglie” e i “capicuòddri” , ciascuno ricavato con le carni delle varie parti del maiale e le sue frattaglie.
Dal grasso del dorso veniva ricavato anche il lardo, da quello della pancia “la pancetta” mentre dal restante, con una particolare procedura, si ricavava la “zogna” (sugna) conservata in vasetti e “vessiche” nonché “ciccioli” (ossia le frittole) i quali (per non farli venire a contatto con l’aria e avariarsi) venivano conservati in vasetti ricoperti di grasso per essere, successivamente e all’occorrenza, utilizzati per preparare ottimi “migliazzi” e taralli.
Col grasso avanzato, unendo potassa, si faceva il sapone.
Oltre all’allevamento di galline, conigli e maiali, all’epoca si pascolavano capre, mucche e pecore, animali questi che, molte volte, insieme agli asini, erano tenuti direttamente nella stalla di casa e il più delle volte per il pascolo erano affidati, per tutta la giornata, ai ragazzi di casa.
Tutta la famiglia contribuiva, con mansioni ed incombenze varie, all’andamento della casa, tutti, nessuno escluso.
Il loro era un lavoro molto faticoso, pesante, gravoso a tal punto che fino a qualche decennio fa era normale incontrare in paese persone, uomini e anche donne in età avanzata, che assumevano una posizione curva, quasi ad angolo retto, conseguenza della postura che avevano tenuto lavorando.
Il contadino e la sua famiglia “vivevano” la campagna, essa era la loro vita, la loro sopravvivenza.
Le loro preoccupazioni più grandi erano la grandine, la siccità, le malattie e i predatori.
Non conoscevano né feste né riposo.
Iniziavano a lavorare la mattina molto presto e smettevano la sera molto tardi con il buio.
Il contadino infatti zappava, seminava, curava le piante e gli animali come curava i suoi stessi figli.
Aveva il viso e le braccia bruciati dal sole e gli immancabili calli alle mani.
A quel tempo i contadini e i loro familiari erano nella quasi totalità analfabeti.
Ordinariamente ciò accadeva perché già a sette anni i ragazzi diventavano lavoratori attivi, aiutando i genitori nei campi o pascolando la capretta.
Il lavoro del contadino non si esauriva mai, perché le colture avevano un ritmo incalzante dominato dallo scorrere delle stagioni
Le sue attività comprendevano l’aratura, la semina, la zappatura, la concimatura, l’innesto, la potatura, la mietitura, il raccolto.
Per lo svolgimento della sua attività utilizzava utensili quali vanga, zappa, tridente (“forcato”), falce, falcetto (“faoce”), roncola, (“petaturo”), maglio, pala, rastrello (“rastieddo”), piccone (“pico” o “sciamàrro”), accètta, lo ”strongòne” .
L’anno agrario iniziava con la semina del grano a novembre e si concludeva con la vendemmia di ottobre e la raccolta delle olive e delle castagne nel mese di novembre dell’anno successivo.
Parallelamente un altro lavoro che al contadino costava tanta fatica era la coltivazione della vite per la produzione del vino.
Infatti oltre a fare il lavoro di rivoltare il terreno ad una certa profondità, bisognava togliere l’erbaccia, i germogli inutili, combattere le malattie della vite, la famigerata e odiata “peronospora” in particolare e poi vendemmiare.
La vendemmia era un’operazione leggera e allegra e rappresentava un momento di festa, un rituale dal significato sociale alquanto forte che vedeva la partecipazione di amici, parenti e vicini di casa tutti insieme a lavorare nella vigna per poi festeggiare con un ricco banchetto.
Finita la vendemmia, i contadini si dedicavano alla raccolta delle noci e delle olive e, in fase successiva, alla raccolta delle castagne che iniziava, all’incirca, nell’ultima decade di settembre e si inoltrava fino all’ultima decade di ottobre.
Questa ultima attività stagionale era uno fra gli avvenimenti più importanti della vita agricola e, in un’atmosfera un po‘ simile a quella della vendemmia, vi erano coinvolte famiglie intere anzi, ad essere precisi la quasi totalità dei montellesi.
Non essendovi il “cinipide” la produzione era, come già noto, assai abbondante tanto che chi era in possesso di molti castagneti ne cedeva una parte a un’altra famiglia in cambio di un modesto compenso oppure assumeva dei "raccoglitori" o del luogo o dei paesi vicini (detti “mesaruli”) ai quali per tutta la durata del raccolto spettava vitto, alloggio, un corrispettivo in denaro o anche una “secchia” (25 kg.) di castagne fresche per ogni giornata di lavoro.
La raccolta delle castagne era – senza dubbio alcuno - una occasione provvidenziale che, se pur impegnativa e molto faticosa, offriva alla fine la possibilità di conseguire un certo guadagno pecuniario a cui attingere per saldare prestiti e debiti nonché per concretizzare acquisti importanti e necessari per la famiglia intera quali, per esempio, scarpe, vestiario ed utensili.
Conclusa la raccolta delle castagne, con il mese di novembre era già tempo di arare il terreno per la semina ed ecco che ……… iniziava il nuovo anno agrario e tutto continuava come prima !
I valori della civiltà contadina, perciò, non possono e non devono essere dimenticati e dovrebbe essere un impegno comune cercare di mantenere vivo il ricordo di un passato povero ma laborioso.
Gli antichi latini dicevano “agricola terram colit ac valde amat” che sta a significare che “Il contadino coltiva la terra e molto l’ama” ma, riflettendo su quanto fin qui ampiamente descritto, se ne deduce che “quello” era un amore amaro, che dava anche sofferenze, patimenti, rinunzie, delusioni e ….scarsa ricchezza.
Pertanto oltre ad essere considerato il mestiere più antico del mondo, è stato, a mio avviso, uno dei mestieri fondamentali nella storia di Montella, lo è stato, senza dubbio alcuno, da tempi lontani fino ai giorni nostri, perché “il lavorare la terra”, nella nostra trascorsa civiltà è stata la principale occupazione della maggioranza della popolazione montellese fino al XX secolo.
Secondo un recente rapporto dell’Istat, nelle classificazioni sociali, allo stato attuale, sono scomparse la borghesia, la classe operaia e finanche la stessa classe contadina per cui parlare, al giorno d’oggi, del contadino significa rievocare una civiltà rurale arcaica che, in assoluto, ormai non esiste più.
Infatti, a ben riflettere la civiltà contadina, immutata per tanti secoli, è, di fatto, scomparsa nel giro di qualche decennio - intorno agli anni ’50-’60 del secolo scorso - a causa, soprattutto, dell’immigrazione, della “fuga” verso altre attività e professioni più remunerative, a causa della “riconversione del sistema” di produzione agricola, della sua meccanizzazione, della formazione di grandi aziende e dunque, a causa della contestuale scomparsa dei contadini medesimi e dei conseguenziali abbandoni, soprattutto di quei “fazzoletti” di terra caratteristici della nostra comunità.
E’ altresì vero che oggi, nell’era tecnologica che stiamo vivendo, esiste ancora “il lavoratore della terra”, che fa le stesse operazioni del contadino di una volta, però, in un modo più veloce e con sforzi e fatiche infinitamente minori, grazie alla meccanizzazione che ha eliminato moltissimi dei pesanti lavori che si facevano un tempo.
Nell’arco di tempo di alcuni decenni, infatti, il modo di coltivare la terra è cambiato.
Da un’agricoltura arcaica si è passati a un’agricoltura meccanizzata, da un’agricoltura estensiva si è andati verso un’agricoltura intensiva e in “serra”, dove pochi metri quadrati di terra, danno quantità di prodotti che prima erano dati solo da grandi estensioni di terreno.
Ciò sta a significare che fino a quando ci sarà agricoltura, ci saranno i “contadini” !
Potranno assumere nomi diversi, “olivicoltori”, “viticoltori”, “ortolani”, “frutticoltori”, “operatori agricoli”, avranno anche acquisito una cultura tecnologica ed essere specializzati in colture specifiche, si recheranno nelle aziende agricole in macchina, useranno smartphone e tablet, vestiranno anche “bene” e percepiranno redditi decenti, ma saranno sempre “lavoratori della terra”, eredi dei contadini di un tempo.
Delle Classi Sociali e della vita contadina nel secolo scorso a Montella è stato già scritto, esistono infatti articoli, saggi e finanche libri i cui autori (con competenze indiscusse in agronomia, sociologia, economia e storiografia) hanno trattato l’argomento in forme più dotte e particolareggiate per cui, le argomentazioni da me fin qui fatte sono senz’altro semplici ed istintive perché espresse (sicuramente con molte imprecisioni ed omissioni) essenzialmente sulla base di una “lettura” di ricordi regressi che, con il sopraggiungere della vecchiaia, mi capita di “rivivere” con molta frequenza.
Tengo comunque a chiarire che “Rileggere” la vita di un tempo, attraverso ricordi lontani non vuole essere assolutamente solo un’operazione nostalgica, vuole essere – di contro - un invito a “riscoprire” le proprie origini, significa riallacciarsi ai tempi in cui si cresceva all’insegna della semplicità, del sacrificio, della solidarietà e dell’onestà e in cui, tra gli insegnamenti dei genitori, c’era ad esempio, anche l’assoluto rispetto dei figli verso gli anziani.
In fondo, siamo tutti “figli di contadini” e dimenticarli insieme ad alcuni valori esistenziali di quella civiltà trascorsa, significherebbe, per noi che da quel mondo discendiamo, estirpare le nostre stesse radici e, ahimè, miseramente inaridire.
Questo articolo è già stato pubblicato sul periodico "Il Monte" - Sezione "Cara Montella" - Anno XVII - n. 3 settembre-dicembre 2020