La Scarpiera è un mobile oggi assai noto e presente pressoché in tutte le abitazioni. Ai tempi della mia lontana infanzia, negli anni 1940/50, questo tipo di arredo era assente e totalmente sconosciuto per il semplice fatto che, in quel periodo, il numero di scarpe di cui ciascuno disponeva era assai ridotto. In quegli anni possedevo solo tre tipi di calzature, fabbricate in forma artigianale e con l’uso esclusivo di pellami e di suole pesanti, così da poter durare a lungo ed essere sostituite solo quando non più riparabili o tramandabili ad altro fratello o parente prossimo.
Il primo tipo – da tenere per tutta la primavera - era costituito da un paio di scarpe ordinarie, “basse”, per intendersi, quelle che si allacciavano con l’uso di stringhe corte. Il secondo, un paio di sandali, detti “ad occhietto”, “sforati” e aperti sul dorso per mantenere fresco il piede durante il caldo estivo e che si bloccavano con una fibbia laterale.
Il terzo ed ultimo tipo, per l’inverno, era un paio di scarponi, con la tomaia alta e le
suole spesse e robuste, rinforzate da file di “centrelle”.
E infatti, negli anni 1940/50, a Montella c’erano pochissimi negozi che vendevano scarpe, così come siamo abituati a conoscerli oggi: l’unico che io ricordi era in piazza e apparteneva a Salvatore Ginella, il cui fratello, Giuseppe, aveva, lì accanto, la bottega di barbiere.
Inoltre, contrariamente ad oggi, nei mercati settimanali non si trovavano banchi abilitati alla vendita di calzature; qualche banco era presente solo alla “Fiera dei Martiri” (uno di questi banchi era di un calzolaio di Nusco).
Le scarpe, dunque, potevano essere acquistate solo in quella occasione o andando in città, per esempio ad Avellino o a Napoli.
In conclusione, a quel tempo, la fabbricazione delle calzature d’uso ordinario era fatta quasi esclusivamente in forma artigianale, dai cosiddetti “scarpari”.
Virgilio Gambone nel suo “Vocabolario Montellese-Italiano” fa equivalere il temine dialettale “scarparo” al termine italiano “calzolaio” termine questo che nel significato lessicale sta per “chi fa, vende o aggiusta scarpe”.
Pertanto è con questo significato e con tali funzioni “creative ed imprenditoriali” che noi montellesi ci riferiamo alla figura dello “scarparo”: un artigiano che, in quei tempi lontani, praticava l’arte di fabbricare scarpe su misura, su commissione e che sapeva altresì ripararle.
Tuttavia, in quel periodo della mia infanzia ricordo che a Montella vi erano numerosi “scarpari” le cui botteghe erano disseminate nei principali “casali” del paese.
Tali botteghe, pur anguste e strette, erano, tra l’altro e al pari dei vari bar/caffè e delle varie “cantine”, punti di aggregazione e di socializzazione. Passandovi innanzi, conoscenti ed amici, vi si fermavano con frequenza abitudinaria, salutavano e si intrattenevano. Per lo più erano sempre le stesse persone le quali si fermavano “a chiacchiera”, per un bel po’ di tempo, per il piacere di parlare, come si fa tra amici, del più e del meno o anche per commentare eventi e situazioni.
Non a caso a quei tempi, a Montella (come d’altronde in tutti i paesi della provincia italiana) la gente era più aperta, comunicativa, desiderosa di parlare e di ascoltare, non si andava di fretta e dunque c’era la voglia e il gusto dello stare insieme; le botteghe (tutte) erano dunque luoghi in cui ci si intratteneva piacevolmente, e in cui …si spettegolava anche!!
Le botteghe poi del calzolaio e del barbiere erano luoghi eccellenti per quel tipo di aggregazione tant’è che Giulio Capone ambienta una sua celebre farsa teatrale, a Garzano, ne “La potea re mast’ Amiddio”.
Come molti montellesi sanno è per l’appunto in questo locale artigianale che si svolge tutta la famosa e divertente comica giacché è in questa sua bottega che mast’ Amiddio, perspicace calzolaio e barbiere mentre lavora canta : “L’assuglia fecca, ro spao spacca e sficca e lo viento sicco e freddo ro face spezzà……. “
Ritornando alla mia infanzia ricordo che nelle adiacenze dell’inizio del Corso, proprio vicino alla mia abitazione, all’imbocco dell’attuale via Don Minzioni, in una piccola bottega lavorava come “scarparo” Alberino Delli Gatti.
Una persona simpatica, molto comunicativa, soprannominato “lo zuoppo” perché, poverino era claudicante.
Era chiamato anche “baffone” sia perché provvisto, per l’appunto di un bel paio di folti baffi neri sia perché, essendo politicamente un orgoglioso e convinto “comunista”, spessissimo (come il bonario Peppone di Guareschi) concludeva le sue appassionanti discussioni dicendo una frase a quel tempo, frequente, speranzosa e minacciosa, “…. adda vinì Baffone !!!” , una frase che nella sostanza voleva essere un diretto richiamo alla supremazia proletaria sovietica e dunque un richiamo …..a Giuseppe Stalin.
Alberino era un bravo artigiano, un grande lavoratore, sapeva fare bene il suo mestiere; era generoso, disponibile, di carattere allegro, un vero “compagnone”.
A quei tempi per noi ragazzi non c’erano televisione, videogiochi, playstation e quant’altro dell’epoca corrente; fatti i compiti di scuola “sgusciavamo” in strada per raggiungere i nostri coetanei, per giocare insieme e per combinare tante e tante “monellerie” di cui, forse, per Montella.eu parlerò in un'altra circostanza.
Non essendo, ahimè, impegnato in attività e corsi di nuoto e di basket, né di musica, recitazione e canto, né tanto meno di lingue straniere, avevo, in quel tempo lontano, larghi spazi di tempo a disposizione che impegnavo oltre che nel gioco anche in rapporti socializzanti soprattutto nell’ambito rionale.
Per tale motivo capitava che spesso “bazzicavo” nelle varie botteghe artigianali del mio “casale” e mi interessavo alle varie attività dei quei bravi artigiani .
Mi piaceva vedere “che cosa facevano” e “come lo facevano”; ero interessato alla loro manualità, ai loro attrezzi di mestiere, ne chiedevo nome e uso.
Insomma le botteghe furono per me fonte di conoscenze pratiche e nel contempo forme di piacevole passatempo nonché un avvio naturale ad una manualità che, divertendomi, mi portava, con gradualità, a nuove scoperte, alla riflessione, all’esercizio dell’ attenzione.
Da quelle botteghe ho imparato a “creare” e a “fare”, come tutti i miei coetanei, anche semplici e primitivi manufatti nonché giocattoli per i quali usavamo, per lo più, materiali di scarto (rocchetti, cuscinetti meccanici, pezzi di legno, vecchi ombrelli e materiali molteplici e vari per farne “carri armati, monopattini, carriole, archi, cerbottane, fionde,ecc. ecc).
Alberino era molto disponibile, rispondeva con pazienza alle mie curiosità e spesso mi consentiva di “usare” pinze e tenaglie, di piantare chiodi su una suola e soprattutto mi permetteva di giocare con una grossa calamita con la quale, assai spesso formavo una lunga catena di chiodi.
Osservandolo ho dunque conosciuto, nei dettagli, l’attività dello scarparo e ho appreso così le varie fasi correlate alla creazione di un paio di scarpe.
Alberino non era il solo “scarparo”, ricordo che a qual tempo c’era, all’inizio del vico Ferri, la bottega di Salvatore Fatale il quale, oltre che scarparo, era anche sagrestano della Chiesa di Sant’Anna.
In piazza, vicino al Bar Scandone c’era la bottega del calzolaio Antonio Bosco e un’altra bottega, quella di Giovanni Moscariello, era quasi di fronte alla statua del S.S.S. Salvatore.
Lungo il corso, proprio di fronte alla Chiesa di Sant’Anna c’erano i fratelli Pilotto Antonio e suo fratello Gerardo; dei due fratelli il più loquace era Gerardo, detto la “Tuta”, perché indossava sempre, in tutte le stagioni e in tutte le occasioni, sempre e unicamente una tuta che, nei giorni festivi era, ovviamente diversa da quella usata per il lavoro quotidiano.
Antonio era assai taciturno, di poche parole; ricordo che comunque era lui che stabiliva l’importo dovuto per la riparazione e ancor oggi lo rivedo abbozzare un mesto sorriso di saluto ai passanti mentre è lì, chino e intento nel suo modesto ed impegnativo lavoro.
Michele De Simone ed Italo Fierro (miei cari amici nonché “referenti storici” dei miei ricordi) parlando degli scarpari di una volta mi ricordavano che nel periodo appunto degli anni 30/40 a Montella vi erano tante altre botteghe di scarpari per alcuni dei quali, purtroppo, ne ricordavano il solo nome battesimale.
Mi facevano così presente che vicino alla Chiesa di Sant’Antuono c’erano le botteghe degli scarpari Ninno Lepore e di Angelo Maio (anche quest’ultimo era sagrestano, ma, appunto della Chiesa di Sant’Antuono).
Scendendo nell’attuale via Alfonso Colucci si trovava il laboratorio di Gaetano Falivena e di suo figlio Michele.
Procedendo verso la Piazza Sebastiano Bartoli si trovava, all’inizio di Via San Simeone, la bottega di Vincenzo Ronca (detto “Iescola”) e poco distante, verso Garzano, in via Giulio Capone, quella di Umberto Chiaradonna.
Proprio a Garzano c’era Giovanni De Simone.
In prossimità di via San Nicola e nella Via Spinella c’era Virgino Capone.
Passato Avanti Corte, proprio all’angolo di Via Santa Lucia vi era la bottega di “masto Tore Russo” e poi, più giù, nei pressi dell’attuale negozio di abbigliamento di Alfredo Palatucci, c’erano Peppo Gambone ( detto La Marca e che, poverino, si muoveva usando le crucce) e “masto Lisando” (Alessandro, anch’egli claudicante e la cui moglie si chiamava “Rachilicchia”, vale a dire Rachelina).
Di altri due scarpari, sia con Italo che con Michele, non siamo riusciti a ricordarne il nome ma abbiamo convenuto che di questi il primo aveva la sua botteghe all’inizio di via Giulio Capone e Via F.Cianciulli mentre il secondo, con la sua intera famiglia abitava e lavorava vicino all’arco, per intenderci là dove c’erano le botteghe sia del “ramaro” e sia del famoso “biciclettaio” Biancardi !!!
Come s’è visto a quel tempo, a Montella, globalmente erano in attività circa una ventina di scarpari che, per esperienza ed abilità, è possibile dividere in due ben distinte categorie: scarpari e ciabattini.
In effetti tutti, per lo più aggiustavano scarpe ma solo un minoranza, gli “ scarpari” veri, erano, bravi, esperti ed in grado, nel vero senso della parola, di “fare scarpe”.
Era questo un gruppo ristretto possedendo solo essi una buona ed eccezionale abilità nel fabbricare scarpe, scarponi, stivali, anfibi, mocassini, sandali e ciabatte, una competenza che si acquisiva dopo un lungo, umile e faticoso tirocinio.
Tutti gli altri artigiani, inclusi nel gruppo dei “ciabattini”, si limitavano, anch’essi con bravura, unicamente a risuolare, rattoppare e riparare scarpe varie non essendo essi, come già detto, assolutamente in grado di costruire scarpe nuove.
Fabbricare scarpe richiedeva molta esperienza e buona maestria che si acquisivano con molti sacrifici e impegno, con un tirocinio lungo, “in bottega”, necessario per apprendere, da un vecchio “maestro scarparo”, tutti gli insegnamenti e l’esperienza del mestiere.
Questo apprendimento si protraeva per anni e anni, iniziava sin da quando si era ragazzi e continuava, successivamente, da giovani, come “aiutanti di bottega”, per altri anni e anni ancora, fino a quando, anche in età quasi matura, si “subentrava” al vecchio scarparo o ci si metteva in “proprio” aprendo, per l’appunto, una nuova e propria bottega.
Solitamente questi artigiani indossavano un lungo grembiule e, seduti su una bassa sedia o su corto sgabello, lavoravano posizionati davanti al “bancarriello” (in italiano deschetto) vale a dire un tavolino quadrato, piccolo, con qualche cassetto, a quattro piedi.
La sua altezza era alquanto bassa, superava di poco le ginocchia dell’artigiano; aveva il piano suddiviso in varie sezioni in modo da consentire il contenimento e la distribuzione funzionale di chiodi e chiodini e dei vari attrezzi del mestiere raggruppati, tutti, in modo tale da facilitarne, la disponibilità e la pronta accessibilità.
Nelle giornate e nelle serate “scure”, il “bancariello” era illuminato da una lampadina elettrica che, protetta da una ampia “piattella frangiluce”, illuminava con il suo cono di luce tutto il “piano di lavoro” .
Questo tipo di illuminazione creava una zona circostante quasi in ombra ed era, a seconda delle necessità, regolabile in altezza con un sistema di contrappeso.
Gli strumenti di lavoro erano semplici e pochi.
Il principale attrezzo era senz’altro la particolare incudine metallica che, a forma di piede rovesciato, si poggiava, stabilmente, sulle ginocchia; l’incudine era intercambiabile, a tre forme, per suola intera, mezzasuola e tacco e su di essa si inchiodavano le scarpe nuove, non cucite o quelle che erano da riparare.
Tra gli altri strumenti da lavoro trovavamo il particolare martello con la testa tondeggiante, le tenaglie, la pinza “tirapelle” (una pinza particolare utile a non rovinare la tomaia), il trincetto (una lama di acciaio, affilatissima, larga due dita, ricurva alle due estremità, senza manico, necessaria per tagliare), la raspa, la lima, dei pezzetti di vetro (per pareggiare l’orlo delle suole), i chiodini di varie dimensioni (detti “semenzelle”, di ferro, con testa larga e piatta, con gambo quadrato e punta affilata), la perforatrice multipla (una particolare “macchinetta” occhiellatrice), la pietra per battere il cuoio, spago, alcuni pennelli, tinture, vernici, spazzole ecc. ecc.
Altri attrezzi principale erano la lesina (detta anche “assuglia”) e il punteruolo.
Il punteruolo era necessario per praticare fori nel cuoio in cui infilare lo spago per cucire la tomaia alla suola).
La lesina era un attrezzo indispensabile per la cucitura incrociata a mano, era in acciaio di forma curva, diritta, rotonda e piatta; serviva per perforare i tre strati da cucire con lo spago, precedentemente impeciato, con pece naturale chiara (composta di resina d’abete mescolata con olio) o con pece nera (bituminosa, ottenuta con catrame o altre sostanze organiche)
Immancabilmente poi nella bottega era presente una secchia di legno con acqua in cui veniva posto in ammollo il cuoio (per ammorbidirlo) nonché una “scansia” o mensole su cui erano allineate le forme in legno, le scarpe in lavorazione, le pelli e i cuoi per le suole.
Le forme erano di varie misure, del piede sinistro e destro, munite di un particolare ferro uncinato, ricavate preferibilmente da legno di faggio, di acero e di carpino, scelte tra le varie misure dalle quali e sulle quali veniva ricavata e adattata la “nuova scarpa”.
Utilizzavano un semplice pezzo di spago o anche una strisciolina di carta per prendere con precisione le misure della pianta del piede, della sua lunghezza, dell’altezza del collo del piede nonché della circonferenza sopra la caviglia.
Quelle misure venivano “applicate” a una corrispondente forma di legno; da essa ricavavano direttamente il modello della scarpa, ne disegnavano, su un cartone, la sagoma della tomaia e delle sottotomaie che ricavavano poi utilizzando, per le tomaie vere e proprie, pelli di capretto, di vitello o di camoscio e il cuoio per parte sottostante della scarpa .
Gli elementi così approntati venivano poi cuciti giacché la cucitura era il modo più antico per unire la suola e la tomaia.
La chiodatura e l’uso di colle sono subentrati in tempi successivi ma allora la bravura dello scarparo si evidenziava proprio in questo particolare e laborioso passaggio artigianale.
Si usava allora spago di canapa, sottile e raddoppiato e saldato con la pece e per facilitarne il passaggio dei fori (fatti con lesina e il punteruolo) si fissava a un capo dello spago della setola di maiale o di cinghiale.
Per tirare lo spago con forza l’artigiano si fasciava le palma e i dorsi delle due mani con una striscia di pelle per evitare profonde ferite sulla pelle causate inevitabilmente dallo spago tirato molto forte. Questa fasciatura proteggeva anche le mani dalle pungiture che potevano derivare dall’uso della lesina.
Le scarpe erano dunque un prodotto artigianale “prezioso”, da tenere in buon conto, che nel loro uso personale e quotidiano andavano salvaguardate e “protette”, tant’è che, un tempo, lateralmente si usavano i cosiddetti “salvatacchi” che, a forma di mezzelune metalliche, venivano inchiodati sui tacchi e sulle punte delle scarpe; esse evitavano il rapido consumo di queste due parti importanti della scarpa.
Specificamente, per gli scarponi invernali, sulla loro intera suola esterna spesso venivano messi dei chiodi (a gambo tagliato, con la testa quadrata tronco-piramidale o allungata) chiamati "centrelle" , che rendevano le scarpe quasi eterne perché si consumavano soltanto questi chiodi e non la suola.
La sostituzione delle "centrelle”, economicamente vantaggiosa per le persone povere, rendeva praticamente la scarpa utilizzabile per moltissimi anni.
Purtroppo salvatacchi, salvapunte e "centrelle" provocavano non solo un fastidioso rumore metallico sul selciato delle strade e dei pavimenti delle abitazioni ma erano anche la causa di pericolosi scivoloni per mancanza di un adeguato attrito tra suola e superfici levigate.
Viceversa le "centrelle" aiutavano a camminare bene sulle strade sterrate, bagnate e scivolose perché favorivano una maggiore aderenza della scarpa.
Oggi delle numerose botteghe di ciabattini e scarpari di una volta non ne è sopravvissuta nessuna; la gloriosa “razza degli scarpari” è completamente estinta giacché nessun montellese ne ha continuato l’attività artigianale.
Di contro sono proliferate i negozi, senz’altro più remunerativi, di rivenditori di scarpe, fabbricate e prodotte, a livello industrializzato, in altre località.
Le nuove generazioni montellesi hanno disdegnato la continuazione della tradizionale attività artigianale degli scarpari, pertanto non credo esistano più botteghe di calzolai in senso proprio.
Nel paese l’attività di sola riparazione di scarpe avviene oggi presso i due unici “laboratori” che sono, per altro, gestiti (a quanto mi dicono) non da montellesi ma da due bravi ed intraprendenti ragazzi di Lioni..
Lungo il corso troviamo cosi due “eleganti laboratori” quello de “Il calzolaio. Il mago della scarpa di Perna Alfonso” (sotto il palazzo Apicella) e l’altro “La bottega del calzolaio” di Ruotolo Carmine”, un po’ più su, nel palazzo De Simone.
Che altro dire?
E’ noto che il tempo, nel suo evolversi, trasforma tutto e anche l’attività dello scarparo è stata assoggettata a trasformazioni ma, se a Montella essa si è completamente estinta, in altri contesti si è mutata ed incrementata al punto da trasformarsi in una proliferazione di fabbriche e fabbrichette finalizzate, tutte, a produrre, in forme associative, scarpe con un sistema industriale, molto evoluto .
Fu in modo particolare nella seconda metà degli anni Cinquanta, con il boom economico che le fabbriche di scarpe (soprattutto del Centro-Nord d’ Italia) ebbero, il massimo sviluppo e, proprio in quegli anni, accanto ad esse, nacquero e si svilupparono aziende sussidiarie, specializzate nella fabbricazione di semilavorati (suole, tacchi e fondi, tomaifici e laboratori per lo sviluppo di modelli per il taglio a mano e a macchina).
Fu quella un’epoca in cui il sistema manifatturiero delle calzature (con l’ausilio anche di macchinari sempre più complessi e funzionali) si estese tanto progressivamente che (come annota il Sole 24 Ore) nel 2013, proprio perché in costante crescita, quel manifatturiero ha registrato un fatturato di esportazione di circa otto miliardi di euro !
Mi crea qualche rammarico costatare la scomparsa, a Montella, di una tradizione che in altri contesti è invece continua, con forme, organizzazioni e modi senz’altro diversi e moderni; una tradizione che (percepita come un’attività lavorativa promozionale) ha creato posti di lavoro e benessere.
Ho letto che proprio in Piemonte, in Lombardia, nel Veneto, nelle Marche e in Toscana esistono suggestive e ben curate ricostruzioni delle botteghe dei calzolai, che a Novara esiste perfino una Università dei calzolai e che, inoltre, in altre varie regioni italiane, anche oggi alcuni calzolai svolgono, con piena soddisfazione e successo la loro attività avvalendosi di macchinari eccezionali, finanche di software, vale a dire l’ impiego congiunto e integrato di sistemi software.
Tutto ciò conferma che l’attività dello scarparo è pur sempre un’attività, almeno socialmente, positiva e valida.
Essa è per me un’attività comunque sempre ricca di fascino, che rivive nella mia memoria proprio perché correlata a lontani ricordi.
Saluti a tutti e ………….alla prossima !
Giovanni Tiretta (Nino per gli amici)
Lucca, 3 maggio 2016
P.S.
Ho piacere di comunicare che una sintesi del precedente mio articolo relativo alle scuole di Montella negli anni 45/50/60 è stato richiesto e pubblicato anche nel sito del “Museo della Scuola”, un museo digitale della Scuola Primaria Italiana il quale raccoglie documenti, memorie e immagini di ciò che è stata la scuola elementare italiana, dalla sua fondazione nel 1861 ad oggi. Il Museo della Scuola si trova in Toscana, esattamente a Firernzuola, vicino Firenze, in via Villani 11 ed è accessibile sul sito www.museodellascuola.it.
L’articolo è titolato “La scuola a Montella dopo la guerra” ed visibile unitamente a tantissime altre interessanti documentazioni, immagini, ricerche e storie della scuola italiana.