Ancora fino alla prima metà del Novecento, sulla città di Montella circolava, con malcelata tendenziosità, l'epiteto di “mal paese”, come sinonimo di luogo malfamato, inospitale, “pericoloso”, abitato da individui sempre pronti, per una loro innata inclinazione, al litigio, alla rissa, a menar le mani, al misfatto e all'omicidio. “A Montella – blateravano gli abitanti dei limitrofi e rivali paesi di Cassano, Bagnoli, Montemarano, Nusco – mala gente, mal paese, pure l'erba punge il culo!”, facendo così contrappunto ad un detto montellese che millantava, con irridente
superbia intellettuale, un indiscutibile primato morale e fisico:
Montella montao Cassano,
Nusco e Montemarano,
co'nna otata re 'urazza
facette Uesazza
e co'nna otata re culo
facette pure Uagnulo.
Persino un insigne uomo politico come Giustino Fortunato, grande intellettuale meridionalista, durante un'escursione turistica sul Terminio nel 1881, calato a valle da Verteglia (dove si era imbattuto in alcuni mandriani che a lui erano parsi “sospettosi”) per poi proseguire verso Bagnoli Irpino e facendo sosta in piazza S. Bartoli, di Montella aveva evidenziato, non senza timore, la sua cattiva nomea:
“Mezz'ora dopo il tocco, arrivammo nella piazza del borgo principale di Montella, spauracchio di mezza provincia, e che perciò ha l'onore di alloggiare stabilmente un delegato di pubblica sicurezza”.
Ma qual era la causa di sì mala fama, che si soleva appioppare a Montella, come un congenito stigma psico-sociologico di lombrosiana derivazione?
Il buon canonico Domenico Ciociola, storico ottocentesco e romantico del nostro paese, ne indicava ingenuamente l'origine nel carattere fiero, indipendente del montellese, nella sua scorza ruvida e superba, nel suo essere reattivo alle offese verso la propria persona e più verso la propria dignità: allo schiaffo – morale o fisico – ricevuto, il montellese non porgeva evangelicamente l'altra guancia, bensì reagiva con azione uguale e contraria, se non peggio!
Ma le ragioni di tale fama, al di là delle amplificazioni e delle distorsioni di fatti criminosi – da sempre, per altro, verificatisi in tutti i paesi irpini – operate dalla fantasia popolare, andavano ricercate nella realtà storica del luogo, di un paese, cioè, fra i più importanti della Provincia, che nei secoli aveva rappresentato un centro politico nevralgico e un crogiuolo multiforme di situazioni, di interessi, di eventi, in tempi in cui il ricorso alla violenza, all'abuso, alla prevaricazione e alla sopraffazione, si imponeva come necessario mezzo per raggiungere il proprio scopo o tornaconto o semplicemente un giusto grado di sopravvivenza. Si pensi al fenomeno del brigantaggio, fin dall'età angioina presente nel territorio, che aveva finito con l'instaurare in paese un permanente clima di paura, di sospetto, di allerta perenne, una sensazione diffusa di imminente pericolo dal quale guardarsi e difendersi con ogni mezzo, stante l'inadeguatezza delle istituzioni giudiziarie e militari preposte alla salvaguardia della incolumità delle persone. L'agguato, la violenza, il crimine, in quei tempi, erano cronaca “ordinaria”.
Montella era stata, per le naturali caratteristiche morfologiche e fisiche del suo territorio (boschi, montagne, anfratti, come luoghi facilmente raggiungibili e sicuri nascondigli), teatro d'azione delle più famigerate bande brigantesche. Montellesi furono i più noti e facinorosi briganti: Cianci, Caldarone, Carbone, Pico. E, non a caso, proprio ad un montellesse, Scipione Capone, conoscitore ed esperto del territorio e dei suoi abitanti, fu affidato il compito della repressione del brigantaggio.
Non meraviglia, dunque, che a Montella nei secoli si siano verificate numerose ed efferate sequele di delitti e di azioni criminali, e che alcuni fatti delittuosi abbiano potuto colpire e affascinare l'immaginazione popolare che su di essi ha tessuto trame di leggenda e materia di fantasiosi racconti. Così alcuni personaggi, certamente di peculiare personalità e fascino, sono diventati, loro malgrado, protagonisti di straordinarie ed inquietanti “storie maledette”. Alcune di queste storie penso sia utile che vadano conosciute e tramandate alle giovani generazioni, non solo per la loro storicità, ma perché, dispogliate dell'alone mitico di cui le ha circondate l'affabulatoria narrazione popolare, sono state emblematiche della temperie culturale e sociale di un paese di quel Mezzogiorno interno e profondo, sul quale ha pesato maledettamente il retaggio di un passato di oppressioni, di violenze e di miserie, propaggine di un “medioevo tenebroso” dal quale ha tentato faticosamente, talvolta disperatamente, di uscire – pur senza rinnegare e dimenticare – per incamminarsi verso una civiltà di progresso e di democrazia.
Le storie “maledette” che vogliamo raccontare sono, in prosieguo,
I Il delitto dell'Abate Fabio Giovanni Goglia
II L'assassinio impunito di Ferdinando Cianciulli
Il delitto di Fabio Giovanni Goglia
La trista vicenda biografica dell'abate F. G. Goglia si consumò nel secolo XVII, negli anni più bui della millenaria storia di Montella, che mai come allora fu attraversata da eventi sconvolgenti, da sciagure e lutti, che esasperarono fino al parossismo le condizioni di uno stato sociale già prostrato dall'oppressione feudale, dalla corruzione imperante, dal lassismo morale e dalla diseguaglianza civile. Fenomeni straordinari e “neri”, come peste, terremoti, siccità, epidemie, criminalità si abbatterono sulla popolazione inerme, con inaudita virulenza, in una sequenza che fu avvertita allora come la manifestazione di una volontà divina biblicamente punitiva di una umanità irredimibile.
La storia e la leggenda dell'abate Goglia portavano impressi i segni di quell'epoca tormentata e funesta. Titolare della parrocchia di S. Silvestro, in qualità di canonico capitolare della Collegiata poté impinguare la sua posizione economica grazie alle rendite parassitarie che tale carica consentiva di ricavare dalla cogestione della cosiddetta massa comune (l'insieme delle proprietà terriere, mobiliari, finanziarie ed immobiliari) in dotazione delle parrocchie ricettizie montellesi ed ai proventi del giuspatronato su cappelle e chiesette di nobili famiglie del luogo. Nella sparsa documentazione storica della seconda metà del Seicento (atti notarili, liti giudiziarie, deliberazioni amministrative, relazioni diocesane, verbalizzazioni ecclesiastiche ecc. ) il suo nominativo compare, talvolta, unicamente come difensore di privilegi ed interessi personalistici. La sua carica religiosa, inoltre, gli consentiva di esercitare sulla massa ignorante e sprovveduta dei fedeli parrocchiani (specialmente su quelli di sesso femminile) azioni di inframmettenza e di pressione, non sempre “cristiane”, secondo un malcostume morale che fu tipico del clero meridionale secentesco, poco osservante dei dettami comportamentali sanciti dal Concilio tridentino e dalla Chiesa della controriforma.
La figura di F. G. Goglia, che “abate” non fu, ma semplicemente prete (il titolo di abate, proprio di chi era a capo di un'abazia o di un monastero, nel '600 e nel '700 veniva anche usato come appellativo generico per chi vestiva l'abito clericale), ci è stata tramandata come quella di un sadico mostro, autore di ogni sorta di turpitudini e di nefandezze, perpetrate sulle indifese fanciulle del paese, dalle sevizie agli stupri, dai perversi giochi erotici alle crudeli torture, addirittura come dispotico e feroce signore o feudatario di Montella, che con il suo codazzo di “bravi” angariava i suoi sudditi fino alla uccisione, e spavaldamente esercitava addirittura il jus primae noctis sulle novelle spose.
Ritenuto sodale del diavolo, che gli conferiva straordinari poteri (sparizioni, ubiquità), facitore di magici filtri, di malefici, di mortali “fatture” e di orribili stregonerie, sempre impunito grazie ad un anello fatato che lo preavvisava dei pericoli, venne al fine barbaramente strangolato in una cella del monastero del Monte, dove si era rifugiato per sfuggire alla collera ed alla giustizia del popolo, ormai insofferente delle sue prepotenze.
Ma i documenti storici di quel tempo hanno dissipato e sfatato del tutto la costruzione mitica e leggendaria di un simile personaggio, riportandolo alla sua mera humanitas e collocandolo nella realtà di quegli anni convulsi. Il Goglia non fu feudatario o signore di Montella, allora governata dai membri della baronale famiglia Grimaldi (Alessandro, Antonio con i figli di quest'ultimo Gian Carlo, Alessandro e Giuseppe); non attuò il jus primae noctis, mai esistito in Principato Ultra, né commise reato di assassinio. E, tuttavia, esponente di una famiglia nobile, ricca e potente e di un ceto privilegiato, socialmente influentissimo e spesso prevaricatorio come il clero locale di quel periodo, non fu, per così dire, uno stinco di santo, un religioso umilmente dedito alla missione sacerdotale e pastorale.
Molti membri del suo casato, che doveva le sue fortune economiche alla riconoscenza della monarchia aragonese per i servigi resi alla Corona, erano periti di morte violenta. Il suo rapporto con le gerarchie ecclesiastiche fu sempre conflittuale e inteso al perseguimento di interessi individuali, come nell'elezione a canonico del Capitolo della Collegiata, che lo vide aspramente in contrasto col vescovo della diocesi di Nusco, il quale riteneva la sua giovane età (16 anni) immatura per il canonicato.
Contravvenendo alle virtù della castità e del celibato, proprie di un ministro di Dio, nel 1651 intrecciò una segreta relazione amorosa con una donna d'alto rango, Anna Maria de Mendoza, figlia di un nobile spagnuolo, trapiantato a Montella probabilmente come funzionario in rappresentanza della corona iberica. Sebbene le relazioni sentimentali dei religiosi, in quell'epoca corrotta e farisaica, pur destando comprensibile stupore, fossero alquanto diffuse (la letteratura e le cronache secentesche ne abbondano), quella del nostro abate (una irresistibile passionaccia, che aveva spinto una nobildonna ad innamorarsi di un prete e a dare alla luce un figlio illegittimo) si rivelò un errore fatale. La famiglia Mendoza, che vantava altissime conoscenze e protezioni, ferita nell' “onore” e macchiata nel prestigio sociale di cui godeva, spinta da un puntiglio vendicativo tipicamente spagnolesco e dall'orgoglio di casta, “doveva” lavar l'onta subita e ripristinare la sua intangibile onorabilità! Iniziò così, senza tregua, una spietata caccia all'uomo, ingaggiando sicari nel mondo della delinquenza locale, sicura della connivenza dell'addomesticata polizia ufficiale, rappresentata dal capitano della locale guarnigione militare. Il povero Goglia, perseguitato e minacciato, cercò vanamente di addivenire ad una riparatoria conciliazione.
A nulla gli valsero sia il matrimonio nuncupativo, celebrato alla presenza di due testimoni e che il parroco don Carlo Palatucci (novello don Abbondio) per paura non registrò; sia la protezione “miracolosa” dai tiri d'archibugio che gli venivano tirati dagli inseguitori, grazie alla reliquia del sacco di S. Francesco che egli portava addosso. All'alba del giorno 6 settembre 1677, al risveglio in una angusta celletta del monastero del Monte, ove si era rifugiato fidando nell'inviolabile diritto d'asilo del convento, un sicario, forse con la complicità degli stessi monaci ospitanti, lo braccò e lo strangolò stringendogli – come narra la leggenda – un nodo scorsoio al collo. La morte dell'abate suscitò grande impressione in paese, ma non meraviglia. Tutti conoscevano i nomi del mandante (Mendoza) e dell'assassino (un membro della famiglia De Marco). Ma non vi f urono indagini, né arresti o processo. L'uccisione del Goglia sembrò soltanto accrescere la lunghissima teoria dei delitti che infestò quel secolo maledetto. Prima di lui altri 13 preti del paese erano caduti sotto colpi di schioppo, di ascia o di coltello.
Per alcuni anni la morte dell'abate rimase archiviata nella memoria collettiva dei montellesi. Ma già agli inizi del Settecento – alla cui altezza si può far risalire la mitizzazione del personaggio – la fantasia popolare trasse dall'oblio la vicenda tragica di amore e morte di quel prete, immergendola in un alone magico di mistero, e trasformò la sua immagine in quella fosca e demoniaca di un satiro turpe e lercio, autore di orrendi misfatti, di morbosi abusi sessuali, di angherie e sopraffazioni esercitate impunemente e sadicamente sulla inerme e impaurita popolazione montellese. Nacque così la leggenda dell'abate Goglia, che trasfigurava la storia, ma che di questa pur conservava riposti echi e memorie profonde, non più rimovibili dalle coscienze e dall'immaginario. In essa si coglieva la presenza di un passato e di una vita in cui regnavano prepotenza, alterigia e violenza: il mefistofelico abate portava l'effigi dei tanti baroni, signorotti e malfattori che per secoli avevano angosciato gli umili e i diseredati.
(continua)