( I giochi artigianali di una volta e... direttamente “costruiti” )
Negli anni ’40-’50 per noi ragazzi, contrariamente ad oggi, non c’erano televisione, videogiochi, playstation e quant’altro dell’epoca corrente; fatti i compiti di scuola “sgusciavamo” in strada per raggiungere i nostri coetanei, per giocare insieme e per combinare tante e tante “monellerie”, fantasiose e imprevedibili. Avevo una larga e nutrita schiera di
conoscenti e coetanei che abitavano nelle varie zone del paese e che comunque erano circoscritte, grosso modo, dalla Piazza Bartoli e dall’attuale via Del Corso Precisamente frequentavo soprattutto la zona prospiciente il vico Santa Maria, il monumento del S.S.S. Salvatore e lo slargo del Riarboro; andavo spesso sulla via del Corso, soprattutto nella zona antistante la Villa De Marco e il piccolo slargo di Piazzavano; i nostri giochi erano con maggiore frequenza svolti anche nello spazio , costituito da tutto il lungo ed ampio marciapiede antistante alla vecchia Chiesa del Purgatorio e Casa\Cinema Fierro.
Quest’ultimo spazio, per la sua ampiezza, permetteva una larga e concreta libertà e costituiva, dunque, un polo di larga aggregazione nel quale “confluivano”, oltre a tantissimi ragazzi del “Corso”, di “Piazzavano” e di San Mauro, tutti gli altri cugini di Totoruccio, vale a dire Nicola e Mario nonché Felice, Ettore, Gaetano e Fernando ragazzi, questi ultimi, per lo più coetanei e figli tutti di Silvestro Volpe e di Aurora Fierro.
Non essendo, ahimè, impegnato in attività e corsi di nuoto e di basket, né di musica, recitazione e canto, né tanto meno di lingue straniere, avevo, in quel tempo lontano, larghi spazi di tempo a disposizione che impegnavo oltre che nel gioco anche in rapporti socializzanti soprattutto nell’ambito rionale.
Per tale motivo capitava che spesso “bazzicavo” nelle varie botteghe artigianali del mio “casale” e mi interessavo alle varie attività dei quei bravi artigiani.
Mi piaceva vedere “che cosa facevano” e “come lo facevano”; ero interessato alla loro manualità, ai loro attrezzi di mestiere, ne chiedevo nome e uso.
Insomma le botteghe furono per me fonte di conoscenze pratiche e nel contempo forme di piacevole passatempo nonché un avvio naturale ad una manualità che, divertendomi, mi portava, con gradualità, a nuove scoperte, alla riflessione, all’esercizio dell’attenzione.
Da quelle botteghe ho imparato a “creare” e a “fare”, come tutti i miei coetanei, anche semplici e primitivi manufatti nonché giocattoli per i quali usavamo, per lo più, materiali di scarto (rocchetti, cuscinetti meccanici, pezzi di legno, cerchioni di biciclette, vecchi ombrelli e materiali molteplici e vari per farne “rocchetti” o “carri armati, cerchi, telefoni con i fili, trottole, aquiloni, archi, fucili ad elastici , fischietti, monopattini, carriole, archi, cerbottane, fionde, ecc. ecc).
Tra i giochi per eccellenza da ricordare e fabbricati da noi maschietti è senz’altro quello della fionda detta anche “freccia” per lo più usata per tiri di precisione o per cacciare uccelli.
Per fare una freccia era abbastanza semplice, innanzitutto occorreva disporre di un ramo biforcuto (a “Y”) di legno molto duro e robusto.
Poi occorrevano due grossi elastici, ricavati dalle camere d'aria delle ruote delle biciclette; gli elastici venivano ben legati ai bracci della fionda avendo cura di fissare le estremità degli stessi a un piccolo pezzo di pelle tagliato ovale che si ricavava da scarpe o borse in disuso.
Tutti, o quasi, i bambini si costruivano una fionda, per cacciare uccelli, per sicurezza personale nelle piccole “guerre tra casali”, per tiri di precisione o per mirare ai vetri di qualche malcapitato.
Un altro gioco che costruivamo da soli era l’ “Arco” vale a dire senz’altro una delle armi più antiche e leggendarie.
Per costruirlo usavamo un materiale semplice; bastava un pezzo di legno flessibile (salice, castagno o nocciolo) curvato ed uno spago.
Come frecce venivano usati altrettante “bacchette” dello stesso legno o, spesso, venivano usati anche i ferri che componevano il telaio di un vecchio ombrello non più utilizzabile.
L’uso dell’arco era prevalentemente finalizzato a gare di precisione.
Un’altra “arma” di gioco era il “Fucile ad elastici”
Il fucile veniva costruito direttamente utilizzando una tavoletta, una molletta da biancheria e degli elastici.
La molletta era ben fissata sul fucile e fungeva da grilletto per far partire l’elastico.
Unitamente a questi fucili di legno esisteva la “pistola” che era una variante al “fucile” ed entrambi serviano per giocare alla “guerra” ma soprattutto si organizzavano gare di tiro al bersaglio.
Un gioco di “guerra” era quello con la “cerbottana” il cui termine deriva da una parola araba, “zarbatana”, che indicava un’antica arma letale – assai diffusa sia in Oriente che in Amazzonia - composta da un lungo tubo, utilizzato per lanciare, soffiando, delle piccole frecce.
Assai spesso i bambini se le costruivano da soli, con lunghe canne (provenienti da materiali di risulta, ideali erano le canne di alluminio dei lampadari, i tubi di stagno, ecc.) che “sparavano” piccoli oggetti (palline di carta, bacche, creta e sassolini) e soprattutto frecce costruite con carta arrotolata a cono e tenuta unita con la saliva, usando, come propulsore, la forza del proprio fiato.
Con la “cerbottana” si facevano gare, vinceva chi lanciava più lontano; oppure si mettevano in atto piccole battaglie innocue tra squadre di bambini e bambine.
La funzionalità della “cerbottana” era, grosso modo, replicata nello “squicchiazzo”, uno strumento di gioco assai in voga in quel periodo oltre che a Montella anche in altri contesti regionali dove però veniva chiamato “stantuffo” o anche “schizzo”, “schezzette” o “schiuppettuzzo”.
Lo “squicchiazzo” era dunque un piccolo “cannoncino” che, funzionante ad aria compressa, sparava proiettili di stoppa.
Per farlo serviva un ramo di sambuco da cui se ne tagliava un pezzo (lungo dai 20 ai 40 cm e spesso circa 3 cm) e se ne estraeva la parte interna, morbida e leggera: il midollo; così facendo si ricavava un affusto di circa un centimetro di diametro che, levigato internamente, rendeva la "canna da sparo" liscia come una canna di fucile.
Da un altro legno più duro, il corniolo, si tagliava un rametto, un po' più corto del cannoncino dal quale si ricavava una specie di "pistone-stantuffo" da inserire nella canna.
I proiettili venivano confezionati con stoppa o filamenti di spago che per renderli della giusta compattezza venivano masticati a lungo.
Il proiettile poteva anche essere di legno impastato con canapa.
Per far funzionare lo “squicchiazzo” occorreva spingere, con un colpo energico, lo stantuffo in modo che il proiettile, spinto dell’aria compressa, usciva di scatto producendo il rumore di un piccolo scoppio.
Il gioco consisteva nel realizzare i lanci più lunghi.
Rispetto allo “squicchiazzo” il gioco di “mazza e pingolo” era - tra i giochi più diffusi di allora - senza dubbio un tantino pericoloso.
Era un gioco popolare, meglio denominato come “gioco della lippa”, antico, assai diffuso dal Mediterraneo occidentale all'India e, forse, arrivato in Europa nel XV secolo.
Nelle regioni d’Italia, in base alla località, ha differenti nomi tanto è che , per esempio, in Toscana è chiamato “ mazzascudo”; in Emilia-Romagna, a Parma : “a giarè”; in Piemonte “a cirimèla”; in Puglia, a Bari “a pestìcchie” e in Sicilia, nella generalità: “ a manciùgghia”.
Il gioco di “mazza e pingolo” era effettuato con due pezzi di legno, generalmente ricavati da un bastone di legno di castagno o anche dai manici di una scopa; il primo pezzo – chiamato “lippino” - era lungo circa 5 centimetri di lunghezza, appuntito ai due capi, somigliante ad un fuso; l’altro pezzo - chiamato “lippa” - era lungo circa mezzo metro.
Per giocare occorreva tracciare a terra un cerchio ed un ovale ove posizionare il “lippino”. La tecnica del gioco consisteva nel colpire con il pezzo lungo (il lippa) il pezzo piccolo (“lippino”) su una sua estremità per farlo saltare e quindi colpirlo.
Si facevano tre tentativi e dunque il gioco consisteva nel lanciare il pezzo piccolo quanto più lontano possibile.
I partecipanti al gioco di “mazza e pingolo” formavano due squadre di eguale numero di giocatori e anche per questo gioco, si tirava a sorte quale delle due aveva la battuta e quale la rimessa.
A ben riflettere il “mazza e pingolo” era una sorta di base-ball casareccio, senz'altro un bel gioco il quale però, aveva - durante le “battute” - una rilevanza frequentemente pericolosa, perché il “lippino” poteva finire in testa a qualche malcapitato passante o sui vetri di qualche finestra e, in questa non rara circostanza, i giocatori si scompaginavano in un « fuì fuì » generale.
Un gioco umile, passatempo dei bambini era senza dubbio alcuno quello dello “strummolo” un gioco noto anche con il nome improprio di “trottola” o anche di “picchio”, vale a dire un cono di legno con una punta in metallo, attraversato da scanalature parallele su cui si avvolgeva una corda per dargli uno slancio vorticoso.
Quello della trottola era un gioco per bambini, conosciuto in tutto il mondo fin dai tempi antichi.
Risale a più di 6000 anni fa tant’è che alcune trottole perfettamente conservate - con le fruste utilizzate per metterle in moto - sono state ritrovate durante gli scavi di Ur in Mesopotamia nonché negli scavi dell'antica Troia, a Pompei, in alcune tombe etrusche, in Cina, in Giappone ed in Corea.
Per giocare alla trottola occorreva avvolgerla con una corda, in modo da formare una spirale che andava dalla punta (in metallo) alla parte più alta e larga; era la corda che permetteva, nell'atto del lancio, di far ruotare la trottola.
Molti ragazzi si procuravano direttamente il legno per la trottola e un falegname del paese, con il tornio la creava. Il legno più pregiato era quello d’ulivo, mentre il faggio meno, per la sua fragilità.
Le modalità di gioco erano diverse ma la più comune consisteva nel disegnare un cerchio sulla terra battuta, del diametro di circa 1,5 metri; lanciando la trottola in rotazione all’interno del cerchio, chi riusciva a far uscire la trottola del cerchio continuava il gioco.
I ragazzi facevano vere e proprie competizioni per vedere chi riusciva a farla girare più a lungo. Anche a Montella alcuni ragazzi erano veri e propri giocolieri che riuscivano a far ruotare la trottola in ogni luogo; alcuni miei compagni di scuola, forse meno bravi sui libri, erano molto invidiati perché avevano un’abilità eccezionale: la loro trottola, una volta lanciata, riusciva a girare sulle mani, sulle ginocchia, finanche sulle punte delle scarpe.
Dalla mia ricerca ho “scoperto” che a Montedoro in Sicilia esiste un monumento dedicato alla trottola, segno evidente dell’importanza di questo gioco nella tradizione popolare.
Tra i giochi direttamente costruiti da noi ragazzi il più classico di queste realizzazioni era, senz’altro, il “trattore” o “carro armato”.
Si trattava di una macchina semovente a cui la fantasia di noi bambini attribuivamo il ruolo di trattore o di carro armato, a seconda delle inclinazioni personali e a seconda anche della tecnica di costruzione che poi, alla fine era la stessa.
Per la costruzione del trattore occorrevano innanzitutto i “rocchetti” (vale a dire piccoli cilindri in legno) e servivano ancora una scheggia di sapone (o un po’ di cera), due legnetti (di cui uno più lungo e l’altro più corto) nonché un elastico...
Tralasciando i dettagli della sua costruzione va ricordato che il movimento del “carro armato” era determinato dall’elastico il quale, perché attorcigliato, dava una lenta energia di movimento, in parte “frenata”, dall’azione della cera o del sapone.
Un mio amico bravissimo nella costruzione dei “carri armati” era Guiduccio Moscariello, il figlio di “Purdina la panettera”.
Un altro gioco praticato soprattutto dai bambini più piccoli era quello del "telefono" che veniva “costruito” con due barattoli (“bboatte”) collegati da uno spago che veniva fissato con un nodo nei buchi praticati sul fondo dei barattoli i quali potevano essere sostituiti anche dalle coppette vuote del gelato.
Con questi strumenti ci si poteva “telefonare" parlando nel barattolo o, collocandolo su un orecchio, per ascoltare
(ossia lo “zufolo”, “flauto” o “fischietto)
A differenza di quelli di oggi, i ragazzi di una volta sapevano, con un semplice rametto di albero, costruire un “fraolo” ossia uno “zufolo”, “flauto” o “fischietto.
Per “costruirlo” occorreva tagliare - con un coltellino (quasi tutti i ragazzi ne avevano uno) - un bastoncino di castagno o anche di salice, verde e liscio, lo si doveva poi battere delicatamente sulla corteccia in modo da farla staccare senza romperla; la stagione adatta era la primavera giacché questa stagione è l’unico periodo in cui la corteccia si stacca con una certa facilità dal legno.
Occorreva poi tagliare un po’ di legno sbucciato asportandone una parte in senso longitudinale giacché serviva uno “sfiato” per far passare l’aria.
Si infilava quindi il pezzo così lavorato nella corteccia facendo una piccola incisione nella stessa e quindi si apriva un foro a becco.
Il suono era prodotto soffiando attraverso il taglio del pezzo introdotto per cui i suono era più o meno acuto in relazione all'ampiezza del diametro e alla lunghezza della sezione della canna del “fraolo”.
La fantasia dei bambini di un tempo era tanta e tale da realizzare delle trombette utilizzando anche gli steli del tarassaco, in tal senso occorreva soffiare intensamente dentro il gambo vuoto, premendo delicatamente con una mano.
Esercitando la giusta pressione e soffiando, alcuni bambini, spesso, riuscivano a far suonare un filo d’erba o anche una foglia tesa che, inserite tra le labbra si trasformavano in primitivi e divertenti “strumenti a fiato” modulando suoni diversi e non usuali.
Un altro “giocattolo” molto artigianale era quello della “Carrozza”, “carretto”, uno strumento di locomozione “autarchico” in quei tempi lontani, molto usato dai ragazzi.
Il gioco in realtà è molto antico e (a parte i cuscinetti a sfera di cui si dirà più avanti), già nell'antica Roma i bambini giravano per le strade con carrettini, di solito in legno, tirati da cani, capre, pecore tant’è che a Piazza Armerina, in un antico mosaico sono raffigurati quattro bighe trainate da oche, fenicotteri, colombacci e trampolieri e vi è rappresentato anche un ragazzo che premia, con un ramo di palma, il vincitore.
Mosaico di Piazza Armerina raffigurate una biga trainata da colombacci.
La “carrozza” che io ricordo era detta – impropriamente - anche “carriola” ed era costruita mediante assi di legno inchiodate a formare un triangolo o anche un rettangolo con alle sue estremità, per ruote, quattro cuscinetti a sfera, o altre rotelle di varia origine.
Un’appendice importante della carrozza era una sorta di “manubrio” che, munito di due ruote aveva un’ articolazione autonoma, tale da permettere al “guidatore” sia di indirizzare il percorso sia di effettuare le svolte necessarie; il “manubrio” funzionava tramite una corda legata alle estremità e spesso, per frenare la corsa, le “sterzate” erano strette al punto da causare pericolosi ribaltamenti della stessa carrozza.
Il reperimento delle ruote era alquanto complicato e difficile tant’è che solo pochi “fortunati” potevano disporre delle ruote a “cuscinetto” ordinariamente fornite dai meccanici del paese i quali li ricavavano dalla “rottamazione” di vecchi motori d’automobili. In alternativa i ragazzi si “arrangiavano” utilizzando le “rondelle” dismesse, che servivano a regolare la trazione dei cavi dei “passaggi a livello” della ferrovia nonché utilizzando anche le “ruote” delle teleferiche. Questo tipo di “ruote” erano alquanto grandi e per lo più venivano adoperate per la costruzione dei carretti utilizzati per il “trasporto a mano” di legna e “fascine” -
La “carrozza” era dunque una specie di mezzo di locomozione che funzionava autonomamente soltanto in discesa per cui veniva utilizzato essenzialmente e preferibilmente nelle strade con particolare pendenza.
Spesso le “discese” potevano essere anche collettive, con più "piloti" che si sfidavano a chi raggiungeva per primo il traguardo stabilito.
Oltre alla “carrozza” gli altri indimenticabili veicoli direttamente “costruiti” da noi ragazzi erano i “monopattini”: veicoli a due ruote, il cui movimento era determinato dalla spinta umana tramite gli arti inferiori.
Era costituito da una pedana, sulla quale si poggiavano i piedi, da un manubrio che, imperniato sulla pedana, si usava per cambiare direzione; c’era poi un freno, solitamente collocato posteriormente per bloccare la ruota posteriore.
Anche oggi si vedono in giro i “monopattini ma essi non hanno origine “autarchica” e di fatto sono prodotti a livello industriale; hanno diverse tipologie e sono destinate oltre che ai bambini e agli adolescenti anche agli adulti. Spesso mi è capitato di vederne alcuni fatti veramente bene, in materiali eccellenti nonché muniti di motorini elettrici a pile insomma “strumenti di locomozione” di molto sofisticati e, dunque, di molto differenti dai monopattini, semplici e “ruspanti” che erano in uso, al tempo della mia infanzia.
Un altro gioco “costruito” direttamente da noi ragazzi era l’“aquilone” le cui origini, storicamente vanno ricercate in Cina dove veniva realizzato con bambù e seta e, lasciato librare nel cielo, assumeva significati religiosi, il suo volo rappresentava una sorta di collegamento tra gli uomini e il cielo e quindi con le divinità.
Noi ragazzi lo costruivamo da soli; per farlo erano necessari due bastoncini incrociati, che si potevano ricavare da una canna oppure utilizzando semplici gambi secchi delle ortiche. Dopo averli fissati solidamente al centro li si ricopriva con un foglio di carta velina, leggerissima o anche con una pagina di giornale. Il tutto veniva tenuto insieme da una colla preparata con un impasto di farina bianca ed acqua, opportunamente diluito. La guida dell’aquilone avveniva mediante un lungo filo, ricavato dai gomitoli di cotone che solitamente si trovavano in casa. L’abilità nel costruirlo stava nel dare il giusto equilibrio all’aquilone, bilanciandolo tra la testa e la coda, in modo che potesse prendere agilmente il volo e salire sempre più in alto, fino quasi a scomparire in cielo.
“Lo chirchio” (ossia il “cerchio”) era un altro strumento di gioco preferito dai bambini .
Da una mia ricerca è risultato che la più antica raffigurazione di questo gioco risale al tempo degli Egizi e che già i giovani greci facevano rotolare un cerchio metallico detto “trochos” spingendolo con una bacchetta (“rabdos”) dall’estremità ricurva a forma di una chiave.
Al di là delle sue antiche origini quello del “cerchio” è stato uno dei più diffusi giochi dei ragazzi fino a qualche decennio fa vale a dire fino a quando i ragazzi erano ancora padroni della strada e delle piazze.
Un tempo era infatti facile trovare il cerchione di una ruota di bicicletta in disuso; era altrettanto facile toglierne i raggi ed esso diveniva uno strumento di gioco motorio, pronto per sfrecciare. Il bambino lo trattava con cura, come “un mezzo di locomozione”, lo custodiva con gelosia.
Il cerchio poteva essere condotto con una bacchetta di ferro (manubrio) o con un bastoncino di legno.
Correre dietro al cerchio, facendolo rotolare in equilibrio, richiedeva una grandissima abilità nonché doti di coordinazione, dinamica generale e più specificatamente di coordinazione oculo-manuale, nonché velocità e resistenza alla fatica; inoltre, per guidarlo in salita e in discesa, per frenarlo o farlo curvare, era necessaria una certa sensibilità nella capacità di valutare le distanze e nella capacità di adeguare la forza di spinta in funzione del percorso (differenziazione dinamica e cinestesica).
Il gioco più semplice che noi ragazzi facevamo da soli era quello del “terre” che costruivamo utilizzando una semplice castagna, bella grande e molto schiacciata sulla quale praticavamo, nella parte centrale, due buchi attraverso cui far passare uno spago di medio spessore.
Lo spago veniva annodato alle sue estremità; per fare funzionare il “terre” bisognava “centrare” la castagna; l’operazione veniva fatta reggendola tra le labbra in modo da regolare e pareggiare, da una parte all’altra lo spago tenendolo “pendulo tra i due diti medi delle mani. A quel punto si faceva poi “roteare” la castagna in modo che lo spago, si attorcigliasse su se stesso e a quel punto, tirando con forza le due estremità dello spago che, “dipanandosi” e “riattorcigliandosi”, faceva girare - per inerzia, velocità e ritmo - la castagna ossia il “terre”.
Non disponendo della castagna, il “terre” veniva realizzato usando anche un grosso bottone, di solito uno di quelli adoperati per abbottonare i “cappotti”.
Dopo aver parlato di fionde, di archi e “fucili ad elastici”, di cerbottane, di “squicchiazzi”, di “mazza e pingolo” , di “strummoli” e di trottole, di “rocchetti” e di “carri armati, di telefoni con i fili, di “frauli” e fischietti, di carriole e monopattini, di aquiloni, di “chirchi” e di “tirri” , la mia esposizione potrebbe continuare ulteriormente giacché sono ancora tanti i giochi e i “giocattoli” che, ahimè, sono ormai scomparsi e che, al di là del tempo trascorso, continuano a vivere solo nella memoria dei più anziani.
Ma, a questo punto della mia esposizione mi rendo conto di aver già scritto abbastanza e ho dunque consapevolezza dell’opportunità di sospendere, al momento, le mie argomentazioni, per riprenderle, se del caso, in altri momenti.
Certamente nella descrizione fin qui fatta sono stati omessi non pochi giochi della tradizione montellese così come è fuor dubbio che per quelli menzionati non mancano imprecisioni e confusioni ma, quel che per me conta è di essere riuscito - alla men peggio - a “ripescarli” nella maggioranza e ciò nella speranza che essi possano “rivivere”, se non nella pratica, almeno nella conoscenza dei giovani d’oggi in quanto ché “elementi costitutivi della propria storia e delle proprie origini”.
Con questa convinzione concludo esprimendo ogni riconoscenza possibile per la cortese e paziente attenzione fin qui a me accordata.
Alla ………prossima !
Lucca, 13 febbraio 2019
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